2020-06-10
Le manovre di repubblicani anti Trump
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La fronda dei repubblicani anti Trump torna a farsi sentire? Stando a quanto recentemente riferito dal New York Times, alcuni big dell'elefantino sarebbero seriamente intenzionati a votare per il candidato democratico, Joe Biden, il prossimo novembre. Si parla, nella fattispecie, dell'ex presidente, George W. Bush, e del senatore dello Utah, Mitt Romney.A dire il vero, almeno per il momento, i diretti interessati non hanno confermato. Il portavoce di Bush, Freddy Ford, ha definito le affermazioni del New York Times «completamente inventate», mentre Romney ha detto che non ha vuole rivelare per chi voterà il prossimo novembre. Per adesso, l'unico a prendere nettamente posizione è stato l'ex segretario di Stato di Bush jr, Colin Powell, che - domenica scorsa - ha dato il proprio endorsement a Biden.Come che sia, al di là delle smentite, non è certo un mistero che un pezzo dell'establishment repubblicano non sopporti Donald Trump. E che i suddetti nomi fossero quantomeno dubbiosi sul sostenere l'attuale presidente il prossimo novembre, è cosa nota. Nel 2016, Powell disse che avrebbe votato per Hillary Clinton, mentre Romney si rifiutò di dare il proprio sostegno a Trump. Quello stesso Romney che, a febbraio, ha votato in Senato a favore di uno dei capi d'imputazione per l'impeachment contro Trump e che, più in generale, si è sempre presentato come punto di riferimento per quei repubblicani (invero ormai poco numerosi) che non nutrono troppa stima per l'attuale presidente. Che poi i Bush non abbiano granché in simpatia Trump, non è certo un mistero. Non solo il miliardario distrusse il fratello di George Walker, Jeb, alle primarie repubblicane del 2016, ma lo stesso George H. W. Bush dichiarò che, alle presidenziali di quell'anno, avrebbe votato per la Clinton. Trump, dal canto suo, fece campagna elettorale attaccando spesso George W. Bush sulla guerra in Iraq. E questo contribuì a scavare un fossato sempre più profondo tra il magnate newyorchese e la potente dinastia repubblicana.Va detto che i cosiddetti Never Trump del Partito repubblicano siano oggi politicamente molto più deboli di quattro anni fa. All'epoca, molti di loro controllavano posizioni strategiche in seno al partito. E, attraverso il loro potere, si impegnarono non poco, per cercare di mettere i bastoni tra le ruote all'ascesa elettorale di Trump. D'altronde, anche dopo la sua vittoria, quel mondo, pur indebolito a causa di numerose defezioni, ha continuato a resistere, coagulandosi principalmente attorno al senatore John McCain. La strategia dei Never Trump era abbastanza chiara: puntare su una debacle repubblicana alle elezioni di metà mandato del 2018 per contendere seriamente all'attuale presidente la nomination del partito nel 2020. Quell'appuntamento elettorale si è tuttavia concluso con un pareggio. E questo ha rappresentato un duro colpo per i Never Trump. D'altronde, le elezioni di metà mandato non costituivano la loro unica speranza di azzoppare il presidente. La fronda si augurava infatti che il rapporto del procuratore speciale Robert Mueller sul Russiagate potesse imprimere qualche feroce scossone alla Casa Bianca. Eppure, anche in questo caso, i Never Trump sono rimasti delusi, visto che quell'indagine si è nei fatti conclusa in una bolla di sapone. Tutto ciò non ha fatto che indebolire questo fronte, che oggi nel Partito Repubblicano risulta ormai fortemente minoritario.In fondo, il punto è anche capire quale sia il senso politico di una simile fronda oggi. L'interpretazione "romantica" vede i Never Trump impegnati a salvaguardare gli "autentici" valori del Partito repubblicano dall'attuale presidente, considerato poco più che un usurpatore. Ora, che Trump stia cercando di cambiare in parte il Dna che l'elefantino ha presentato negli ultimi quarant'anni, è fuori discussione. Così come è comprensibile che una simile linea possa suscitare dei moti di resistenza intestini. Resta tuttavia il fatto che la storia dei principali partiti americani sia costellata da rivoluzioni interne. E che comunque oggi l'indice di approvazione tra gli elettori repubblicani per Trump risulti elevato. L'interpretazione "romantica" poteva quindi avere un valore nel 2016. Oggi sembra invece un po' più difficile da accettare. Il punto è quindi un altro. E chiama in causa la natura più profonda del trumpismo.I principali repubblicani che oggi avversano il presidente sono infatti parte integrante di quell'establishment politico cui Trump ha costantemente dichiarato guerra. Un establishment - attenzione - di natura fondamentalmente bipartisan: un establishment a cui appartengono storicamente i Clinton, i Bush e - ormai da alcuni anni - gli stessi Obama. Un establishment che ora più che mai si sente minacciato. Soprattutto a causa dei documenti, recentemente diffusi dal Director of National Intelligence, sulle origini dell'inchiesta Russiagate. Documenti che stanno sollevando dubbi sulla genuinità dell'operato dell'amministrazione Obama nella fase di transizione presidenziale. La solidità di quell'indagine e le sue effettive motivazioni si stanno rivelando sempre più problematiche. E se è ancora troppo presto per capire se Trump abbia ragione a parlare di un Obamagate, è comunque un dato di fatto che i principali funzionari dell'amministrazione Obama coinvolti nel (fallimentare) Russiagate fossero figure legate all'amministrazione di George W. Bush: James Clapper (come sottosegretario alla Difesa), James Comey (come viceministro della Giustizia), Robert Mueller (come direttore dell'Fbi) e John Brennan (come direttore ad interim del centro del controterrorismo). Sarà un caso? Insomma, più che difendere i valori di Lincoln e Reagan, i repubblicani Never Trump sembrano inseriti in una serrata lotta di potere, che ha ben poco di ideale. E Trump deve ricordare che in definitiva, anziché tra i democratici, gli avversari più pericolosi se li è sempre ritrovati in casa propria.
Nel riquadro Roberto Catalucci. Sullo sfondo il Centro Federale Tennis Brallo
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