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2018-05-31
Le armate rosse a difesa del Colle fanno il gioco degli europeisti
ANSA
Il dramma esistenziale e psicologico della sinistra italiana lo ha espresso perfettamente, ieri su Repubblica, Concita De Gregorio. In un'articolessa impregnata di lacrime, gridava: «Ridateci una politica dove più dello spread contano le persone». Slogan fenomenale. Peccato che alla signora sia sfuggito un particolare: i primi difensori della «politica dello spread», in queste ore, sono proprio i progressisti di area Partito democratico e consimili. Faticano a spiegarlo ai loro elettori, e soprattutto a sé stessi, ma si sono schierati compatti a difesa dei «mercati», dei «burocrati che evocano lo spread» (così li ha definiti, sempre su Repubblica, Massimo Giannini) e dei falchi tedeschi. Per la serie: Pd, dove la d sta per Deutschland.
Lo spettacolo che offrono è grottesco. Carlo Calenda, dopo aver fatto sapere di essere pronto alla resistenza, non è ancora salito sui monti armato di fucile. Però, tramite intervista al Corriere della Sera, ha dichiarato: «Bisogna presentarsi con un Fronte repubblicano, un simbolo diverso e una lista unica, coinvolgendo tutte quelle forze della società civile e tutti quei movimenti politici che vogliono unirsi per salvare il Paese dal sovranismo anarcoide di Di Maio e Salvini.La guida c'è già, si chiama Paolo Gentiloni». Che meraviglia, un Fronte repubblicano unito, schierato come un sol uomo a sostegno del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Cioè l'uomo che non ha voluto Paolo Savona al ministero dell'Economia per via delle sue posizioni critiche sull'euro.
Sono tutti pronti a intervenire. Maurizio Martina ha dato l'approvazione. Matteo Renzi si è precipitato a complimentarsi con Calenda. Laura Boldrini, alla disperata ricerca di un carretto a cui aggrapparsi, ha scritto su Twitter: «Di fronte all'attacco al presidente della Repubblica Mattarella e di fronte al rischio di una pericolosa deriva populista e sovranista è necessario che tutte le forze progressiste decidano di allearsi alle prossime elezioni». Persino Beatrice Lorenzin si è scoperta barricadera: «Più che ministro della Salute, oggi, mi sento una cittadina italiana ingaggiata sul fronte della difesa delle nostra Repubblica», ha cinguettato (refuso compreso).
Eccola lì, l'invincibile armata progressista, sincera e democratica, pronta a sacrificare la vita pur di tutelare l'inquilino del Quirinale. Sono così entusiasti, i novelli corazzieri, da non rendersi conto che si stanno coalizzando per dare man forte a biechi personaggi come Günther Oettinger, l'uomo secondo cui «i mercati insegneranno agli italiani a votare nel modo giusto». Le posizioni che questo fantomatico Fronte repubblicano dovrebbe esprimere sono le stesse che abbiamo potuto leggere sui giornali tedeschi, ovvero quelli che ci accusavano di essere «scrocconi» e «peggiori dei mendicanti».
Da un lato, dunque, l'intellighenzia dem chiede un mondo governato dai buoni sentimenti e da un'umanità profonda, dall'altro si inginocchia di fronte ai mercati come uno schiavo davanti alla frusta del padrone. Nella loro tragedia senza fine, i progressisti italiani muovono quasi a compassione. Sapete chi ha proposto, giusto ieri, di creare un fronte unico contro i populisti? Indovinate un po'... Proprio lui, Jean Claude Juncker, il presidente della Commissione Ue ad alto tasso alcolico. Biascicando a Strasburgo di fronte alla riunione plenaria del Parlamento europeo, ha dichiarato: «Vorrei che tutti noi ci impegnassimo in una sorta di contratto contro il populismo galoppante che possiamo vedere in Europa e in tutti i Paesi, compreso il mio». Fantastico: Calenda, Renzi e la Boldrini possono contare su un alleato in più. E che alleato...
Aspettate, però, perché il meglio deve ancora venire. Non appena ha sentito ragliare di Fronte repubblicano e sinistra unita, a precipitarsi fuori dal sarcofago è stato anche un'altra divinità del pantheon democratico: Romano Prodi, nientemeno. In un editoriale uscito ieri sul Messaggero, L'ex premier sotto forma di insaccato ha inteso analizzare la complicata situazione politica, esprimendo più di una preoccupazione: «Tutto questo sta trasformando radicalmente il quadro delle prossime elezioni: non si tratta più di una contesa fra i partiti ma di un referendum fra coloro che vedono il nostro futuro insieme alle altre democrazie europee e coloro che ci vogliono fuori dall'Euro e quindi dall'Europa, come un vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro». Chiarissimo: la prossima tornata elettorale sarà in realtà un referendum sull'Europa. I famigerati «populisti» non lo hanno né proposto né evocato, ma pare che il Pd e simili ci tengano parecchio. Dunque, dice Prodi, bisogna che la sinistra si prodighi per mettere «il cittadino italiano di fronte alle nefaste conseguenze che l'uscita dall'Euro e la rottura dei legami con l'Europa porterebbero alla nostra economia e alla nostra sicurezza».
Sono le stesse idee di Oettinger, di Juncker, del governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco («il destino dell'Italia è quello dell'Europa»).
Insomma, i due fronti sono chiari. Da una parte c'è chi difende il popolo italiano e la sua sovranità. Dall'altro ci sono le burocrazie europee e i rappresentanti dei cosiddetti «mercati», entità demoniaca delle peggiori. Ovviamente, i progressisti italiani sono fieramente posizionati sul lato dei mercati. Lo ha notato addirittura Stefano Fassina: «Prodi, Calenda, Pd, fermatevi!», ha scritto. «La vostra analisi e la conseguente proposta, alimentata dalle spiegazioni al no a Paolo Savona, è foriera di sciagura e contribuisce attivamente a spingere l'Italia nel baratro».
C'è di positivo che, almeno, gli amici sinistri sono venuti allo scoperto. Hanno finalmente esplicitato il loro legame potente con il neoliberismo. Come ha scritto il filosofo francese Jean Claude Michea, essi «non hanno più altro ideale concreto da proporre se non la dissoluzione continua e sistematica dei modi di vivere specifici delle classi popolari - e la dissoluzione delle loro ultime conquiste sociali - nel moto perpetuo della crescita globalizzata». Si sono venduti, e adesso vogliono svendere pure noi.
Francesco Borgonovo
E i giornali economici esteri assolvono i populisti per il caos in cui ci troviamo
Sui grandi giornali economici internazionali, il problema non sono Salvini e Di Maio. Il rischio Italia dipende più dal Colle e dalla struttura stessa dell'eurozona. Come nella Lettera rubata, il romanzo di Edgar Allan Poe, se vuoi nascondere qualcosa a volte basta metterla in evidenza, sul tavolo, teoricamente sotto gli occhi di tutti: ed è probabile che nessuno se ne accorga.
Così, nell'altalena di questi giorni dello spread (l'altro ieri impennatosi oltre quota 300, e ieri ridisceso a livelli meno impressionanti), c'è un elemento di grande rilievo, eppure poco citato: nell'ultimo periodo, come si sa, è iniziata la contrazione del Quantitative easing da parte della Bce di Mario Draghi. Non si tratta tanto della quantità di titoli acquistati (nell'ultima settimana gli acquisti di Btp sarebbero anche aumentati da parte della Bce), ma resta sullo sfondo il tema di un inesorabile progressivo ridursi delle garanzie: e anche questa prospettiva potrebbe aver contribuito, secondo alcuni osservatori non marginalmente, alla salita dello spread.
I difensori della Bce avanzeranno due argomenti. Primo: già da gennaio Francoforte aveva annunciato una progressiva riduzione del programma del Qe, e non certo per volontà di Draghi. Secondo: dopo il «leak» di una decina di giorni fa che aveva improvvidamente rivelato alcuni aspetti discutibili delle prime bozze di intesa M5s-Lega, un po' tutte le istituzioni finanziarie avevano dato un segnale complessivo di «stretta». Argomenti veri: ma resta il fatto oggettivo della coincidenza temporale tra un momento difficile per l'Italia e l'avvio della riduzione del programma del Qe.
Anche gli avversari di Draghi (e Ignazio Visco) hanno un argomento forte, ben al di là della contesa sul Qe. Forse qualcuno aveva sbagliato i conti, perfino inducendo il Quirinale a un clamoroso errore di valutazione:
sì presidente, stoppa Paolo Savona (che spaventa i mercati) e metti Carlo Cottarelli, che li rassicura, e vedrai che le cose andranno bene. E' successo esattamente il contrario: l'apparizione di Cottarelli ha provocato una catastrofe l'altro ieri (altro che l'auspicato «Cottarelli rebound»), mentre ieri è bastato il suo «congelamento» per far calare la febbre, sia dello spread che delle Borse, che hanno avuto una giornata di respiro. Non è difficile immaginare che anche nel board della Bce i falchi tedeschi porranno qualche domanda a Draghi su tutte queste valutazioni.
Intanto, se ieri si è tirato un minimo sospiro sui mercati, a tenere le fiamme alte sono stati i maggiori media internazionali, che hanno mostrato vera preoccupazione davanti al «contagio» prodotto dalla nostra crisi, nella giornata di martedì, verso Wall Street, Londra, Parigi e Francoforte. Morale: ci sono tre fattori che vanno tenuti sott'occhio.
Primo: i titoli bancari, che ieri hanno preso respiro. Ma il giorno prima era stata una giornata campale sia per le banche italiane sia - a cascata - per tutti i principali istituti esteri, dalla spagnola Santander alla francese Bnp Paribas. Venendo a quelle italiane, è addirittura superfluo sottolineare la delicatezza della posizione di Mps. Ma le stesse Intesa San Paolo e Unicredit, in due settimane, hanno dovuto raddoppiare i costi - annotava ieri il Wsj - per proteggersi contro i rischi di un default.
Secondo: le nuove aste dei titoli del debito pubblico. Un mese fa, i titoli semestrali italiani venivano venduti a tassi negativi: l'altro giorno invece hanno richiesto un tasso dell'1,2. Tendenza aggravata ieri dall'asta dei titoli quinquennali e decennali: con il rendimento dei primi salito al 2,32 (ai massimi da gennaio 2014) e dei secondi al 3% (ai massimi da giugno 2014). Traduzione: gli investitori continuano ad acquistare, ma vogliono una remunerazione sempre più alta, e il conto degli interessi si fa sempre più salato.
Terzo: un marchingegno chiamato «Cds», Credit default swap. È un meccanismo finanziario per cui un investitore con una mano acquista titoli di un certo Paese, ma con l'altra si assicura contro il rischio dell'insolvenza, cioè contro l'ipotesi di un default. Bene (cioè male): sia i Cds italiani sia quelli spagnoli stanno pericolosamente schizzando verso l'alto.
Ieri mattina il Wsj ha pubblicato un articolo molto pesante, dando voce a una serie di investitori pronti a disimpegnarsi dai titoli italiani. Il motto americano, quando la situazione è preoccupante, spiega tutto: «Sell first, ask later». Insomma, prima vendi e poi chiedi spiegazioni. E per questa ragione la galleria di voci raccolte dal Wsj fa impressione: Societé Generale («rischi esistenziali per l'Italia e la moneta unica»), Nomura («ci liberiamo dei titoli italiani e spagnoli, e riduciamo quelli del Portogallo»), appena più prudente Amundi («siamo in modalità wait and see»).
In questo quadro ci sono due novità significative, che i giornaloni italiani si guarderanno dal registrare. Primo: cominciano a esserci critiche forti nei confronti delle scelte di Mattarella, visto come il maggior responsabile dell'incendio. Avevano iniziato l'altro giorno il Telegraph e il Times di Londra, e il Wsj di New York. Ieri è stato ancora il Wsj a rincarare la dose, mettendo nel mirino il veto contro Savona e gli effetti di incertezza che ha innescato: consentire a Lega e M5s di formare un governo avrebbe potuto (e potrebbe ancora) integrare meglio quei due partiti nel sistema costituzionale; marginalizzarli invece - secondo la ragionevole previsione del Wsj - li indurrà fatalmente a estremizzare le loro posizioni in funzione elettorale. Anche Bloomberg ha accusato Mattarella di aver sbagliato tutto: «Bloccando il governo Lega-M5s ha rafforzato i populisti, mettendo a repentaglio l'euro».
La seconda novità è che il Wsj mette nel mirino proprio l'euro, «al cuore di ripetute crisi finanziarie nell'ultimo decennio». La domanda a questo punto è inevitabile: sicuri che allora non serva un «piano B», ovviamente non unilaterale ma concordato con i principali partner Ue, per predisporre un'uscita di sicurezza utile per tutti? Almeno discuterne, in teoria, non dovrebbe essere un reato d'opinione. Anche se, in pratica, le forze politiche italiane farebbero bene - in queste settimane - a non ridare la sensazione che il tema sia (meno che mai unilateralmente) all'ordine del giorno: troppo rischioso sfidare le ansie degli investitori, comunque la si pensi.
Daniele Capezzone
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Il Fronte repubblicano strombazzato da Carlo Calenda ha già le adesioni del partito Repubblica e di Laura Boldrini. Ma i corazzieri di sinistra non si rendono conto che così si allineano a chi vorrebbe farci rieducare dai mercati.Per il Wall street journal e Bloomberg è Sergio Mattarella ad aver fatto autogol: «Fermando il governo Lega-M5 mette a rischio l'euro». Ma la stampa nostrana incolpa i gialloblù.Lo speciale contiene due articoliIl dramma esistenziale e psicologico della sinistra italiana lo ha espresso perfettamente, ieri su Repubblica, Concita De Gregorio. In un'articolessa impregnata di lacrime, gridava: «Ridateci una politica dove più dello spread contano le persone». Slogan fenomenale. Peccato che alla signora sia sfuggito un particolare: i primi difensori della «politica dello spread», in queste ore, sono proprio i progressisti di area Partito democratico e consimili. Faticano a spiegarlo ai loro elettori, e soprattutto a sé stessi, ma si sono schierati compatti a difesa dei «mercati», dei «burocrati che evocano lo spread» (così li ha definiti, sempre su Repubblica, Massimo Giannini) e dei falchi tedeschi. Per la serie: Pd, dove la d sta per Deutschland. Lo spettacolo che offrono è grottesco. Carlo Calenda, dopo aver fatto sapere di essere pronto alla resistenza, non è ancora salito sui monti armato di fucile. Però, tramite intervista al Corriere della Sera, ha dichiarato: «Bisogna presentarsi con un Fronte repubblicano, un simbolo diverso e una lista unica, coinvolgendo tutte quelle forze della società civile e tutti quei movimenti politici che vogliono unirsi per salvare il Paese dal sovranismo anarcoide di Di Maio e Salvini.La guida c'è già, si chiama Paolo Gentiloni». Che meraviglia, un Fronte repubblicano unito, schierato come un sol uomo a sostegno del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Cioè l'uomo che non ha voluto Paolo Savona al ministero dell'Economia per via delle sue posizioni critiche sull'euro. Sono tutti pronti a intervenire. Maurizio Martina ha dato l'approvazione. Matteo Renzi si è precipitato a complimentarsi con Calenda. Laura Boldrini, alla disperata ricerca di un carretto a cui aggrapparsi, ha scritto su Twitter: «Di fronte all'attacco al presidente della Repubblica Mattarella e di fronte al rischio di una pericolosa deriva populista e sovranista è necessario che tutte le forze progressiste decidano di allearsi alle prossime elezioni». Persino Beatrice Lorenzin si è scoperta barricadera: «Più che ministro della Salute, oggi, mi sento una cittadina italiana ingaggiata sul fronte della difesa delle nostra Repubblica», ha cinguettato (refuso compreso). Eccola lì, l'invincibile armata progressista, sincera e democratica, pronta a sacrificare la vita pur di tutelare l'inquilino del Quirinale. Sono così entusiasti, i novelli corazzieri, da non rendersi conto che si stanno coalizzando per dare man forte a biechi personaggi come Günther Oettinger, l'uomo secondo cui «i mercati insegneranno agli italiani a votare nel modo giusto». Le posizioni che questo fantomatico Fronte repubblicano dovrebbe esprimere sono le stesse che abbiamo potuto leggere sui giornali tedeschi, ovvero quelli che ci accusavano di essere «scrocconi» e «peggiori dei mendicanti». Da un lato, dunque, l'intellighenzia dem chiede un mondo governato dai buoni sentimenti e da un'umanità profonda, dall'altro si inginocchia di fronte ai mercati come uno schiavo davanti alla frusta del padrone. Nella loro tragedia senza fine, i progressisti italiani muovono quasi a compassione. Sapete chi ha proposto, giusto ieri, di creare un fronte unico contro i populisti? Indovinate un po'... Proprio lui, Jean Claude Juncker, il presidente della Commissione Ue ad alto tasso alcolico. Biascicando a Strasburgo di fronte alla riunione plenaria del Parlamento europeo, ha dichiarato: «Vorrei che tutti noi ci impegnassimo in una sorta di contratto contro il populismo galoppante che possiamo vedere in Europa e in tutti i Paesi, compreso il mio». Fantastico: Calenda, Renzi e la Boldrini possono contare su un alleato in più. E che alleato...Aspettate, però, perché il meglio deve ancora venire. Non appena ha sentito ragliare di Fronte repubblicano e sinistra unita, a precipitarsi fuori dal sarcofago è stato anche un'altra divinità del pantheon democratico: Romano Prodi, nientemeno. In un editoriale uscito ieri sul Messaggero, L'ex premier sotto forma di insaccato ha inteso analizzare la complicata situazione politica, esprimendo più di una preoccupazione: «Tutto questo sta trasformando radicalmente il quadro delle prossime elezioni: non si tratta più di una contesa fra i partiti ma di un referendum fra coloro che vedono il nostro futuro insieme alle altre democrazie europee e coloro che ci vogliono fuori dall'Euro e quindi dall'Europa, come un vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro». Chiarissimo: la prossima tornata elettorale sarà in realtà un referendum sull'Europa. I famigerati «populisti» non lo hanno né proposto né evocato, ma pare che il Pd e simili ci tengano parecchio. Dunque, dice Prodi, bisogna che la sinistra si prodighi per mettere «il cittadino italiano di fronte alle nefaste conseguenze che l'uscita dall'Euro e la rottura dei legami con l'Europa porterebbero alla nostra economia e alla nostra sicurezza». Sono le stesse idee di Oettinger, di Juncker, del governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco («il destino dell'Italia è quello dell'Europa»). Insomma, i due fronti sono chiari. Da una parte c'è chi difende il popolo italiano e la sua sovranità. Dall'altro ci sono le burocrazie europee e i rappresentanti dei cosiddetti «mercati», entità demoniaca delle peggiori. Ovviamente, i progressisti italiani sono fieramente posizionati sul lato dei mercati. Lo ha notato addirittura Stefano Fassina: «Prodi, Calenda, Pd, fermatevi!», ha scritto. «La vostra analisi e la conseguente proposta, alimentata dalle spiegazioni al no a Paolo Savona, è foriera di sciagura e contribuisce attivamente a spingere l'Italia nel baratro». C'è di positivo che, almeno, gli amici sinistri sono venuti allo scoperto. Hanno finalmente esplicitato il loro legame potente con il neoliberismo. Come ha scritto il filosofo francese Jean Claude Michea, essi «non hanno più altro ideale concreto da proporre se non la dissoluzione continua e sistematica dei modi di vivere specifici delle classi popolari - e la dissoluzione delle loro ultime conquiste sociali - nel moto perpetuo della crescita globalizzata». Si sono venduti, e adesso vogliono svendere pure noi.Francesco Borgonovo<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/le-armate-rosse-a-difesa-del-colle-fanno-il-gioco-degli-euroinomani-2573677419.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="e-i-giornali-economici-esteri-assolvono-i-populisti-per-il-caos-in-cui-ci-troviamo" data-post-id="2573677419" data-published-at="1765818331" data-use-pagination="False"> E i giornali economici esteri assolvono i populisti per il caos in cui ci troviamo Sui grandi giornali economici internazionali, il problema non sono Salvini e Di Maio. Il rischio Italia dipende più dal Colle e dalla struttura stessa dell'eurozona. Come nella Lettera rubata, il romanzo di Edgar Allan Poe, se vuoi nascondere qualcosa a volte basta metterla in evidenza, sul tavolo, teoricamente sotto gli occhi di tutti: ed è probabile che nessuno se ne accorga. Così, nell'altalena di questi giorni dello spread (l'altro ieri impennatosi oltre quota 300, e ieri ridisceso a livelli meno impressionanti), c'è un elemento di grande rilievo, eppure poco citato: nell'ultimo periodo, come si sa, è iniziata la contrazione del Quantitative easing da parte della Bce di Mario Draghi. Non si tratta tanto della quantità di titoli acquistati (nell'ultima settimana gli acquisti di Btp sarebbero anche aumentati da parte della Bce), ma resta sullo sfondo il tema di un inesorabile progressivo ridursi delle garanzie: e anche questa prospettiva potrebbe aver contribuito, secondo alcuni osservatori non marginalmente, alla salita dello spread. I difensori della Bce avanzeranno due argomenti. Primo: già da gennaio Francoforte aveva annunciato una progressiva riduzione del programma del Qe, e non certo per volontà di Draghi. Secondo: dopo il «leak» di una decina di giorni fa che aveva improvvidamente rivelato alcuni aspetti discutibili delle prime bozze di intesa M5s-Lega, un po' tutte le istituzioni finanziarie avevano dato un segnale complessivo di «stretta». Argomenti veri: ma resta il fatto oggettivo della coincidenza temporale tra un momento difficile per l'Italia e l'avvio della riduzione del programma del Qe. Anche gli avversari di Draghi (e Ignazio Visco) hanno un argomento forte, ben al di là della contesa sul Qe. Forse qualcuno aveva sbagliato i conti, perfino inducendo il Quirinale a un clamoroso errore di valutazione: sì presidente, stoppa Paolo Savona (che spaventa i mercati) e metti Carlo Cottarelli, che li rassicura, e vedrai che le cose andranno bene. E' successo esattamente il contrario: l'apparizione di Cottarelli ha provocato una catastrofe l'altro ieri (altro che l'auspicato «Cottarelli rebound»), mentre ieri è bastato il suo «congelamento» per far calare la febbre, sia dello spread che delle Borse, che hanno avuto una giornata di respiro. Non è difficile immaginare che anche nel board della Bce i falchi tedeschi porranno qualche domanda a Draghi su tutte queste valutazioni. Intanto, se ieri si è tirato un minimo sospiro sui mercati, a tenere le fiamme alte sono stati i maggiori media internazionali, che hanno mostrato vera preoccupazione davanti al «contagio» prodotto dalla nostra crisi, nella giornata di martedì, verso Wall Street, Londra, Parigi e Francoforte. Morale: ci sono tre fattori che vanno tenuti sott'occhio. Primo: i titoli bancari, che ieri hanno preso respiro. Ma il giorno prima era stata una giornata campale sia per le banche italiane sia - a cascata - per tutti i principali istituti esteri, dalla spagnola Santander alla francese Bnp Paribas. Venendo a quelle italiane, è addirittura superfluo sottolineare la delicatezza della posizione di Mps. Ma le stesse Intesa San Paolo e Unicredit, in due settimane, hanno dovuto raddoppiare i costi - annotava ieri il Wsj - per proteggersi contro i rischi di un default. Secondo: le nuove aste dei titoli del debito pubblico. Un mese fa, i titoli semestrali italiani venivano venduti a tassi negativi: l'altro giorno invece hanno richiesto un tasso dell'1,2. Tendenza aggravata ieri dall'asta dei titoli quinquennali e decennali: con il rendimento dei primi salito al 2,32 (ai massimi da gennaio 2014) e dei secondi al 3% (ai massimi da giugno 2014). Traduzione: gli investitori continuano ad acquistare, ma vogliono una remunerazione sempre più alta, e il conto degli interessi si fa sempre più salato. Terzo: un marchingegno chiamato «Cds», Credit default swap. È un meccanismo finanziario per cui un investitore con una mano acquista titoli di un certo Paese, ma con l'altra si assicura contro il rischio dell'insolvenza, cioè contro l'ipotesi di un default. Bene (cioè male): sia i Cds italiani sia quelli spagnoli stanno pericolosamente schizzando verso l'alto. Ieri mattina il Wsj ha pubblicato un articolo molto pesante, dando voce a una serie di investitori pronti a disimpegnarsi dai titoli italiani. Il motto americano, quando la situazione è preoccupante, spiega tutto: «Sell first, ask later». Insomma, prima vendi e poi chiedi spiegazioni. E per questa ragione la galleria di voci raccolte dal Wsj fa impressione: Societé Generale («rischi esistenziali per l'Italia e la moneta unica»), Nomura («ci liberiamo dei titoli italiani e spagnoli, e riduciamo quelli del Portogallo»), appena più prudente Amundi («siamo in modalità wait and see»). In questo quadro ci sono due novità significative, che i giornaloni italiani si guarderanno dal registrare. Primo: cominciano a esserci critiche forti nei confronti delle scelte di Mattarella, visto come il maggior responsabile dell'incendio. Avevano iniziato l'altro giorno il Telegraph e il Times di Londra, e il Wsj di New York. Ieri è stato ancora il Wsj a rincarare la dose, mettendo nel mirino il veto contro Savona e gli effetti di incertezza che ha innescato: consentire a Lega e M5s di formare un governo avrebbe potuto (e potrebbe ancora) integrare meglio quei due partiti nel sistema costituzionale; marginalizzarli invece - secondo la ragionevole previsione del Wsj - li indurrà fatalmente a estremizzare le loro posizioni in funzione elettorale. Anche Bloomberg ha accusato Mattarella di aver sbagliato tutto: «Bloccando il governo Lega-M5s ha rafforzato i populisti, mettendo a repentaglio l'euro». La seconda novità è che il Wsj mette nel mirino proprio l'euro, «al cuore di ripetute crisi finanziarie nell'ultimo decennio». La domanda a questo punto è inevitabile: sicuri che allora non serva un «piano B», ovviamente non unilaterale ma concordato con i principali partner Ue, per predisporre un'uscita di sicurezza utile per tutti? Almeno discuterne, in teoria, non dovrebbe essere un reato d'opinione. Anche se, in pratica, le forze politiche italiane farebbero bene - in queste settimane - a non ridare la sensazione che il tema sia (meno che mai unilateralmente) all'ordine del giorno: troppo rischioso sfidare le ansie degli investitori, comunque la si pensi. Daniele Capezzone
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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