2023-09-15
Le norme anti porno esistono: applichiamole
Costituzione e codice penale prevedono che pubblicazioni e spettacoli «osceni» siano vietati. Dagli anni Settanta in poi, però, le maglie si sono allargate per far prosperare l’industria a luci rosse. Basterebbe tornare allo spirito originario delle leggi...Presidente di sezione a riposo della Corte di Cassazione L’ottima Silvana De Mari, nel suo articolo comparso sulla Verità dell’11 settembre scorso, ha messo in luce, con estrema efficacia, sulla base di considerazioni di ineccepibile valenza scientifica, le devastanti conseguenze, non solo per i minori ma anche per gli adulti, della massiccia ed incontrollata diffusione della pornografia. Ma la pornografia, in Italia, non sarebbe vietata? La risposta, in linea teorica, è sicuramente positiva. L’art. 21 della Costituzione stabilisce, infatti, testualmente, che: «Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni». E l’art. 528 del codice penale, pur dopo le modifiche introdotte con il D.L.vo n. 8 del 2016, continua a prevedere come reato, punibile con la reclusione da tre mesi a tre anni, oltre che con una multa, il fatto di chi «adopera qualsiasi mezzo di pubblicità atto a favorire la circolazione e il commercio» di oggetti qualificabili come «osceni», come pure il fatto di chi «dà pubblici spettacoli teatrali e cinematografici, ovvero audizioni o recitazioni pubbliche, che abbiano carattere di oscenità». È, inoltre, soggetta a sanzione amministrativa la condotta (anch’essa, in precedenza, sanzionata penalmente) di chi, «allo scopo di farne commercio o distribuzione ovvero di esporli pubblicamente, fabbrica, introduce nel territorio dello Stato, acquista, detiene, esporta ovvero mette in circolazione scritti, disegni, immagini od altri oggetti osceni di qualsiasi specie». E vanno considerati «osceni», ai sensi dell’art. 529 del codice penale, tutti «gli atti e gli oggetti che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore», salvo che siano qualificabili come «opera d’arte» od «opera di scienza». Fino ai primi anni Settanta del secolo scorso queste norme erano abbastanza efficacemente osservate, limitandosi la pornografia a circolare (come sempre era avvenuto) in modo più o meno clandestino, fidando sulla scarsa attenzione di quanti avrebbero avuto l’obbligo istituzionale di reprimerla, ovvero puntando ad accreditarsi (specie nel campo degli spettacoli teatrali e cinematografici) come «opera d’arte». Le cose cominciarono a cambiare in conseguenza del progressivo affermarsi delle visioni libertarie che caratterizzavano i movimenti nati a partire dal mitico 1968. Iniziò la produzione e la diffusione, mediante i normali canali di distribuzione, di pubblicazioni a stampa «per soli uomini», caratterizzate da immagini sempre più esplicite di attività sessuali, come pure la produzione e la diffusione nelle pubbliche sale cinematografiche cosiddette «a luci rosse» di film aventi analoghe connotazioni, senza alcuna pretesa, neppure enunciata, di qualsivoglia finalità di arte e di scienza. Il tutto nella sostanziale acquiescenza delle pubbliche autorità, tranne qualche sporadico intervento che, di solito, per una ragione o per l’altra, finiva nel nulla. Il fatto che, però, in qualche occasione, si fosse proceduto penalmente anche nei confronti di edicolanti che avevano messo in vendita, tra le normali pubblicazioni a stampa, anche quelle aventi carattere di oscenità, ritenendo di non avere obbligo o facoltà di sottoporle a quella che sarebbe stata una sorta di «censura», indusse all’emanazione di un’apposita legge in loro favore. Era la legge n. 355 del 1975, con la quale si stabilì che i rivenditori autorizzati di giornali e riviste non rispondessero del reato previsto dall’art. 528 del codice penale alla semplice condizione che, nel caso di pubblicazioni di un certo tipo, si astenessero dal «rendere immediatamente visibili al pubblico» le parti di esse che fossero «palesemente oscene». Fu un primo, grave cedimento, non tanto per l’impunità concessa agli edicolanti quanto per l’implicita ammissione che la sempre più massiccia diffusione di stampa pornografica, pur se ancora formalmente soggetta a sanzione penale nei confronti dei produttori, fosse divenuta (come, di fatto, era divenuta) inarrestabile. Un secondo, e ancor più grave, cedimento, fu poi quello costituito da un orientamento giurisprudenziale che cominciò a manifestarsi con una sentenza della Cassazione (la n. 14018 del 1986) la quale escluse che costituisse reato la proiezione di film osceni nelle sale a «luci rosse», essendovi consentito l’accesso soltanto a soggetti di età adulta. Ciò sulla base di una interpretazione palesemente riduttiva e distorta di quello che la legge (come si è visto) definisce come «comune sentimento» del pudore, dovendo questo rapportarsi alla sensibilità dei comuni cittadini e non soltanto a quella di coloro che accedono, per loro gusto personale, alla fruizione di spettacoli pornografici. Il che rientrerebbe pienamente anche nella lettera e nello spirito del già ricordato art. 21 della Costituzione, giacché il «buon costume» è quello sentito come tale dalla generalità dei cittadini e comprende anche, per il principio che nel più c’è il meno, l’osservanza del pudore, nella misura da essi comunemente percepita come necessaria. Eppure l’indirizzo espresso dalla suddetta sentenza, dopo iniziali contrasti, ha finito per trovare l’avallo della Sezioni unite della Cassazione (sentenza n. 5 del 1995) con riferimento non più soltanto alle proiezioni di film nelle sale «a luci rosse» (col tempo cadute in disuso), ma anche alla diffusione di qualsiasi materiale osceno che, pur destinato al pubblico, non sia, tuttavia, indiscriminatamente esposto alla pubblica vista. Per questa via non poteva, quindi, che giungersi alla situazione attuale, nella quale i siti «porno» imperversano impunemente e chiunque, con un semplice «clic», può collegarsi ad essi, con l’unica limitazione, prevista da apposite (ma facilmente eludibili), norme del codice penale, che non contengano immagini di minori. Un valido rimedio a questa situazione non potrebbe certamente trovarsi (come sembrerebbe essere invece nelle intenzioni del governo) nell’obbligatorio apprestamento di accorgimenti che impedissero, di fatto, l’accesso dei minorenni ai siti porno. A parte, infatti, la scarsa probabilità che tali accorgimenti non possano essere, in qualche modo, neutralizzati, rimarrebbe comunque pressoché immutato il danno sociale derivante - come dimostrato dalla De Mari - dall’abnorme e capillare diffusione della pornografia tra gli adulti. Per eliminare, o almeno ridurre, questo danno l’unica via sarebbe quella di ridare vigore all’art. 21 della Costituzione, rivedendo, a tal fine, anche l’interpretazione sostanzialmente abrogatrice che, come si è visto, è stata data alle norme che prevedono ancora, teoricamente, come reato la violazione del troppo facilmente bistrattato «comune sentimento» del pudore. Ma l’intraprendere una tale via richiederebbe un coraggio tale da superare, forse, ogni umana possibilità.
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