
La propaganda europeista lega il costo delle rate della casa all'andamento dello spread. È una bufala: l'indice di riferimento è stabile (e negativo) da mesi. Il dem Giorgio Gori propala la baggianata che chi possiede Btp ha perso denaro. Sbagliato: solo vendendo ci si rimette.Spread in salita e Borse a picco. Da giorni il Web e la carta stampata sono riempiti di titoli che gridano all'apocalisse. Centinaia di miliardi «bruciati» a Piazza Affari e il costo dei mutui che dovrebbe salire alle stelle. Ma è davvero tutto così? L'aumento del differenziale tra Btp e Bund è davvero l'interruttore che «dà il la» alla fine dell'economia italiana e che prosciuga le tasche degli italiani? In realtà no.Partiamo da un concetto semplice, ma che molti si dimenticano facilmente: non esiste alcun nesso di causa e effetto tra l'aumento dello spread e il costo di un mutuo. Certo, non è mai una buona notizia quando il differenziale sale, ma non è sempre detto che si debba mettere il casco e il salvagente per salvarsi dal disastro. La realtà è questa: le obbligazioni (sia statali che societarie) altro non sono che un prestito. Lo Stato (in questo caso l'Italia) chiede denaro agli obbligazionisti (che glielo danno comprando Btp) e in cambio, a una determinata scadenza, l'emittente di turno si impegna a rimborsare quanto prestato. Il vantaggio è chiaro: a scadenza, chi ha comprato obbligazioni riotterrà i soldi indietro più un rendimento. Il problema è che quando lo spread Btp-Bund sale significa che i titoli di Stato italiani valgono meno. Questo vuol dire che lo Stato sarà obbligato a proporre rendimenti più alti per invogliare gli investitori a comprare obbligazioni dal valore più basso. In parole povere, per richiedere una certa quantità di denaro, ora il governo italiano dovrà spendere di più. Per dare qualche dato che inquadri il fenomeno, nel 2017 l'Italia ha speso 70,3 miliardi in oneri finanziari per pagare gli interessi verso i creditori. Tutto ciò, però, non significa che a ogni «fiammata» dello spread i mutui siano per forza più alti. In primis, vale la pena ricordare che il problema al massimo potrebbe riguardare i nuovi mutui o chi ha scelto un prodotto a tasso variabile.Anche in questo caso, però, non è tutto così scontato. È vero che l'esposizione ai bond sovrani contribuisce ad aumentare il profilo di rischio degli istituti, perché ogni trimestre devono riportare al valore di mercato il prezzo dei Btp in portafoglio e intaccano così il loro patrimonio. In poche parole, se il valore dei Btp scende, gli istituti bancari si trovano ad avere in pancia un qualcosa che vale di meno. Per rifinanziarsi ed evitare un aumento di capitale che con l'attuale incertezza politica sarebbe di difficile realizzazione, le banche potrebbero cercare di ottenere nuova liquidità alzando il costo dei mutui. Ma anche in questo caso, si tratta degli interessi che le banche chiedono, non dell'Euribor, l'indice con cui si calcola il costo di questi finanziamenti, che non ha nulla a che vedere con il differenziale Btp-Bund. Indice che, come si nota dalla tabella, è negativo - e stabile - da mesi e mesi. Senza considerare che, perché ciò avvenga, l'innalzamento dello spread dovrebbe essere ben più alto (si stima intorno ai 400-450 punti base) e duraturo. La giornata di ieri, per intenderci, si è chiusa a quota 299,4, un valore alto ma che abbiamo già visto in più occasioni: il 29 maggio 2018 siamo arrivati, ad esempio a 303. Senza considerare che ai tempo del governo Monti (e ancor prima con Berlusconi) la soglia dei 300 sarebbe stata considerata una manna, avendo superato in più occasioni quota 500. Ciononostante il prezzo del denaro e dei mutui negli ultimi anni ha continuato a rimanere basso. Certamente il merito è tutto di Mario Draghi e con il suo programma di riacquisto da parte dell'Ue che finirà con il 2018. È più probabile quindi, come dicono molti esperti, che a partire dal 2019 i tassi dei nuovi mutui riprendano a salire, ma in questo caso Salvini, Di Maio e Conte non c'entrano nulla. Inoltre, è bene ricordare che in finanza c'è una legge che non si può cambiare: finché non si vende, non si perde nulla. Quindi anche se il valore di un bond scende, fino al momento della sua vendita non si brucia un bel niente e chi lo possiede può dormire più o meno tranquillo nella speranza che il valore torni a salire.Giusto ieri Giorgio Gori scriveva su Twitter che chi ha comprato 10.000 euro di Btp a maggio, oggi ne possiede 8.500. Questa è una falsità. Solo se si vende, si perde. Fino a quel momento 10.000 euro restano 10.000 euro (inflazione permettendo).Lo stesso vale per Piazza Affari e le Borse in generale. Se un mercato sale o scende, non c'è nulla che prende fuoco. Ieri la Borsa di Milano ha chiuso con una lieve crescita dell'1,06%. Non si è materializzato nulla. Perdite o guadagni si realizzano solo al momento della vendita. Certo, potenzialmente, chi ha acquistato titoli di Piazza Affari, se avesse venduto (bisogna poi considerare l'andamento del singolo titolo) probabilmente potrebbe aver ottenuto una plusvalenza. Insomma, è il caso di spiegare quale sia davvero la situazione: l'economia italiana è in una fase di incertezza (che non è certo iniziata con l'attuale esecutivo), ma le tasche degli italiani, almeno per il momento, non ne stanno risentendo. Politica e finanza non vanno di pari passo come si potrebbe credere e i flussi di denaro non scompaiono e ricompaiono come fantasmi.D'altro canto è pur vero che questa incertezza non può andare avanti troppo a lungo e il primo problema da tener presente è quello legato ai patrimoni delle banche (e quindi dei correntisti). Inoltre l'incertezza, sempre nel medio periodo, rischia di creare un'ondata di vendite che potrebbe danneggiare più le aziende italiane quotate che non i piccoli risparmiatori. Il problema riguarda quindi più le banche e le società quotate al momento. Per ancora qualche mese, chi ha un mutuo può quindi stare relativamente tranquillo. Poi i costi potrebbero salire, ma la colpa non è della politica.
Il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il direttore de La Verità Maurizio Belpietro
Il terzo panel dell’evento de La Verità ha approfondito la frontiera dell’eolico offshore con l’intervista condotta dal direttore Maurizio Belpietro a Riccardo Toto, direttore generale di Renexia. L’azienda, nata nel 2012 e attiva in Italia e all’estero nel settore delle rinnovabili, del fotovoltaico, delle infrastrutture e della mobilità elettrica, ha illustrato le proprie strategie per contribuire alla transizione energetica italiana.
Toto ha presentato il progetto di eolico offshore galleggiante al largo delle coste siciliane, destinato a produrre circa 2,7 gigawatt di energia rinnovabile. Un’iniziativa che, secondo il direttore di Renexia, rappresenta un’opportunità concreta per creare nuova occupazione e una filiera industriale nazionale: «Stiamo avviando una fabbrica in Abruzzo che genererebbe 3.200 posti di lavoro. Le rinnovabili oggi sono un’occasione per far partire un mercato che può valere fino a 45 miliardi di euro di valore aggiunto per l’economia italiana».
L’intervento ha sottolineato l’importanza di integrare le rinnovabili nel mix energetico, senza prescindere dal gas, dalle batterie e in futuro anche dal nucleare: elementi essenziali non solo per la sicurezza energetica ma anche per garantire crescita e competitività. «Non esiste un’economia senza energia - ha detto Toto - È utopistico pensare di avere solo veicoli elettrici o di modificare il mercato per legge». Toto ha inoltre evidenziato la necessità di una decisione politica chiara per far partire l’eolico offshore, con un decreto che stabilisca regole precise su dove realizzare i progetti e investimenti da privilegiare sul territorio italiano, evitando l’importazione di componenti dall’estero. Sul decreto Fer 2, secondo Renexia, occorre ripensare i tempi e le modalità: «Non dovrebbe essere lanciato prima del 2032. Serve un piano che favorisca gli investimenti in Italia e la nascita di una filiera industriale completa». Infine, Toto ha affrontato il tema della transizione energetica e dei limiti imposti dalla legislazione internazionale: la fine dei motori a combustione nel 2035, ad esempio, appare secondo lui irrealistica senza un sistema energetico pronto. «Non si può pensare di arrivare negli Usa con aerei a idrogeno o di avere un sistema completamente elettrico senza basi logiche e infrastrutturali solide».
L’incontro ha così messo in luce le opportunità dell’eolico offshore come leva strategica per innovazione, lavoro e crescita economica, sottolineando l’urgenza di politiche coerenti e investimenti mirati per trasformare l’Italia in un hub energetico competitivo in Europa.
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2025-09-15
Il Made in Italy alla prova della sostenibilità: agricoltura, industria e finanza unite nella transizione
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Da sinistra, Leonardo Meoli (Group Head of Sustainability Business Integration), Marzia Ravanelli (direttrice Quality & Sustainability) di Bonifiche Feraresi, Giuliano Zulin (La Verità) e Nicola Perizzolo (project engineer)
Dalla terra di Bonifiche Ferraresi con Marzia Ravanelli (direttrice Quality & Sustainability), ai forni efficienti di Barilla con Nicola Perizzolo (project engineer), fino alla finanza responsabile di Generali con Leonardo Meoli (Group Head of Sustainability Business Integration): tre voci, un’unica direzione. Se ne è discusso a uno dei panel dell’evento de La Verità al Gallia di Milano.
Al panel su Made in Italy e sostenibilità, moderato da Giuliano Zulin, vicedirettore de La Verità, tre grandi realtà italiane si sono confrontate sul tema della transizione sostenibile: Bonifiche Ferraresi, la più grande azienda agricola italiana, Barilla, colosso del food, e Generali, tra i principali gruppi assicurativi europei. Tre prospettive diverse – la terra, l’industria alimentare e la finanza – che hanno mostrato come la sostenibilità, oggi, sia al centro delle strategie di sviluppo e soprattutto della valorizzazione del Made in Italy. «Non sono d’accordo che l’agricoltura sia sempre sostenibile – ha esordito Marzia Ravanelli, direttrice del Gruppo Quality & Sustainability di Bonifiche Ferraresi –. Per sfamare il pianeta servono produzioni consistenti, e per questo il tema della sostenibilità è diventato cruciale. Noi siamo partiti dalla terra, che è la nostra anima e la nostra base, e abbiamo cercato di portare avanti un modello di valorizzazione del Made in Italy e del prodotto agricolo, per poi arrivare anche al prodotto trasformato. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di farlo nel modo più sostenibile possibile».
Per Bf, quotata in Borsa e con oltre 11.000 ettari coltivati, la sostenibilità passa soprattutto dall’innovazione. «Attraverso l’agricoltura 4.0 – ha spiegato Ravanelli – siamo in grado di dare al terreno solo quello di cui ha bisogno, quando ne ha bisogno. Così riduciamo al minimo l’uso delle risorse: dall’acqua ai fitofarmaci. Questo approccio è un grande punto di svolta: per anni è stato sottovalutato, oggi è diventato centrale». Ma non si tratta solo di coltivare. L’azienda sta lavorando anche sull’energia: «Abbiamo dotato i nostri stabilimenti di impianti fotovoltaici e stiamo realizzando un impianto di biometano a Jolanda di Savoia, proprio dove si trova la maggior parte delle nostre superfici agricole. L’agricoltura, oltre a produrre cibo, può produrre energia, riducendo i costi e aumentando l’autonomia. È questa la sfida del futuro». Dall’agricoltura si passa all’industria alimentare.
Nicola Perizzolo, project engineer di Barilla, ha sottolineato come la sostenibilità non sia una moda, ma un percorso strutturale, con obiettivi chiari e risorse ingenti. «La proprietà, anni fa, ha preso una posizione netta: vogliamo essere un’azienda di un certo tipo e fare business in un certo modo. Oggi questo significa avere un board Esg che definisce la strategia e un piano concreto che ci porterà al 2030, con un investimento da 168 milioni di euro».Non è un impegno “di facciata”. Perizzolo ha raccontato un esempio pratico: «Quando valutiamo un investimento, per esempio l’acquisto di un nuovo forno per i biscotti, inseriamo nei costi anche il valore della CO₂ che verrà emessa. Questo cambia le scelte: non prendiamo più il forno standard, ma pretendiamo soluzioni innovative dai fornitori, anche se più complicate da gestire. Il risultato è che consumiamo meno energia, pur garantendo al consumatore lo stesso prodotto. È stato uno stimolo enorme, altrimenti avremmo continuato a fare quello che si è sempre fatto».
Secondo Perizzolo, la sostenibilità è anche una leva reputazionale e sociale: «Barilla è disposta ad accettare tempi di ritorno più lunghi sugli investimenti legati alla sostenibilità. Lo facciamo perché crediamo che ci siano benefici indiretti: la reputazione, l’attrattività verso i giovani, la fiducia dei consumatori. Gli ingegneri che partecipano alle selezioni ci chiedono se quello che dichiariamo è vero. Una volta entrati, verificano con mano che lo è davvero. Questo fa la differenza».
Se agricoltura e industria alimentare sono chiamate a garantire filiere più pulite e trasparenti, la finanza deve fare la sua parte nel sostenerle. Leonardo Meoli, Group Head of Sustainability Business Integration di Generali, ha ricordato come la compagnia assicurativa lavori da anni per integrare la sostenibilità nei modelli di business: «Ogni nostra attività viene valutata sia dal punto di vista economico, sia in termini di impatto ambientale e sociale. Abbiamo stanziato 12 miliardi di euro in tre anni per investimenti legati alla transizione energetica, e siamo molto focalizzati sul supporto alle imprese e agli individui nella resilienza e nella protezione dai rischi climatici». Il mercato, ha osservato Meoli, risponde positivamente: «Vediamo che i volumi dei prodotti assicurativi con caratteristiche ESG crescono, soprattutto in Europa e in Asia. Ma è chiaro che non basta dire che un prodotto è sostenibile: deve anche garantire un ritorno economico competitivo. Quando riusciamo a unire le due cose, il cliente risponde bene».
Dalle parole dei tre manager emerge una convinzione condivisa: la sostenibilità non è un costo da sopportare, ma un investimento che rafforza la competitività del Made in Italy. «Non si tratta solo di rispettare regole o rincorrere mode – ha sintetizzato Ravanelli –. Si tratta di creare un modello di sviluppo che tenga insieme produzione, ambiente e società. Solo così possiamo guardare al futuro».In questo incrocio tra agricoltura, industria e finanza, il Made in Italy trova la sua forza. Il marchio non è più soltanto sinonimo di qualità e tradizione, ma sempre di più di innovazione e responsabilità. Dalle campagne di Jolanda di Savoia ai forni di Mulino Bianco, fino alle grandi scelte di investimento globale, la transizione passa per la capacità delle imprese italiane di essere sostenibili senza smettere di essere competitive. È la sfida del presente, ma soprattutto del futuro.
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Boldrini ed eurodeputati si inginocchiarono per George Floyd, un nero pluripregiudicato. Per Kirk, un giovane che ha difeso strenuamente i valori cristiani e occidentali, è stato negato il minuto di silenzio a Strasburgo. Ma il suo sangue darà forza a molti.
La transizione energetica non è più un concetto astratto, ma una realtà che interroga aziende, governi e cittadini. Se ne è discusso al primo panel dell’evento de La Verità al Gallia di Milano, dedicato a «Opportunità, sviluppo e innovazione del settore energetico. Hub Italia», con il presidente di Ascopiave Nicola Cecconato, la direttrice Ingegneria e realizzazione di Progetti di Terna Maria Rosaria Guarniere e la responsabile ESG Stakeholders & Just Transition di Enel Maria Cristina Papetti.
A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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