2025-01-27
Le toghe rotte si contraddicono. E l’Anm frigna: «Nordio non ci parla»
Carlo Nordio a destra (Ansa)
Rimostranze confuse: per Nicola Gratteri i pubblici ministeri saranno troppo deboli, per il pg Luigi Salvato, invece, troppo forti. Flop dell’Aventino anti governo: da Napoli a Torino, ha aderito solo una frazione dei giudici in organico.All’indomani delle proteste delle toghe contro la riforma della giustizia, gli elementi che colpiscono di più sono la confusione, la mancanza di compattezza del dibattito e le numerose contraddizioni interne alla magistratura. Non esiste una coerenza e sui temi della riforma ognuno va per sé. Lo si capisce sfogliando i giornali e ascoltando le dichiarazioni di diversi togati. Nicola Gratteri, procuratore capo di Napoli, come sospettavano in molti, ha deciso di disertare la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario alla quale era presente anche il ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Gratteri ha rinunciato, convinto che siano «troppe le accuse rivolte alla magistratura» e, nella stessa giornata, in un’intervista rilasciata a Repubblica, ha spiegato le sue ragioni. Partendo dalla separazione delle carriere, che «serve solo a indebolire il pubblico ministero», finendo alla questione intercettazioni. Ma se per Gratteri l’obiettivo della separazione delle carriere è quello di «indebolire i pm», per il procuratore generale della Cassazione Luigi Salvato, i magistrati inquirenti, dopo la riforma, rischiano di acquisire ancora più potere. Salvato, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, evidenzia che «non esistono ragioni valide per andare oltre la totale separazione delle funzioni tra giudici e pm che già esiste. E le principali criticità addotte per giustificare la separazione delle carriere non verranno affatto risolte dalla sua introduzione. Anzi, si rischia di aggravarle». E spiega perché: «Quando l’accusatore apparterrà a un corpo separato tenderà ad allargarsi. Perché la riforma non tocca l’indipendenza e l’autonomia del pm garantiti attualmente, e dunque ci troveremo di fronte a un pm che conserva struttura e status del giudice, ma separato, e quindi più forte. Realizzando una vera e propria eterogenesi dei fini». Insomma, sulla separazione delle carriere c’è evidente confusione e non è chiaro in base a quali argomenti bisognerebbe opporvisi. Ma il caos alberga anche in altri campi.Dopo l’evidente mancanza di rispetto istituzionale dimostrata dai magistrati nei confronti del Parlamento (per usare parole della prima presidente della Corte di Cassazione, Margherita Cassano, che invece invocava rispetto da entrambe le parti), alcune toghe vorrebbero negare anche l’istituto del referendum. Alla faccia di democrazia e partecipazione e a proposito di poteri assoluti. È il caso di Gherardo Colombo, che in un’altra intervista rilasciata al Qn, si esprime così: «Spero che non si arrivi al referendum, ma si cambi la rotta, perché è estremamente grave ciò che sta succedendo. Se qualcosa non funziona bisogna correggerla, ripeto, ma stando sempre ancorati alla Costituzione». Poi, sulla separazione delle carriere, in qualche modo dà credito a chi ritiene che dopo la riforma i pm acquisirebbero più potere. Per l’ex pm di Mani pulite, «la separazione delle carriere vuol dire avere due Csm, vuol dire ostacolare la possibilità che l’organizzazione degli uffici sia fatta insieme, vuol dire trasformare ancora di più il pm in una specie di organo il cui unico intento è ottenere la condanna piuttosto che verificare se le persone hanno o non hanno commesso un reato. Sono tutte cose che vanno contro il cittadino». Le contraddizioni tra le linee di pensiero interne alla magistratura erano già emerse d’altro canto venerdì scorso, quando in occasione dell’inaugurazione dell’Anno giudiziario in Cassazione, Margherita Cassano, articolava un intervento più «politico», mentre il procuratore generale Salvato, metteva in guardia dal «populismo giudiziario». Altro intervento controcorrente lo ha espresso il vice presidente del Csm, Fabio Pinelli, che è andato oltre. Dopo aver sottolineato la mancanza di convergenza tra politica e magistratura, ha anche esortato le toghe a cambiare passo: «Negli ultimi 50 anni», ha detto Pinelli, «il potere giudiziario si è espanso moltissimo e oggi siamo in una fase di riequilibrio, che ha spinto la politica a toccare anche aspetti dell’architettura costituzionale». Infine, ha messo l’accento sui rischi del correntismo fra le toghe, parlando di «degenerazione» e ha suggerito di uscire dalla logica dell’autotutela e di evitare in ogni modo l’autoisolamento della magistratura.È evidente, insomma, che la magistratura, oltre a non avere dialogo con la politica, non ha aperto neanche un dialogo interno. «Una guerra di religione», la definisce il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto: «Il muro è stato alzato dai giudici. Uscire dall’aula ha significato negare la soggezione dei magistrati soltanto alla legge, come scritto nell’articolo 101 della Carta. Un gesto indicativo di belligeranza». Dall’Anm, invece, si continua a sostenere la tesi contraria. «Non abbiamo chiuso al dialogo. La verità è che un dialogo non si è mai aperto quindi non abbiamo potuto chiuderlo», ha lamentato il presidente, Giuseppe Santalucia. In ogni caso, sulle adesioni alle proteste, i dati parlano chiaro. A Napoli, il distretto più grande d’Italia, solo 200 magistrati su un totale di 1.165 in organico hanno aderito all’iniziativa. E a gonfiare i numeri c’erano anche ex togati, chiamati ad animare il presidio. A Roma, su 1.067 magistrati, appena una cinquantina è uscita dall’aula quando ha preso la parola il sottosegretario di Palazzo Chigi, Alfredo Mantovano. Numeri irrisori anche a Torino: circa 50 «protestanti» su 618 togati. A Milano, 150 su 765; a Bologna, un centinaio su 528; anche a Firenze, circa un centinaio su 500 magistrati. Genova, in proporzione, la più animata: ad abbandonare l’aula circa 100 togati sui 329 che conta il distretto.
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