2023-07-01
La Russia appicca l’incendio del grano: «Quell’accordo non sarà rinnovato»
Sergej Lavrov gela l’Occidente: senza cereali dalle aree in conflitto prezzi degli alimenti alle stelle. Canali per gli alleati di Mosca.Stati Uniti: secondo un’indagine il 77% dei think tank ha sovvenzioni dall’industria militare.Lo speciale contiene due articoli. Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov usa di nuovo l’arma della fame. Lapidario annuncia: «La Russia non vede alcun motivo per estendere l’accordo sul grano». Si torna nella situazione di un anno fa, quando a luglio ad Ankara - sotto mediazione turca e dell’Onu - si sancì il via libera dei carichi di grano, mais e olio di girasole dai porti ucraini lungo la rotta del mar Nero per scongiurare una carestia mondiale. La ragione? La Fao compra grano, mais, girasole e orzo per i paesi poveri soprattutto dall’Ucraina, poiché costa meno. L’accordo prevedeva anche il via libera alle esportazioni di grano russo. L’arma dei cereali è stata usata da Mosca con un continuo tira e molla. Appena tre mesi fa Lavrov si era detto favorevole a prorogare l’accordo (che scadeva a inizio aprile). Ma due settimane fa il ministro ha messo le mani avanti e ha dichiarato: «Il patto sul grano non ci soddisfa». Pur avendo mantenuto l’impegno di fornire cereali all’Egitto per scongiurare una rivolta del pane, fece capire che era intenzione del Cremlino chiudere di nuovo le banchine di Odessa. Tra aprile e maggio sono rimaste bloccate a Leopoli 50 navi e immediato è stato il rimbalzo dei prezzi. Dopo la crisi innescata dall’azione del boss della Wagner Prigozhin, l’alto rappresentante per la politica estera europea Josep Borrell ha preconizzato: Putin più debole è pericoloso. Per tutta risposta Lavrov ieri ha dettato il lapidario comunicato stampa che ha un altro profondo significato. Proprio partendo dalla «crepa» nel muro russo che si era aperta con l’accordo sul grano, la diplomazia vaticana ha tentato una mediazione. Lavrov perciò chiude di nuovo le stive delle navi nel giorno in cui il presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, torna dalla sua missione a mani vuote. Ha visto sì il patriarca Kirill, ma il Cremlino ha ribadito: nessun accordo. E del resto lo stesso inviato del Papa ha ammesso: «Restano ulteriori passi da compiere». Cosa significa un blocco del grano? Il prezzo dei cereali subirà un’impennata. Già c’erano tensioni annunciate, perché nonostante un leggero aumento delle superfici coltivate sono drasticamente calate le scorte di cereali (che l’International grain council stima in 577 milioni di tonnellate, il livello più basso da dieci anni) con un’impennata di consumo a 2 miliardi e 360 milioni di tonnellate, a fronte di una produzione che non arriva 2 miliardi e 290 milioni di tonnellate (di queste il grano copre circa 780 milioni). C’è dunque carenza di materia prima. Per quel che riguarda la Russia, si stima una produzione che non supererà i 90 milioni di tonnellate e l’Ucraina non arriverà a 30 milioni. Gli analisti prevedono una quotazione del grano tenero nella forchetta 420/470 euro a tonnellata, ma se venisse meno il prodotto russo e ucraino potrebbe arrivare a 500. Per il duro si parte da 490 euro, ma l’aspettativa è di arrivare a 580/600 euro. L’Italia importa circa metà del grano tenero e un terzo del duro, aspettarsi impennate nel prezzo del pane (oggi attorno ai 6 euro al chilo) con un rincaro del 15% è stima prudenziale. Per la pasta dopo un aumento medio del 25% lo scorso anno che ha fissato il prezzo medio a 2,13 euro al chilo è ipotizzabile un ulteriore incremento di 10 punti percentuali fino ai 2,5 euro al chilo. Il pericolo maggiore per l’Italia viene dal mais. L’Ucraina è il quinto produttore mondiale con 36 milioni di tonnellate ed è il nostro primo fornitore: ci vende il 20% del mais che serve per alimentare soprattutto gli animali. Stessa cosa vale per l’olio di girasole: da Kiev compriamo il 46% del fabbisogno. Un blocco dell’export farà schizzare in alto i prezzi di latte, formaggio e di gran parte degli alimentari lavorati. Con la Bce che vuole domare - costi quel che costi - l’inflazione, non sono annunci di felicità. La Russia sganciandosi dall’accordo può usare il suo grano come arma diplomatica, considerando che è il primo esportatore al mondo. Dopo l’accordo sul mar Nero il primo acquirente delle merci fu la Cina, che ha assorbito il 24% dell’intero stock. Dal grano russo dipendono Turchia, Egitto, Arabia Saudita, Emirati, Marocco, Azerbaigian e paesi poverissimi come il Bangladesh, il Sudan e il Vietnam. Lavrov si appresta a varare la nuova diplomazia del pane: tutti i Paesi che comprano cereali da Mosca sono quelli che la sostengono in sede internazionale e sono anche il nuovo perimetro dei Brics. Chi crede che Vladimir Putin combatta solo con i mercenari della Wagner dovrebbe considerare che la Russia ha tra le sue armi anche le navi porta-rinfuse. Trattarla cum grano salis forse conviene.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lavrov-guerra-grano-2662124889.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-pensatoi-americani-bellicisti-molto-spesso-foraggiati-dalla-difesa" data-post-id="2662124889" data-published-at="1688209906" data-use-pagination="False"> I «pensatoi» americani bellicisti molto spesso foraggiati dalla Difesa Se già Eschilo, nel V secolo avanti Cristo, sosteneva che «in guerra, la verità è la prima vittima», non deve stupire che, 26 secoli dopo, la macchina della propaganda continui a lavorare. Oggi, in questa guerra globale che ha l’Ucraina come campo di battaglia, la propaganda bellica viaggia col vento in poppa anche grazie a un uso strategico dei think tank, pensatoi di esperti e analisti che costituiscono un canale tra il mondo accademico e la comunità politica, suggerendo ai decisori quale coinvolgimento militare debbano avere nella guerra in Ucraina. In America questi organismi pullulano e non sono esattamente indipendenti: orientano in maniera significativa l’amministrazione di Joe Biden da un lato - e l’opinione pubblica dall’altro - in favore dello sforzo bellico per sconfiggere la Russia di Putin, avallando compattamente ingenti spese militari che oggi hanno raggiunto 48,7 miliardi di dollari. I think tank lavorano sui due fronti: gli analisti collaborano gomito a gomito con l’esecutivo i deputati del Congresso; dall’altro lato, i volti noti che compaiono sui più importanti canali televisivi come Cnn, Msnbc e Fox News vengono proprio da questi istituti. Insomma, i think tank sono una componente chiave dei dibattiti pubblici sulla politica americana. Secondo un report del Quincy Institute, la stragrande maggioranza delle analisi di guerra che compaiono sui media statunitensi provengono da think tank i cui finanziatori traggono profitto dalla spesa militare statunitense. A loro volta, i media si affidano in maniera sproporzionata alle valutazioni di questi organismi finanziati dal dipartimento della Difesa americano e dai suoi appaltatori. Quest’influenza spesso si trasforma in censura o autocensura: il risultato è che i dibattiti politici animati dai think tank sono dominati dagli interessi privati dei finanziatori. Gli istituti coinvolti sono i più autorevoli: l’Atlantic Council, il Council on Foreign Relations, il Foreign Policy Research Institute, l’American Enterprise, la Brookings Institution, il Carnegie Endowment for International Peace, il Center for Strategic and International Studies, il Wilson Center, la Rand Corporation e altri. L’analisi del Quincy rivela che dei 27 think tank analizzati ben 21 (il 77%) hanno ricevuto finanziamenti dal settore della difesa. Quasi un terzo non ha reso pubbliche le informazioni sui finanziatori. I think tank regolarmente citati dai mass media sono per l’85% sostenuti dall’industria della difesa, sette volte in più rispetto ai pensatoi non finanziati dagli appaltatori del Pentagono. I media stessi, «dimenticano» di dire al pubblico se gli analisti intervistati sono liberi o meno da conflitti d’interesse. Anche il Quincy, a sua volta, ha potenti sostenitori. Nuovo arrivato tra i più prestigiosi pensatoi americani - è nato nel 2019 - l’istituto si avvale dei finanziamenti di due pesi massimi nel mondo della filantropia: il finanziere simbolo del progressismo internazionale George Soros e Charles Koch, il più importante finanziatore delle cause del Partito Repubblicano (ad eccezione di Donald Trump, inviso a uno degli eredi della dinastia). Nel mezzo della contrapposizione ideologica dei pesi massimi della politica estera americana, finiscono involontariamente anche alcuni animatori del dibattito italiano, come l’attivissimo Jacopo Iacoboni e l’ineffabile Gianni Riotta. Il primo, giornalista della Stampa, promuove a senso più che unico la causa ucraina. Iacoboni collabora con l’Atlantic Council, che sostiene attivamente la leadership americana nel mondo ed è sostenuto dal dipartimento della Difesa americano e dal Foreign office britannico. L’istituto con sede a Washington, un tempo presieduto da Henri Kissinger, è oggi diretto da John F.W. Rogers, vicepresidente esecutivo di Goldman Sachs. L’editorialista di Repubblica Gianni Riotta, invece, è affiliato al Council on Foreign Relations, anch’esso finanziato dal dipartimento della Difesa Usa. Autore della «Putinversteher», la lista dei «putiniani d’Italia» nel 2022, Riotta sostiene la lotta contro le cosiddette «fake news», che spesso coincidono con le informazioni scomode per la monolitica linea occidentale. L’editorialista è infatti coordinatore dell’Idmo (Italian Digital Media Observatory), hub istituito e finanziato dalla Commissione europea per «monitorare le fonti di disinformazione». Di cosiddetta disinformazione si occupa anche Federico Fubini del Corriere della sera, membro dell’European advisory board della Open Society Foundation di George Soros ed esperto della task force europea contro le fake news, anch’essa indirettamente finanziata da Soros. Nessuno di loro dichiara apertamente l’affiliazione con i rispettivi centri di potere, con buona pace della trasparenza.
Jose Mourinho (Getty Images)