2020-11-24
L’eredità di Pansa. «Sono fiero di essere un revisionista»
La lezione del grande giornalista nella raccolta di scritti sulla Resistenza: va cambiato il modo di raccontare la Storia.Era il maggio 1959, avevo ventitré anni e mezzo ed ero uno studente dell'Università di Torino. Stavo per laurearmi in Scienze politiche, con una tesi di dimensioni mostruose, un mattone di ottocento pagine, già consegnata al professor Guido Quazza, l'incaricato di Storia contemporanea. In quell'epoca l'argomento era insolito per i lavori da presentare all'esame di laurea: la guerra partigiana nella mia provincia, tra Genova e il Po. Nello stesso mese, per l'esattezza il giorno 24, si tenne a Genova un convegno sulla Storiografia della Resistenza, organizzato dall'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia. Il padre di tutti gli Istituti della Resistenza fondati o da fondare nel nostro Paese. Il convegno aveva la solennità di una funzione religiosa. Affidata a due cardinali della ricerca storica sul fascismo e l'antifascismo. La relazione sull'antifascismo sino al 25 luglio 1943 era stata assegnata al cattolico Gabriele De Rosa. L'altra l'aveva scritta Roberto Battaglia. Era l'autore di uno studio imponente, pubblicato da Einaudi nel 1953: Storia della Resistenza italiana, un tomo di 623 pagine che avevo letto con grande attenzione e molto scetticismo. Oggi può sembrare assurdo che a un convegno di quel rilievo politico e accademico venisse concessa la parola a uno studente neppure laureato. Ma erano tempi ben più liberali di quelli odierni. E quando alzai la mano per intervenire, il presidente del convegno, Ferruccio Parri, uno dei leader della Resistenza, mi disse: «Parla pure anche tu». Ne approfittai per dare sfogo alla mia presunzione giovanile. E lo feci con la grinta di chi non esita a bestemmiare in chiesa. […] Suscitai subito molte reazioni negative tra il pubblico. Il più indignato si mostrò Vannuccio Faralli, socialista, il primo sindaco di Genova nel dopoguerra. Era un signore di 68 anni, ancora di bell'aspetto, la chioma bianca e la cravatta nera a fiocco dei socialisti ottocenteschi. Impugnava un prezioso bastone da passeggio e lo agitò in aria, scandendo: «Ma come? Ai convegni sulla storia della Resistenza adesso facciamo parlare anche i giovani fascisti?». Nel sentirmi dare del fascista, rimasi interdetto e mi bloccai. Ma dalla presidenza, Parri mi ordinò: «Vai avanti e di' quello che ti sembra giusto dire!». Continuai con la stessa grinta e conclusi, un po' ansioso, però non vinto. Quando la prima e unica giornata del convegno finì, mi sentivo con le pive nel sacco. Non mi restava che andare in stazione e prendere il treno per ritornare a casa. Mentre uscivo, Parri mi fermò: «Vieni a sederti accanto a me». Parri aveva 69 anni, capelli e baffi candidi, gli occhiali alzati sulla fronte, un sorriso mite, quasi paterno. Mi chiese: «Come ti senti dopo quello che ha detto Vannuccio?». Risposi crucciato: «Pensavo di aver detto cose utili a chi scrive sulla Resistenza e mi sono preso del fascista!». Lui mi replicò, paziente: «Sono assai più anziano e credo che tu abbia fatto bene a spiegarci come la pensi. Siete voi giovani che dovete tirare i sassi nei vetri. Così, quando i vetri si rompono, noi vecchi ci rendiamo conto che è venuto il momento di sostituirli. Per ringraziarti, mio caro spaccavetri, ti darò una borsa di studio. Non illuderti, è poca cosa, ma sono contento di offrirtela». Trasse dalla tasca interna della giacca un libretto di assegni del Credito italiano. E ne firmò uno da venticinquemila lire. In quel tempo era l'affitto di un mese per un buon bilocale, in un quartiere del centro di Torino.Prima di scrivere Bella ciao ho riletto il testo stenografico del mio intervento, pubblicato per intero sulla rivista dell'Istituto nazionale della Resistenza. Avevo parlato a braccio e il mio sproloquio occupava ben sette pagine. Con la boria tipica dei giovani, avevo contestato le storie generali della guerra di liberazione pubblicate sino a quel momento. E il mio bersaglio numero uno era la storia scritta da Battaglia. Perché tiravo i sassi soprattutto contro di lui? Lo compresi meglio in seguito, con più chiarezza che nel 1959. In realtà Battaglia era soltanto un uomo dello schermo, nel senso che dietro la sua figura, molto rispettabile, si celava una questione assai più grande e cruciale nella storiografia della Resistenza: il predominio assoluto dei memorialisti e degli storici comunisti. A ben guardare, poteva sembrare soltanto il riflesso di un altro dato di fatto: la prevalenza delle formazioni comuniste nei venti mesi di guerra civile. Tuttavia non si trattava di una circostanza dovuta solo a quanto era accaduto tra il 1943 e il 1945. C'era qualcosa di più. Il di più consisteva nel fatto che, subito dopo la fine della guerra civile, il Pci aveva imposto il proprio punto di vista sul nostro conflitto interno. Lo riassumo così: la Resistenza era stata soprattutto comunista, gli altri partiti o le altre posizioni politiche avevano recitato un ruolo molto secondario o pressoché inesistente. Da questo principio, conclamato di continuo e sempre ribadito, negli anni successivi sarebbe derivata una serie di conseguenze politiche e culturali. La più importante, che ancora oggi si fa sentire nell'atteggiamento degli eredi del partitone rosso, era di un rigore inflessibile: chi attacca il Pci attacca la Resistenza, chi sostiene che i comunisti volevano imporre una dittatura popolare d'impronta sovietica è soltanto un fascista mascherato, chi afferma che pure le Garibaldi avevano i loro scheletri nell'armadio è un falsario. Infine chi rievoca i delitti e le violenze compiute dopo il 25 aprile, quasi sempre da partigiani delle Garibaldi, è un figuro spregevole che deve essere zittito.Me ne sono reso conto di persona dopo l'uscita del Sangue dei vinti nel 2003 e dei miei libri successivi. Gli antagonisti rossi mi hanno dato la caccia. E fior di baroni accademici, gente che si ritiene l'unica titolata a occuparsi di storia della Resistenza, mi hanno messo al bando accusandomi di un reato per loro infame: il revisionismo storico. Una colpa ancora più grave perché commessa da chi non appartiene alla loro casta, un giornalista, un bastian contrario, un dilettante della ricerca storica. […]Qualcuno oggi sostiene che il Pansa è un autore arrogante, convinto di saperla sempre più lunga degli altri. Se è davvero così, debbo riconoscere che a ventitré anni e mezzo ero già un borioso formidabile, un contestatore tutto sommato cortese nella forma, però furibondo nella sostanza. Per cominciare sostenni che le storie della Resistenza pubblicate sino a quel momento erano tutte da riscrivere. Poiché risultavano zeppe di errori e basate su fonti deboli, per non dire fasulle, o gonfie di propaganda retorica, e perciò inattendibili. Dunque ritenevo necessaria «una prima opera di revisione» di quanto si era scritto sino ad allora. Nel rileggere il testo del mio intervento, oggi mi colpisce l'uso insistito di quel sostantivo e del verbo che ne deriva: «revisione», «revisionare». Nelle polemiche storiografiche di quegli anni non si usava ancora il termine «revisionista». Né per indicare un testo meritevole di scomunica, e meno che mai, al contrario, per affermare che la storia va sempre riscritta e dunque revisionata. Adesso l'accusa di revisionismo si spreca per tutti i testi che non seguono il codice dei Gendarmi della memoria resistenziale, un'immagine che fa da titolo a un mio libro del 2007. Qualcuno, come il sottoscritto, la considera una bandiera da sventolare con orgoglio.
Ecco #DimmiLaVerità dell'8 settembre 2025. Il generale Giuseppe Santomartino ci parla dell'attentato avvenuto a Gerusalemme: «Che cosa sta succedendo in Medio Oriente? Il ruolo di Hamas e la questione Cisgiordania».
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