2023-03-18
Per Landini unica proposta: salario minimo
Maurizio Landini e Giorgia Meloni (Imagoeconomica)
Il sindacalista insiste con la misura e vuole una legge sulla rappresentanza per far sopravvivere le sigle. Giorgia Meloni, primo premier al congresso della Cgil dopo Romano Prodi, la boccia: «Meglio i contratti collettivi e il taglio del cuneo. La delega fiscale stimola l’economia».«Sono soddisfatta. Non ho mai paura di confrontarmi, penso sia giusto. Mi sembrava doveroso esserci»: Giorgia Meloni ha tutte le ragioni per essere contenta, la sua partecipazione al congresso Cgil a Rimini è stata un successo, al di là della piccola contestazione messa in scena da uno sparuto gruppetto di delegati. Il minimo sindacale (è il caso di dirlo), per il primo premier di destra nella storia italiana, ma anche il primo presidente del Consiglio, 27 anni dopo Romano Prodi, a partecipare a un congresso della Cgil. Accolta dal segretario generale Maurizio Landini, la Meloni sembra essere decisamente a suo agio. L’atmosfera in sala è all’insegna del fair play, pure un applauso a suo modo storico quando la Meloni condanna «l’inaccettabile attacco degli esponenti di estrema destra alla Cgil e le azioni dei movimenti anarchici che si rifanno alle Br». L’intervento di Giorgia Meloni viene introdotto da Maurizio Landini: «Per segno di rispetto», avverte, «la capacità di ascoltare è legata al diritto di essere ascoltati. Noi vogliamo essere protagonisti e non spettatori del cambiamento del nostro Paese. La prima volta che ci siamo incontrati con la premier Meloni a Palazzo Chigi disse una cosa che condividevo», aggiunge Landini, «cioè che la situazione era difficilissima. Ma proprio perché così complicata, pensiamo che il mondo del lavoro, in tutta la sua articolazione, va messo in condizione di conoscere, discutere e negoziare per fare le riforme». Landini ha poi fatto le sue richieste all’esecutivo: «Serve una legge sulla rappresentanza e i contratti devono avere validità generale, erga omnes. Dentro questo schema siamo disponibili a fissare anche una soglia di salario sotto la quale non si può andare». «Ringrazio anche chi mi contesta», esordisce Giorgia Meloni, che non rinuncia a una stoccata: «Ho visto “éensati sgradita”: non sapevo che Chiara Ferragni fosse una metalmeccanica. Non ho voluto rinunciare a questo appuntamento in segno di rispetto del sindacato. Questo congresso è un esercizio di democrazia e partecipazione che non può lasciare indifferente chi ha responsabilità decisionali e chi come me sa quanto questi eventi tengano vive queste dinamiche. Non mi sottraggo a un contesto sapendo che è un contesto difficile. Non mi spaventa. La ragione per cui ho deciso di essere qui è più profonda. Oggi si celebra la nascita della nostra nazione», argomenta il premier, «con questa presenza, con questo confronto, questo dibattito, possiamo autenticamente celebrare l’unità nazionale. La contrapposizione è positiva, ha un ruolo educativo, l’unità è un’altra cosa, è un interesse superiore». Esauriti i convenevoli si passa alla sostanza, e la Meloni non rinuncia a ribadire il suo pensiero su lavoro, salario minimo e Reddito di cittadinanza: «Partiamo da un dato», spiega, «e cioè che l’Italia fa registrare un tasso di disoccupazione del 58,2%, che continua ad aumentare. La situazione peggiora se si considera quella femminile che registra 14 punti in meno. I salari sono bloccati da 30 anni, dato scioccante perché l’Italia ha salari più bassi di prima del Novanta. In Germania e Francia sono saliti anche del 30%. Significa che le soluzioni individuate sinora non sono andate bene e che bisogna immaginare una strada nuova che è quella di puntare tutto sulla crescita economica. Io credo che l’introduzione di un salario minimo legale non sia la strada più efficace. Temo il rischio che la fissazione per legge diventi non una tutela aggiuntiva», sottolinea la Meloni, «rispetto alla contrattazione collettiva, ma sostitutiva, e questo finirebbe per fare un altro grande favore alle grandi concentrazioni economiche che hanno come obiettivo rivedere al ribasso i diritti dei lavoratori. La soluzione a mio avviso è estendere i contratti collettivi a vari settori e intervenire per ridurre il carico fiscale sul lavoro. Il Reddito di cittadinanza ha fallito gli obiettivi per cui era nato», scandisce, «perché a monte c’è un errore: mettere nello stesso calderone chi poteva lavorare e chi non poteva lavorare». Non manca l’attacco al M5s: «Noi veniamo da un mondo», ricorda Giorgia Meloni, «in cui ci si è detto che la povertà si poteva abolire per decreto. Che il lavoro si poteva creare per decreto. Se fosse così dovrebbe essere lo Stato a creare ricchezza, non è così. La ricchezza la creano le aziende con i loro lavoratori. Lo Stato deve creare regole giuste e redistribuire». Il premier ha anche tenuto il punto sulla riforma fiscale «frettolosamente bocciata da alcuni», ovvero dalla sinistra e dalla stessa Cgil: «È un riforma che guarda con molta attenzione al lavoro con interventi in favore dei redditi medio bassi, con importanti novità per i lavoratori dipendenti», ha sottolineato la Meloni, e punta a «favorire la crescita occupazionale e aumentare le retribuzioni», «Io credo che la base sia far ripartire l’economia, sostenere il sistema produttivo, restituire all’Italia anche un po’ di sana fiducia in sé stessa, liberare le sue energie migliori».Da segnalare lo spunto di riflessione offerto su Twitter da Emmanuele Massagli, presidente di Adapt, associazione che promuove studi e ricerche nell’ambito delle relazioni industriali e di lavoro: «Significativo», scrive Massagli, «il passaggio della relazione di Landini sul perché del sindacato: sì alla legge sulla rappresentanza; sì al salario minimo; apertura alla partecipazione, ma solo nella forma di codeterminazione (una strategia per spaventare le imprese?)». La codeterminazione, ricordiamolo, in Germania prevede la rappresentanza obbligatoria dei lavoratori nel collegio di sorveglianza delle grandi aziende. Sarebbe un modo per la Cgil per rientrare in quelle fabbriche dalle quali sta scomparendo giorno dopo giorno.
Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)
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Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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