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2023-10-07
La sinistra urla al complotto sul video. La Lega rilancia: «La toga si dimetta»
Angelo Bonelli. Nel riquadro, Iolanda Apostolico nel video diffuso dalla Lega (Ansa)
«È pronta un’interrogazione al ministro, la faccenda va spiegata», firmato Pd. Chi pensa che il maggior partito della sinistra abbia colto il cuore del problema, che abbia intuito l’imbarazzo istituzionale provocato da un giudice come Iolanda Apostolico in prima fila a una manifestazione in cui volano insulti alla polizia («Assassini»), che stigmatizzi il conflitto d’interesse fra ideologia personale gruppettara e doverosa terzietà professionale, è chilometri fuori strada. Il dito indica la luna e il Nazareno guarda il dito. Con un riflesso condizionato da cane di Pavlov, non chiede chiarimenti sul comportamento della toga al corteo sul caso Diciotti, ma sul video che la smaschera.
Nell’esercizio di benaltrismo si distinguono i senatori Anna Rossomando e Valter Verini che preannunciano un’interrogazione al ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, per fare luce «su una vicenda incredibilmente grave». Sarebbe il filmato pubblicato da Matteo Salvini. Gridano al complotto, spostano l’obiettivo secondo una tecnica degli anni Settanta quando polizia faceva rima con Cia e Cossiga veniva scritto con la kappa. Travolti dalla nostalgia, si domandano: «Com’è uscito e da dove quel video?», «Chi l’ha confezionato?», «Esiste una centrale di dossieraggio al Viminale?». Così la questione dirimente non è più «cosa ci faceva la giudice in piazza con gli ultrà rossi» ma «chi ha ripreso con lo zoom il suo volto».
Prefigurando onirici scenari cileni digeribili solo con una finale di Coppa Davis, il Pd si inerpica sui sentieri della fantasia con un depistaggio al tempo stesso infantile e scoperto. Immediatamente supportato dall’alleanza Verdi e Sinistra di Angelo Bonelli e Filiberto Zaratti, che su quel video hanno presentato un esposto alla Procura di Roma «per indagare e valutare l’eventuale violazione dell’art. 326 che punisce la rivelazione di atti coperti da segreto d’ufficio». L’obiettivo è palesemente Salvini, questa volta senza scomodare le spie russe in impermeabile beige al Metropol.
Sull’argomento la polarizzazione è di nuovo totale, mentre la questura di Catania spiega che il filmato «non proviene da atti ufficiali», «né risulta menzionata la presenza del giudice Apostolico e del marito». Da una parte piddini e sinistra radicale sono alla ricerca della fantomatica «manina», dall’altra il centrodestra (soprattutto la Lega) chiede con una nota alla giudice Apostolico di lasciare la toga: «Dopo l’apprezzamento per gli insulti contro Salvini postati dal compagno e mai smentiti e dopo l’imbarazzante presenza a una manifestazione dell’estrema sinistra con la folla che insulta le forze dell’ordine, ora ci aspettiamo le dimissioni immediate. Per rispetto nei confronti di tutti gli italiani e delle istituzioni». Per suffragare la richiesta, il vicepremier posta una frase del costituzionalista Sabino Cassese: «I giudici sono gli unici detentori di un potere che nessun’altra parte dello Stato ha, quello di privare le persone del bene essenziale che è la libertà». Secondo il premier, Giorgia Meloni, la polemica attorno alla natura del video «è strumentale. Era una manifestazione pubblica e la giudice era lì, non c’è niente di occulto».
Curiosamente la vicenda arriva a spaccare l’opposizione. Giuseppe Conte (al tempo della manifestazione era premier) e Matteo Renzi (mai avuto feeling con le Procure) supportano infatti le posizioni dell’esecutivo; anche per loro la passeggiata del giudice a Catania tra i fanatici della sinistra radicale e l’obiettiva delegittimazione delle sue sentenze sui migranti, sono da stigmatizzare. Il primo sottolinea che «un giudice non solo deve essere imparziale ma anche apparire tale», il secondo va giù di randello: «Trovo scandaloso che un magistrato vada in piazza, se vuoi fare politica non fai il magistrato».
Più che un tintinnare di sciabole si nota uno sciabolare di code di paglia. È risaputo che alle manifestazioni «è prevista la presenza di agenti in borghese appartenenti alla Digos con compiti di osservazione e monitoraggio, e anche di eventuale mediazione con i manifestanti». Parole di Luciana Lamorgese, ex ministro dell’Interno quando spiegò l’assalto alla sede della Cgil a Roma e il gesto del poliziotto che testava la forza ondulatoria di una camionetta. Allora quel video non era considerato dal Pd bieco dossieraggio, ma «un doveroso presidio di democrazia». È curioso come i filmati diventino deliziosi spezzoni di Stanley Kubrick o fetidi documenti fatti circolare da barbe infiltrate a seconda delle convenienze.
Il braccio di ferro è destinato a trasferirsi in Parlamento, mentre gli indignados del video ripetono che «ai magistrati non può essere preclusa la libertà di esprimere il proprio pensiero», come se si trattasse del parere su un rigore non dato al Milan mentre dal bancone arrivano i bianchini. Il sommo Piero Calamandrei aveva idee lievemente diverse. «Il pericolo che incombe è la politicizzazione dei giudici; il magistrato che scambia il suo seggio per un palco non è più magistrato». Ancora più chiaro: «Occorre che terzietà e imparzialità siano assicurate sotto il profilo dell’apparenza. Il giudice dovrebbe consumare i suoi pasti in assoluta solitudine». Se avesse visto il video gli sarebbe andato di traverso il brodino.
Per il precedente di Cioffi tutti zitti
Era felice perché la sera prima il suo Napoli aveva battuto la Roma e allora era andato a festeggiare con degli amici al bar di un hotel di Ischia. Ma in quello stesso albergo, fino a poche ore prima, c’era stata una convention di Forza Italia. Erano rimaste le bandiere e lui, Giuseppe Cioffi, giudice penale che doveva giudicare i fratelli del potente deputato forzista Luigi Cesaro, fu costretto ad astenersi dopo una violenta canea. Furono scattate alcune immagini e una fotografia di quell’innocente caffè della domenica venne pubblicata da Repubblica. Apriti cielo! Ecco a voi il giudice con il cuore che batte per Forza Italia.
Alla luce del caso odierno di Iolanda Apostolico, va detto che per Cioffi nessuno chiese da quale archivio venissero quelle foto.
L’appuntamento elettorale del partito fondato da Silvio Berlusconi era andato in scena in un hotel nelle giornate del 14 e 15 ottobre 2017. Il caffè incriminato è della domenica pomeriggio. La sera prima Lorenzo Insigne aveva segnato per la prima volta all’Olimpico e aveva guidato il Napoli alla vittoria sulla Roma. Lo scandalo per la presenza del magistrato esplode a scoppio ritardato tre mesi dopo, ovvero il 30 gennaio 2018, quando alcuni giornali raccontano che avrebbe partecipato a un appuntamento di partito, con Repubblica che aggiunge anche una foto di Cioffi mentre ride con gli amici. Sullo sfondo, ci sono quelle maledette bandiere. Se fosse vera la partecipazione a un appuntamento politico, in effetti sarebbe un problema. All’epoca Cioffi era il presidente del collegio giudicante al processo contro Aniello e Raffaele Cesaro, fratelli del senatore Luigi Cesaro.
Il povero Cioffi tenta subito di spiegare all’Ansa che era lì per altri motivi. «Quando si tenne la convention», ricostruisce il magistrato, «io ero a Ischia in una casa privata e non ho assolutamente partecipato alla riunione». Il giorno dopo, quando era tutto finito «ma le bandiere di partito non erano state ancora rimosse», va in quell’albergo a prendere il caffè con alcuni amici, uno dei quali aveva preso parte alla convention. «Era domenica 15 ottobre, una bellissima giornata ed ero particolarmente felice per la vittoria del Napoli all’Olimpico contro la Roma», spiega il magistrato. Che poi aggiunge un particolare su cui nessuno ha vergato editoriali: «Quella foto è stata estrapolata per attaccare me e la magistratura». Estrapolare non è un verbo banale e un magistrato ne conosce il significato. Il giorno dopo l’esplodere dello scandalo, Cioffi ribadisce di sentirsi sereno e di non voler minimamente astenersi.
Si scatenano le polemiche, con il Pd e i 5 stelle che chiedono subito la rimozione del giudice con le consuete prediche sull’indipendenza della magistratura. Il ministro della Giustizia dell’epoca, Andrea Orlando (Pd) dispone accertamenti e nel giro di 24 ore, il 31 gennaio, il Csm apre un fascicolo su Cioffi, affidando il caso alla prima commissione, competente sui trasferimenti d’ufficio per incompatibilità ambientale e funzionale.
In quei giorni maledetti, a Cioffi viene pure contestato di aver dato l’amicizia su Facebook a un altro pezzo grosso di Forza Italia come Nicola Cosentino, che lo scorso aprile si è visto confermare dalla Cassazione una condanna a dieci anni per concorso esterno con la Camorra. Il giudice si difese così: «Cosentino? Lo conobbi a Roma quando era sottosegretario, ma non l’ho mai frequentato così come non sono mai stato vicino a Forza Italia. Fu lui, oltre dieci anni fa, a chiedermi l’amicizia su Facebook, che peraltro uso pochissimo».
Alla fine, per evitare guai e trasferimenti, ai primi di febbraio di quel 2018 il giudice presenta richiesta di astensione dal processo ai fratelli Cesaro e la chiude lì. Era talmente «un politico», che quattro anni dopo, quando si candida da indipendente per lo stesso Csm, Cioffi prende la miseria di 20 voti.
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Il Pd e i rossoverdi di Bonelli parlano di dossieraggio contro la Apostolico. E presentano un’interrogazione e un esposto. Il premier: «Polemica strumentale». La questura: «Il filmato non risulta tra gli atti ufficiali».Il magistrato Giuseppe Cioffi si astenne dal processo Cesaro perché accusato di aver partecipato nel 2017 a una convention di Forza Italia. Ma respinse le accuse: «In hotel per un caffè».Lo speciale contiene due articoli.«È pronta un’interrogazione al ministro, la faccenda va spiegata», firmato Pd. Chi pensa che il maggior partito della sinistra abbia colto il cuore del problema, che abbia intuito l’imbarazzo istituzionale provocato da un giudice come Iolanda Apostolico in prima fila a una manifestazione in cui volano insulti alla polizia («Assassini»), che stigmatizzi il conflitto d’interesse fra ideologia personale gruppettara e doverosa terzietà professionale, è chilometri fuori strada. Il dito indica la luna e il Nazareno guarda il dito. Con un riflesso condizionato da cane di Pavlov, non chiede chiarimenti sul comportamento della toga al corteo sul caso Diciotti, ma sul video che la smaschera.Nell’esercizio di benaltrismo si distinguono i senatori Anna Rossomando e Valter Verini che preannunciano un’interrogazione al ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, per fare luce «su una vicenda incredibilmente grave». Sarebbe il filmato pubblicato da Matteo Salvini. Gridano al complotto, spostano l’obiettivo secondo una tecnica degli anni Settanta quando polizia faceva rima con Cia e Cossiga veniva scritto con la kappa. Travolti dalla nostalgia, si domandano: «Com’è uscito e da dove quel video?», «Chi l’ha confezionato?», «Esiste una centrale di dossieraggio al Viminale?». Così la questione dirimente non è più «cosa ci faceva la giudice in piazza con gli ultrà rossi» ma «chi ha ripreso con lo zoom il suo volto». Prefigurando onirici scenari cileni digeribili solo con una finale di Coppa Davis, il Pd si inerpica sui sentieri della fantasia con un depistaggio al tempo stesso infantile e scoperto. Immediatamente supportato dall’alleanza Verdi e Sinistra di Angelo Bonelli e Filiberto Zaratti, che su quel video hanno presentato un esposto alla Procura di Roma «per indagare e valutare l’eventuale violazione dell’art. 326 che punisce la rivelazione di atti coperti da segreto d’ufficio». L’obiettivo è palesemente Salvini, questa volta senza scomodare le spie russe in impermeabile beige al Metropol. Sull’argomento la polarizzazione è di nuovo totale, mentre la questura di Catania spiega che il filmato «non proviene da atti ufficiali», «né risulta menzionata la presenza del giudice Apostolico e del marito». Da una parte piddini e sinistra radicale sono alla ricerca della fantomatica «manina», dall’altra il centrodestra (soprattutto la Lega) chiede con una nota alla giudice Apostolico di lasciare la toga: «Dopo l’apprezzamento per gli insulti contro Salvini postati dal compagno e mai smentiti e dopo l’imbarazzante presenza a una manifestazione dell’estrema sinistra con la folla che insulta le forze dell’ordine, ora ci aspettiamo le dimissioni immediate. Per rispetto nei confronti di tutti gli italiani e delle istituzioni». Per suffragare la richiesta, il vicepremier posta una frase del costituzionalista Sabino Cassese: «I giudici sono gli unici detentori di un potere che nessun’altra parte dello Stato ha, quello di privare le persone del bene essenziale che è la libertà». Secondo il premier, Giorgia Meloni, la polemica attorno alla natura del video «è strumentale. Era una manifestazione pubblica e la giudice era lì, non c’è niente di occulto». Curiosamente la vicenda arriva a spaccare l’opposizione. Giuseppe Conte (al tempo della manifestazione era premier) e Matteo Renzi (mai avuto feeling con le Procure) supportano infatti le posizioni dell’esecutivo; anche per loro la passeggiata del giudice a Catania tra i fanatici della sinistra radicale e l’obiettiva delegittimazione delle sue sentenze sui migranti, sono da stigmatizzare. Il primo sottolinea che «un giudice non solo deve essere imparziale ma anche apparire tale», il secondo va giù di randello: «Trovo scandaloso che un magistrato vada in piazza, se vuoi fare politica non fai il magistrato».Più che un tintinnare di sciabole si nota uno sciabolare di code di paglia. È risaputo che alle manifestazioni «è prevista la presenza di agenti in borghese appartenenti alla Digos con compiti di osservazione e monitoraggio, e anche di eventuale mediazione con i manifestanti». Parole di Luciana Lamorgese, ex ministro dell’Interno quando spiegò l’assalto alla sede della Cgil a Roma e il gesto del poliziotto che testava la forza ondulatoria di una camionetta. Allora quel video non era considerato dal Pd bieco dossieraggio, ma «un doveroso presidio di democrazia». È curioso come i filmati diventino deliziosi spezzoni di Stanley Kubrick o fetidi documenti fatti circolare da barbe infiltrate a seconda delle convenienze.Il braccio di ferro è destinato a trasferirsi in Parlamento, mentre gli indignados del video ripetono che «ai magistrati non può essere preclusa la libertà di esprimere il proprio pensiero», come se si trattasse del parere su un rigore non dato al Milan mentre dal bancone arrivano i bianchini. Il sommo Piero Calamandrei aveva idee lievemente diverse. «Il pericolo che incombe è la politicizzazione dei giudici; il magistrato che scambia il suo seggio per un palco non è più magistrato». Ancora più chiaro: «Occorre che terzietà e imparzialità siano assicurate sotto il profilo dell’apparenza. Il giudice dovrebbe consumare i suoi pasti in assoluta solitudine». Se avesse visto il video gli sarebbe andato di traverso il brodino.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lega-apostolico-dimissioni-2665822591.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="per-il-precedente-di-cioffi-tutti-zitti" data-post-id="2665822591" data-published-at="1696626696" data-use-pagination="False"> Per il precedente di Cioffi tutti zitti Era felice perché la sera prima il suo Napoli aveva battuto la Roma e allora era andato a festeggiare con degli amici al bar di un hotel di Ischia. Ma in quello stesso albergo, fino a poche ore prima, c’era stata una convention di Forza Italia. Erano rimaste le bandiere e lui, Giuseppe Cioffi, giudice penale che doveva giudicare i fratelli del potente deputato forzista Luigi Cesaro, fu costretto ad astenersi dopo una violenta canea. Furono scattate alcune immagini e una fotografia di quell’innocente caffè della domenica venne pubblicata da Repubblica. Apriti cielo! Ecco a voi il giudice con il cuore che batte per Forza Italia. Alla luce del caso odierno di Iolanda Apostolico, va detto che per Cioffi nessuno chiese da quale archivio venissero quelle foto. L’appuntamento elettorale del partito fondato da Silvio Berlusconi era andato in scena in un hotel nelle giornate del 14 e 15 ottobre 2017. Il caffè incriminato è della domenica pomeriggio. La sera prima Lorenzo Insigne aveva segnato per la prima volta all’Olimpico e aveva guidato il Napoli alla vittoria sulla Roma. Lo scandalo per la presenza del magistrato esplode a scoppio ritardato tre mesi dopo, ovvero il 30 gennaio 2018, quando alcuni giornali raccontano che avrebbe partecipato a un appuntamento di partito, con Repubblica che aggiunge anche una foto di Cioffi mentre ride con gli amici. Sullo sfondo, ci sono quelle maledette bandiere. Se fosse vera la partecipazione a un appuntamento politico, in effetti sarebbe un problema. All’epoca Cioffi era il presidente del collegio giudicante al processo contro Aniello e Raffaele Cesaro, fratelli del senatore Luigi Cesaro. Il povero Cioffi tenta subito di spiegare all’Ansa che era lì per altri motivi. «Quando si tenne la convention», ricostruisce il magistrato, «io ero a Ischia in una casa privata e non ho assolutamente partecipato alla riunione». Il giorno dopo, quando era tutto finito «ma le bandiere di partito non erano state ancora rimosse», va in quell’albergo a prendere il caffè con alcuni amici, uno dei quali aveva preso parte alla convention. «Era domenica 15 ottobre, una bellissima giornata ed ero particolarmente felice per la vittoria del Napoli all’Olimpico contro la Roma», spiega il magistrato. Che poi aggiunge un particolare su cui nessuno ha vergato editoriali: «Quella foto è stata estrapolata per attaccare me e la magistratura». Estrapolare non è un verbo banale e un magistrato ne conosce il significato. Il giorno dopo l’esplodere dello scandalo, Cioffi ribadisce di sentirsi sereno e di non voler minimamente astenersi. Si scatenano le polemiche, con il Pd e i 5 stelle che chiedono subito la rimozione del giudice con le consuete prediche sull’indipendenza della magistratura. Il ministro della Giustizia dell’epoca, Andrea Orlando (Pd) dispone accertamenti e nel giro di 24 ore, il 31 gennaio, il Csm apre un fascicolo su Cioffi, affidando il caso alla prima commissione, competente sui trasferimenti d’ufficio per incompatibilità ambientale e funzionale. In quei giorni maledetti, a Cioffi viene pure contestato di aver dato l’amicizia su Facebook a un altro pezzo grosso di Forza Italia come Nicola Cosentino, che lo scorso aprile si è visto confermare dalla Cassazione una condanna a dieci anni per concorso esterno con la Camorra. Il giudice si difese così: «Cosentino? Lo conobbi a Roma quando era sottosegretario, ma non l’ho mai frequentato così come non sono mai stato vicino a Forza Italia. Fu lui, oltre dieci anni fa, a chiedermi l’amicizia su Facebook, che peraltro uso pochissimo». Alla fine, per evitare guai e trasferimenti, ai primi di febbraio di quel 2018 il giudice presenta richiesta di astensione dal processo ai fratelli Cesaro e la chiude lì. Era talmente «un politico», che quattro anni dopo, quando si candida da indipendente per lo stesso Csm, Cioffi prende la miseria di 20 voti.
Ansa
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
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Il 43,8 % degli italiani ha detto di non ritenerla utile. «È una riflessione importante», osservava Ghisleri nel programma Realpolitik di Tommaso Labate su Rete 4, «perché vorrebbe dire che la legge sul consenso verrebbe utilizzata come deterrente, ma non sarebbe utile perché manca l’educazione». Ricordiamo che la legge, che introduce nel Codice penale il concetto di «consenso libero e attuale», è stata approvata all’unanimità alla Camera e presentata come un accordo bipartisan tra il premier Giorgia Meloni e il segretario del Pd, Elly Schlein. In commissione Giustizia, la coalizione di governo ha chiesto un nuovo passaggio, scatenando la reazione dell’opposizione che ha parlato di un «voltafaccia», di patto politico tradito. Ancor più singolare è che, nel sondaggio, sia stato il 37,6% delle donne a non ritenere la norma sullo stupro utile a scoraggiare o impedire la violenza sessuale, rispetto a un 38,8% convinto che serva. Perciò, se il 51,6% degli italiani interpellati crede che sia necessaria una legge che inasprisca il reato, ridefinendone le modalità (il ddl torna questa settimana in commissione a Palazzo Madama), la maggior parte di questo campione non lo considera un deterrente effettivo.
Inevitabile chiedersi il senso, allora, di una legge che complica all’inverosimile l’onere della prova di un consenso non «libero e attuale» (e il non poterlo provare può diventare equivalente all’aver commesso il reato), mentre poco inciderebbe nella protezione delle donne. Non la crede utile non solo l’elettorato di centrodestra (47,9% delle risposte, rispetto al 38,2% di «sì»), ma anche una bella fetta di coloro che votano a sinistra (34,3% i «no», 43,3 % i «sì»). E se può non sorprendere che il 53,6% degli elettori di Fratelli d’Italia abbia detto di con credere alla legge come prevenzione di episodi di violenza, è significativo che la pensi allo stesso modo il 38,5% di quanti votano Pd e che appena il 36,5% dei dem la consideri, invece, utile.
Quindi nei due partiti rappresentati da Giorgia Meloni e da Elly Schlein sono più forti le perplessità, circa l’approvazione del ddl come misura deterrente. Quanto all’impatto del reato di violenza sessuale riformato sulla base di un accordo Meloni-Schlein, restano sempre forti le riserve degli italiani. Non tanto perché non serva una legge dura (oltre il 53% sia a sinistra sia a destra si dice a favore), ma in quanto non risulta ben formulata. Non definisce che cosa costituisce consenso, anche nelle forme non verbali e nemmeno chiarisce quali elementi probatori possono dimostrarlo o escluderlo. «Si pensa che questi requisiti di libertà e attualità siano puntualizzati a tutela della donna e a vincolo e controllo per l’uomo: anche qui siamo di fronte a un ribaltamento concettuale e fisico della prova, spesso sono le donne che prendono l’iniziativa e non si può “pregiudizialmente” pensare al maschio come attaccante-persecutore, attizzatore di incendi passionali che si trasformano in atti di coercizione nel “fare” e nell’insistere», osservava due giorni fa su Startmag Francesco Provinciali, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano.
Fanno pensare, inoltre, gli esiti di un altro sondaggio che è stato riportato sempre da Ghisleri. «Abbiamo chiesto quali sono le paure più grandi (degli italiani, ndr), al primo posto ci sono le aggressioni e le minacce (22,7%), seguite da rapine in casa (20,5%), furti e rapine (19,4%), truffe e frodi (16,6%)». La violenza sessuale risultava solo al quinto posto (9,4%) come preoccupazione. Eppure, dai primi dati emersi dall’indagine 2025 sulla violenza contro le donne condotta dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e l’Istat denominata «Sicurezza delle donne», risultano aumentate «dal 30,1% al 36,3% le vittime che considerano un reato la violenza subita dal partner e raddoppia la percentuale delle richieste di aiuto ai Centri antiviolenza e gli altri servizi specializzati (dal 4,4 del 2014 all’8,7% del 2025)».
Evidentemente, la certezza della pena non è un deterrente. Rispetto al passato, c’è una diversa sensibilità verso la violenza sessuale e i diversi contenuti giuridici che il reato ha assunto nel tempo, però occorrono strategie volte all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza, formando operatori (dalla scuola alla magistratura, passando per i servizi sociali). Serve rendere operativo ovunque il percorso di tutela per le donne che hanno subito violenza e perseguire chi l’ha provocata. Discutere di pertinenza e liceità all’interno della coppia, criminalizzando a priori, non argina la violenza sessuale.
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Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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