2022-08-31
La blasfemia si veste d’arte con la scusa di Putin
L’11 settembre sbarcano a Milano le attiviste russe, presentate come fossero delle virtuose della musica e dello spettacolo. In realtà, quando si limitavano a suonare, nessuno se le filava. Solo con una serie di performance blasfeme è arrivata la gloria.Dopo i tuffi dal tender a Cavallò e il weekend detox a Cortina, il milanese che il sindaco Beppe Sala predilige - e l’unico di cui si preoccupa - non vede l’ora di eccitarsi con la libbra di rivoluzione che gli spetta per rendere meno noioso il ritorno all’ape e al monopattino. Così domenica 11 settembre alle 10 di sera (a San Siro non gioca nessuno) i radical chic del Municipio 1 hanno un appuntamento imperdibile: le Pussy riot al Teatro Arcimboldi, l’ora della partecipazione, della protesta, della via alternativa alla democrazia. E se Vladimir Putin stravince la guerra dentro la bolletta del ceto medio italiano, i vip che la fanno pagare dal commercialista e i centri sociali che non ne hanno mai pagata una (ci pensa il Comune piddino, che peraltro patrocinerà la serata delle Pussy) possono ballare e strillare in sintonia con le ribelli di professione alla modica cifra di 23 euro.La tappa italiana è unica e non poteva essere che Milano, così conformista e lunare, ad accogliere a braccia aperte «il collettivo artistico di protesta femminista nato a Mosca», come recita il comunicato che lancia la prevendita dei biglietti. Lo sbadiglio parte già alla lettura della spiegazione della performance: «Riot Days è live music, teatro, video, per uno show innovativo sinonimo di fluidità di genere, inclusività, matriarcato, amore, decentramento, anarchia, antiautoritarismo». Manca resilienza, si prega di rimediare. Per il resto là dentro c’è il modernariato post marxista all’amatriciana che attira l’attenzione degli happy few della sinistra in movimento, dai circoli Arci alle Sardine, e si trasforma in un minestrone insapore destinato a contenere tutto e a non restituire (in emozione) niente: dal Black Lives Matter all’utero in affitto, dal «Fuck Putin» che non cambia di una virgola le nostre sorti alle torte in faccia senza l’autoironia di Stanlio e Ollio. Le Pussy riot sono tre, Nadia, Masha e Katya, ma non si capisce bene se ci saranno tutte dal vivo. Poco importa, ciò che conta sono i testi che, sempre a leggere le fanfare ufficiali, «parlano di femminismo, dei diritti Lgbt e dell’opposizione al presidente russo Putin, considerato un dittatore». Curioso percorso quello delle tre ragazze punk rock che suonavano così male da non interessare a nessuno, quando decisero di diventare oppositrici del sistema: un successo planetario. Dal palco alla piazza e ritorno. Una volta battezzate dalla cultura ufficiale progressista come paladine dei diritti, nessuno ha più perso tempo con gli accordi e gli svarioni: ecco le star. Erano attiviste, ora sono performer. Nella società occidentale non c’è differenza, si passa facilmente dalla protesta al teatro perché spesso dietro la teatralità della protesta c’è il Nulla assoluto. Se avesse voluto, tre anni fa Carola Rackete sarebbe stata acclamata in tour con Jovanotti alle feste dell’Unità. Un destino che le Pussy riot conoscono bene. Diventarono famose nel 2012; dopo imbarazzanti schitarrate e scialbe manifestazioni contro la morale e la religione, decisero di alzare il tiro e si presentarono con una performance blasfema a Mosca nel tempio di Cristo Salvatore, la chiesa in cui si svolgono le cerimonie ufficiali fra Stato russo e gerarchia religiosa ortodossa. La sceneggiata fu da loro ripresa e messa su Internet, accompagnata da insulti a Putin e al patriarca Kirill.Vennero ovviamente arrestate con l’accusa di «teppismo e istigazione all’odio religioso» e condannate a due anni (amnistiate dalla Duma dopo un anno abbondante); fu il detonatore della popolarità. È curioso notare la differenza di reazioni fra opinione pubblica russa e occidentale. «Secondo l’Istituto indipendente Levada i russi percepirono in quell’esibizione un’offesa alla propria sensibilità religiosa e alle proprie tradizioni, e sollecitarono un intervento pubblico di condanna», si legge nel bel saggio Guerra e Pace al tempo di Putin di Marco Bertolini e Giuseppe Ghini (Cantagalli editore). In Occidente fu tutta un’altra storia, la propaganda antirussa funzionò in automatico. Le tre teppiste pop vennero considerate «prigioniere di coscienza» da Amnesty International, il governo statunitense protestò, quello francese arrivò di rincorsa e cantanti che non le avrebbero volute nemmeno come coriste a bocca chiusa, le trasformarono in martiri: Peter Gabriel, Courtney Love, Madonna, Yoko Ono, Patty Smith, Sting, Vasco Rossi. Per tutti loro - poiché non si trattava di bersagli musulmani (gente seria che se la lega al dito) - le Pussy riot avevano diritto di bestemmiare allegramente in chiesa a Mosca. La loro preghiera punk è stata nominata dal Guardian una delle massime opere d’arte visiva del 21º secolo.Riot Days racconta queste e altre imprese simili, fra provocazioni sessuali e linguaggio tossico, tanto che per i non feticisti della «ribellione permanente» è difficile distinguere le Pussy dalle Femen, cugine ucraine con la specialità delle corse dietro i potenti con i seni al vento. Folclore. A Milano andrà soprattutto in scena la storia di Maria Alyokhina (Mascia), diretta da Yury Muravitsky, uno dei principali registi teatrali russi. Lo show è già stato in tournée in tutto il mondo occidentale (Europa, Stati Uniti, Australia) con 200 spettacoli e serve anche per raccogliere fondi in cryptovalute a favore della causa ucraina e del diritto all’aborto in America. Le Pussy riot che non sapevano suonare ce l’hanno fatta, a forza di bestemmie ora collaborano anche con Banksy. Il circolino dei ribelli da tinello è completo. Quanta nostalgia dei Sex Pistols.
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