2018-12-21
Lascia anche il segretario della Difesa di Trump: voleva restare in Siria
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Nuovo scossone nell'amministrazione Trump. Il Segretario alla Difesa, il generale James Mattis, ha annunciato ieri le sue dimissioni, che diventeranno effettive a partire dal 28 febbraio 2019. La notizia arriva emblematicamente dopo le tensioni esplose a seguito dell'intenzione, dichiarata dal presidente, di ritirare le truppe statunitensi dal territorio di Damasco. Una scelta che il Pentagono ha subito mostrato di non condividere, ritrovandosi di fatto spalleggiato da svariati senatori dello stesso Partito Repubblicano (come Marco Rubio e Lindsey Graham). Del resto, al di là del dossier sulla Siria, il rapporto tra Trump e Mattis non è mai stato troppo lineare. Dopo la vittoria repubblicana alle presidenziali del 2016, il generale venne scelto come capo del Pentagono con un preciso intento: quello di federare un elefantino particolarmente diviso attorno al nuovo presidente. Piuttosto interventista in politica estera e fautore di un approccio relativamente muscolare, Mattis non ha mai digerito troppo la linea tendenzialmente isolazionista incarnata da Trump. In particolare, il generale non condivideva l'idea di un disimpegno americano dal Medio Oriente, proprio perché convinto che una simile strategia avrebbe potuto comportare in loco un rafforzamento geopolitico della Russia. Sempre in questo senso, Mattis non ha mai neppure troppo gradito il tentativo di distensione portato avanti dall'attuale inquilino della Casa Bianca nei confronti del Cremlino. E anche sull'Iran i due non si sono mai granché capiti: pur non essendo infatti un fautore del regime degli ayatollah, pare che Mattis fosse contrario a un ritiro degli Stati Uniti dall'accordo sul nucleare, visto che – secondo la sua prospettiva – una simile opzione avrebbe rappresentato un ulteriore consolidamento dell'influenza russa sulla regione. Senza poi dimenticare lo scetticismo, recentemente manifestato dal Pentagono, sulla decisione di Trump di inviare alcune migliaia di soldati a presidio del confine meridionale. Non a caso, nella sua lettera di dimissioni, il generale ha citato proprio questi dossier tra le cause della propria drastica decisione: «Credo che dobbiamo essere risoluti e non ambigui nel nostro approccio verso quei Paesi i cui interessi strategici sono sempre più in tensione con i nostri: è chiaro che la Cina e la Russia, ad esempio, vogliono plasmare un mondo coerente con il loro modello autoritario - ottenere il diritto di veto sulle autorità, le decisioni economiche, diplomatiche e di sicurezza delle altre nazioni - per promuovere i propri interessi a spese dei loro vicini, dell'America e dei nostri alleati», ha scritto duramente il generale, per poi aggiungere: «Dobbiamo fare tutto il possibile per portare avanti un ordine internazionale che sia il più favorevole per la nostra sicurezza, la nostra prosperità e i nostri valori, e siamo rafforzati in questo sforzo dalla solidarietà delle nostre alleanze».Una linea molto vicina alla tradizionale politica estera americana. Una linea, per intenderci, non troppo accomodante verso la dottrina trumpiana dell'America First. Non a caso, Mattis ha sottolineato di non condividere le idee di Trump in materia di esteri, mentre il magnate, dal canto suo, ha incassato il colpo, twittando laconicamente: «Il generale Jim Mattis andrà in pensione, con distinzione, alla fine di febbraio, dopo aver servito la mia amministrazione come segretario alla Difesa negli ultimi due anni. Durante il mandato di Jim, sono stati compiuti enormi progressi». Insomma, si è infranto un rapporto tormentato ma interessante. Sì: interessante. Perché, a differenza di altri ministri silurati (come l'ex segretario di Stato, Rex Tillerson), pare proprio che Trump abbia nutrito, in questi due anni, una profonda stima per Mattis. Tanto che, secondo i beninformati, il generale sarebbe sempre stato uno dei pochissimi membri dell'amministrazione a incutere un forte senso di rispetto nei confronti del presidente. In questo senso, le dimissioni di Mattis rappresentano forse qualcosa di più dell'ordinario trambusto in seno all'esecutivo americano. E non è soltanto una questione di rapporti personali. Come accennato, il generale rappresentava nel governo quella fazione di repubblicani tradizionalisti che, storicamente, non ha mai troppo digerito le tesi di Trump: soprattutto nelle questioni di politica internazionale. In tal senso, la presenza di Mattis garantiva, per quanto possibile, una certa dose di stabilità all'interno del Partito Repubblicano: un partito frantumato in innumerevoli correnti rivali, tutte in cerca di rappresentanza ai vertici del governo. Ecco: al di là dei cambi di strategia cui potremmo presto assistere in politica estera, l'addio di Mattis potrebbe rivelarsi istruttivo anche per capire quali saranno i nuovi equilibri in seno all'elefantino. Un elemento di indubbio interesse: soprattutto con l'approssimarsi del 2020. Quando, cioè, sarà tempo di sfide per la conquista della nomination repubblicana. media2.giphy.com
La Global Sumud Flotilla. Nel riquadro, la giornalista Francesca Del Vecchio (Ansa)
Vladimir Putin e Donald Trump (Ansa)