2020-06-17
L’epidemia è antica ma ci sorprende sempre
Il trionfo della morte - Pieter Bruegel (Wikimedia Commons)
Dall'impero greco a quello romano, dalla «morte nera» raccontata da Giovanni Boccaccio fino alla pestilenza a Milano nel 1630, tutte le grandi infezioni hanno qualcosa in comune: la totale impreparazione al loro arrivo e la ricerca di un capro espiatorio.Molte delle nostre parole derivano dal greco. «Epidemia», per esempio, viene da «epì», che significa «sopra», «su», e «demos» che vuol dire «popolo». Sta dunque a indicare la diffusione di una malattia che colpisce un intero popolo. Quanto alla pandemia, quel «pan» significa «tutto», e ha finito per designare, oggi «tutta la popolazione mondiale».Di «epidemia» - o pestilenza, o altro - troviamo traccia prima di tutto in Omero. Il proemio dell'Iliade è notissimo: «Cantami, o Diva, del Pelide Achille l'ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei, molte anzi tempo all'Orco generose travolse alme d'eroi, e di cani e d'augelli orrido pasto lor salme abbandonò - così di l'alto consiglio s'adempìa -, da quando primamente disgiunse aspra contesa il re de' prodi Atride e il divo Achille. E qual de' numi inimicolli? Il figlio di Latona e Giove. Irato al Sire destò quel dio nel campo un feral morbo, e la gente perìa: colpa dell'Atride che fece a Crise sacerdote oltraggio…». Nell'Iliade, Agamennone - re di Micene - rapisce Criseide, figlia del sacerdote di Apollo, Crise. Questi chiede al re di restituirgli la figlia, ma Agamennone rifiuta. Il sacerdote si rivolge allora ad Apollo che, furioso, punisce gli Achei con una spaventosa epidemia - il «feral morbo» - che innesca una serie di vicende tragiche, sino ad arrivare alla morte del prode guerriero troiano Ettore per mano di Achille. La pestilenza, dunque, è vista come una punizione, un castigo per le colpe degli uomini. Anche l'Edipo re di Sofocle - andato in scena nel 413 a.C., o forse nel 425 a.C. - si apre con un'epidemia che imperversa su Tebe. I cittadini chiedono aiuto a Edipo per fermarla, scatenando conseguenze di vario genere. Ancora una volta il morbo è la conseguenza, la punizione divina di un gesto rimasto impunito, l'assassinio di re Laio. In Storia del Peloponneso, Tucidide dedica molte parti all'epidemia che colpisce Atene nel 430 a.C. e uccide il grande politico Pericle. Scoppia durante la guerra del Peloponneso, e dunque in condizioni particolari, dato che tutta la popolazione è momentaneamente chiusa in città. Nessuno sembra capace di trovare un rimedio o porre un argine. «In nessun luogo si aveva memoria di una pestilenza così grave e di una tale moria di persone. Infatti non erano in grado di fronteggiarla né i medici, che all'inizio prestavano le cure senza conoscerne la natura, e anzi erano i primi a morire poiché più degli altri si avvicinavano agli infermi, né altra arte di origine umana; ugualmente le suppliche nei santuari, il ricorso a oracoli e cose del genere, tutto si rivelò inutile; e alla fine, sopraffatti dalla sventura, rinunciarono a qualsiasi tentativo». Il mondo antico è travagliato da epidemie e Roma non fa eccezione, per cui diversi autori latini si soffermano sul tema. Nel De rerum natura di Lucrezio, nel I secolo a.C., si torna alla peste di Tucidide, ma stavolta la descrizione del male sembra suggerire ai lettori che si tratti di una malattia, più che un castigo divino. Virgilio racconta nelle Georgiche della peste del Norico e delle sue conseguenze, che colpiscono innanzitutto gli animali.Tutte le epidemie dell'antichità, nonché dei secoli successivi, hanno un ovvio punto in comune, e cioè la totale ignoranza delle cause e l'impossibilità di comprendere cosa fare. Si cercano e si cercheranno capri espiatori, facili responsabili su cui scaricare paure, ignoranza, crudeltà e interessi di parte; le «cacce alle streghe» e agli untori non sono lontane. Sono a volte gli ebrei a essere presi di mira oppure, dopo l'avvento del Cristianesimo, i cristiani. Nel 476 d. C. l'Impero romano d'Occidente collassa, come si sa, e si apre così ufficialmente il Medioevo che viene tradizionalmente diviso in «Alto Medioevo» e «Basso Medioevo». Le invasioni barbariche, l'impoverimento socio-economico, la crisi della politica e delle città, il disgregamento del tessuto connettivo, la mancanza di punti di riferimento (resta solo la Chiesa cattolica), l'avvento del feudalesimo, la diminuzione di traffici, le pessime condizioni sanitarie, tutto contribuisce a rendere malsicura, difficile e breve l'esistenza.Molte sono le carestie e le pestilenze che hanno travagliato il Medioevo - epoca comunque meno oscura, soprattutto nella seconda parte, di quello che si dica, anzi foriera della successiva rinascita. La «peste di Giustiniano», per esempio, si diffonde fra il 541 e il 542 a Costantinopoli e poi in tutto l'Impero, non risparmiando Giustiniano stesso (che alla fine guarirà). I morti saranno milioni e le conseguenze politiche, militari, sociali, demografiche, economiche e commerciali terribili. Fra le sue non secondarie ripercussioni, il rafforzamento degli Ostrogoti in Italia, il crollo della civiltà urbana, lo spopolamento di Roma, la crisi della penisola. La pestilenza ricomparirà più volte, sino al 750. Nella memoria collettiva, la più celebre rimane comunque la «peste nera» o «morte nera» del XIV secolo, che si diffonde dal 1346 al 1353 e poi torna a ondate successive. Chiamata anche «peste bubbonica», è provocata dal batterio Yersinia pestis e si trasmette agli esseri umani attraverso le pulci dei topi. Iniziata in Mongolia, propagatasi forse tramite le guerre fra mongoli e cinesi, raggiunge subito la Cina e i paesi limitrofi, quindi tutto il bacino mediterraneo, i Paesi balcanici, l'Italia, arrivando a flagellare quasi tutta l'Europa. Alcune regioni saranno però risparmiate, grazie alle misure drastiche di sovrani e governanti, che bloccheranno i confini. Secondo le cronache sembrerebbe che, in una fase iniziale, l'esercito mongolo avesse assalito Caffa, un avamposto genovese in Crimea, passaggio obbligato per la «Via dell'Oriente». L'esercito mongolo portava con sé le tristi stimmate della peste e, pur di vincere, non esitava a gettare i corpi delle vittime nella fortezza assediata. Allontanatisi per paura del contagio, molti degli assediati «esportavano» però la pandemia altrove. Si calcola che almeno un terzo della popolazione europea morirà e le conseguenze globali saranno devastanti. La descrizione forse più nota è quella che ne fa Giovanni Boccaccio nel Decameron, letteralmente «dieci giorni». Quelli che un gruppo di giovani (uomini e donne) passa in una villa fuori Firenze, raccontandosi storie e novelle, mentre altrove imperversa la peste. La parola viene dal latino pestis, cioè «rovina, epidemia», ma all'epoca è un'etichetta abbastanza imprecisa, comprendente diversi tipi di epidemie mortali. Viene detta «nera» perché nei malati si presentano macchie scure. Moltissime sono le descrizioni fatte in opere artistiche, siano libri o quadri (fra cui Il Trionfo della morte di Pieter Bruegel il Vecchio), e a essa si ispira La Danza macabra. Nella storia dell'umanità, del resto, moltissime sono state le epidemie, che a volte sono diventate pandemie, quasi sempre provocate da zoonosi, cioè da «un salto di specie» fra animali e esseri umani. Le conseguenze, il sovvertimento che hanno provocato sono enormi. Purtroppo, spesso si è cercato un capro espiatorio, qualcuno da considerare «responsabile». Nei Promessi Sposi, Alessandro Manzoni racconta la peste di Milano, causata dai lanzichenecchi e scatenatasi fra il 1629 e il 1630. Lo scrittore si sofferma sul tema dell'untore e sulla famosa frase «Dagli all'untore!». Un argomento che riprende in Storia della Colonna Infame, dove vengono raccontate le vicissitudini di due poveri innocenti - Giangiacomo Mora, barbiere, e Guglielmo Piazza, commissario di sanità - protagonisti di una vicenda effettivamente accaduta nel 1630. Mora e Piazza sono accusati «da una donnicciola del popolo» di essere responsabili del contagio del morbo per mezzo di sostanze misteriose, quindi suppliziati per estorcere loro la confessione e poi condannati a morte. È sempre Manzoni a scrivere, nei Promessi Sposi, la famosa chiosa: «Il buon senso c'era; ma se ne stava nascosto per paura del senso comune». Ed è al buon senso - nonché al rispetto per la natura e i propri simili - che occorre far ricorso nei frangenti più drammatici, per superarli e iniziare una nuova fase. Altrimenti vorrebbe dire che la Storia non insegna, o meglio, che da essa non si impara.
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