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2020-06-03
La zuffa tra i magistrati sullo ius soli: «Un suicidio, farà vincere la destra»
Luca Palamara (Ansa)
Il tema politico-ideologico viene introdotto a bruciapelo durante un momento goliardico, proprio mentre lo stratega delle nomine Luca Palamara e il suo collega Marco Mancinetti si stanno confrontando, usando termini da maschiacci, su alcune bellezze con la toga che vogliono invitare a una festa.
Tra un apprezzamento e l'altro, però, Paolo Auriemma, capo della Procura di Viterbo, lancia la bomba, anticipando già ai suoi interlocutori come la pensa: «Siete contrari allo ius soli? Io contrarissimo». È il 2 luglio 2017. Da circa un mese il dibattito era molto acceso. Il 15 giugno, infatti, erano scaduti i termini per la presentazione degli emendamenti alla proposta di legge (spinta a tutta forza dalla sinistra) per il diritto di cittadinanza agli stranieri e, nei giorni in cui il trojan infilato dagli investigatori perugini nello smartphone di Palamara è attivo, sulla stampa non si parlava d'altro. Ovviamente il tema appassionava anche i magistrati e qualche riferimento è rimasto incagliato nelle intercettazioni della Procura di Perugia.
Per difendere Matteo Renzi, Palamara ha preso le difese anche dello ius soli con il collega Auriemma, «contrarissimo» alla legge. E gli dà perfino del leghista: «A Paolo xazzo, non solo contro Renzi, ora anche leghista! Eh no, questo è troppo». Auriemma, piccato, replica: «Sei favorevole? Qual è la ragione politica?». Risposta: «Una sola: integrazione». Auriemma lo stende: «Oggi il sacerdote leggendo la prima lettura di domani ha detto che il profeta Ezechiele era ospitato ma nello stesso tempo dava qualcosa e non si limitava a chiedere. Integriamo a colpi di legge gente che mette il cappuccio alle donne? Che non le fa studiare? Che non ha avuto l'illuminismo. Prima si integrassero poi si vede. Della integrazione non gliene frega niente a nessuno e una marchetta del Partito democratico che fa sapendo che ha perso voti per conquistare quelli dei genitori dei minori che sono cresciuti in Italia».
Mancinetti sottolinea: «Parole su cui riflettere...». E una riflessione sul tema i giudici l'hanno organizzata davvero.
Il 22 ottobre è il grande giorno. A Siena si tiene il trentatreesimo congresso dell'Associazione nazionale magistrati. La sesta sessione, piazzata in scaletta nell'ultimo dei tre giorni di dibattito, ha un titolo esplicito: «Nuove domande di giustizia tra libertà e diritto. Nuove famiglie, liberalizzazione droghe leggere, fine vita, ius soli». Se qualcuno avesse avuto dubbi sulla posizione ideologica del sindacato dei magistrati quella fase congressuale avrebbe di certo sgomberato il campo da ogni equivoco. D'altra parte, il presidente dell'Anm, Eugenio Albamonte, intervistato dall'agenzia di stampa Agi, aveva accompagnato la fase preparatoria del congresso con queste parole: «Vogliamo lanciare un sasso nello stagno e ribadire al legislatore che deve fare presto nel prendere le sue scelte». Altro dettaglio: l'introduzione dei lavori venne affidata a Silvia Albano (anche lei presente nelle chat con Palamara), che nel 2014, da giudice del Tribunale civile di Roma si era occupata dello scambio di embrioni all'ospedale Pertini. La fase di pressing della magistratura sulla politica lascia traccia anche all'interno delle chiacchierate di Palamara intercettate dagli investigatori. Il 31 ottobre, ancora una volta nel gruppo Whatsapp condiviso da Palamara, Mancinetti e Auriemma si torna sull'argomento. Auriemma posta nella chat il link a un articolo di Repubblica su Silvio Berlusconi indagato per le stragi di mafia del 1993. Il servizio giornalistico riporta le intercettazioni del boss Giuseppe Graviano che, finite in un fascicolo aperto a Firenze, evocano il leader forzista come mandante. Auriemma torna sullo ius soli, ma non risparmia un colpo a Nino Di Matteo: «Non bastava lo ius soli. Pure la strage per far vincere la destra. Con il contributo di Di Matteo».
L'attuale consigliere del Csm eletto da indipendente nelle liste di Piercamillo Davigo all'epoca era ancora un pubblico ministero della Procura di Palermo. E fu lui a segnalare all'ufficio giudiziario fiorentino il verbale ritenuto la chiave per riaprire le indagini che erano già state fatte ma senza risultati concreti: la Procura di Firenze, competente per la strage di via dei Georgofili, aveva archiviato la sua inchiesta quasi 20 anni prima, nel 1998. Palamara, che appare più interessato al Cavaliere, lascia cadere il discorso sullo ius soli e chiede il nome del procuratore di Firenze: «Non ricordo», dice Palamara, «forse lo ricordi tu Paolo».
Auriemma, stando alle chat, non crede alle teorie sul coinvolgimento berlusconiano: «Non è colpa del procuratore di Firenze, ma di Palermo che ha mandato il fascicolo. Spero che il procuratore di Firenze affronti questa pagliacciata rapidamente».
Poi riprende il tema che da circa tre mesi gli sta a cuore: «Comunque lo ius soli bastava da solo a fare perdere le elezioni alla sinistra. Un vero suicidio». Uno spauracchio, quello delle destre al governo, che sembra tormentare non poco i pensieri della toga di Unicost.
«Così il pm salvò il collega al Csm»
Durante la consiliatura del Csm 2014-2018 uno dei casi più scabrosi fu la pratica per incompatibilità ambientale che riguardava il procuratore di Arezzo, Roberto Rossi, all'epoca titolare dell'inchiesta sul crac di Banca Etruria. Il procedimento fu aperto quando si seppe che il magistrato era consulente del dipartimento Affari giuridici e legislativi di Palazzo Chigi (era arrivato con Enrico Letta ed era stato confermato da Matteo Renzi). Il capo del Dagl era inizialmente Carlo Deodato, oggi segretario generale della Consob, poi sostituito dalla renzianissima Antonella Manzione.
Rossi aveva fatto parte della giunta esecutiva centrale dell'Anm quando Luca Palamara ne era presidente e il pm indagato a Perugia per corruzione, da vero amico, riuscì a far chiudere la pratica dopo una lunga battaglia. Ci mise la faccia perorando durante il plenum la causa del procuratore. Ma quando Palamara lasciò il Csm, Rossi perse il suo scudo.
Nell'ottobre del 2018 il nuovo consiglio rinviò la sua conferma a procuratore e un anno dopo, con Piercamillo Davigo relatore, l'istanza venne bocciata.
Nella consiliatura precedente il conflitto d'interessi di Rossi era stato sollevato da Pierantonio Zanettin, deputato di Forza Italia, all'epoca consigliere azzurro del Csm. Ma il parlamentare trovò un fiero avversario: Palamara.
«La pratica Rossi», spiega alla Verità Zanettin, «è stato uno dei miei cavalli di battaglia. Chiesi io l'apertura del fascicolo quando, nel dicembre 2015, uscì un'agenzia che svelava che Rossi, titolare dell'inchiesta sulla Popolare dell'Etruria, era ancora un consulente del governo. Noi lo chiamammo in prima commissione, quella che si occupa di trasferimenti per incompatibilità, e lui ci disse che non conosceva la famiglia Boschi». Un'affermazione che ammorbidì i commissari, anche perché nel frattempo l'incarico governativo non era stato confermato: «Demmo un parere favorevole all'archiviazione della pratica. Ma a ridosso del plenum venne fuori lo scoop su Panorama da cui apprendemmo che Rossi aveva indagato più volte Boschi (chiese la definitiva archiviazione nel 2014 mentre era consulente del governo Renzi, ndr) e che quindi non poteva non conoscerlo e che a difenderlo era stato Giuseppe Fanfani, che in quel momento era consigliere del Csm. Riaprimmo subito il caso. E Rossi ci venne a dire che non aveva capito la domanda e che comunque non aveva conosciuto personalmente Boschi senior». Tutto a posto? Non proprio. «Dopo aver risentito Rossi giungemmo a una travagliatissima archiviazione. Si trattava di un'archiviazione «vestita», nel senso che conteneva diversi rilievi. Ma Palamara e il suo gruppo fecero passare una serie di emendamenti in aula per cancellarli tutti. Io, alla fine, fui l'unico a votare contro l'archiviazione, mentre i due relatori, Piergiorgio Morosini e Renato Balduzzi, e altri sette si astennero perché erano state sbianchettate le critiche». Ma quali rilievi furono cancellati? «Avevamo evidenziato che Rossi, mentre era consulente di Palazzo Chigi, aveva tenuto per sé, senza condividerlo con altri colleghi come da buona prassi, il fascicolo sul crac della Popolare aretina, un'inchiesta che avrebbe portato all'iscrizione sul registro degli indagati di Boschi senior. E di questi possibili profili di incompatibilità Rossi non aveva informato il Csm. Scrivemmo anche che avevamo ravvisato qualche esitazione in Rossi ogni qual volta era stato toccato il tema dei contatti con esponenti del mondo politico-istituzionale». Cancellature a parte, il plenum stabilì anche che quella delibera non entrasse nel fascicolo personale di Rossi, penalizzandolo. Zanettin ricorda chi si batté più di tutti gli altri a favore del procuratore di Arezzo: «Fu Palamara. Interveniva sempre per difendere Rossi. Litigai diverse volte con lui. In uno di questi scontri dissi a Palamara che lo proteggeva perché erano entrambi di Unicost e lui si indignò rivendicando la sua autonomia. Ma oggi le chat mi danno ragione». Soprattutto laddove Palamara afferma che anche se Rossi aveva fatto «cazzate su cazzate» bisognava «salvarlo». «Per me è una soddisfazione apprenderlo visto che al Csm ero finito in un'ultraminoranza a causa di queste mie battaglie. Che per fortuna oggi sono diventate di moda. Certo pensavo che il sostegno di Palamara a Rossi avesse una motivazione solo correntizia. Scoprire, invece, che dietro c'era anche la preoccupazione per i possibili contraccolpi sul governo Renzi mi ha francamente sorpreso».
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Tre mesi prima del congresso dell'Anm che inneggiava alla cittadinanza facile, i Palamara boys erano divisi. Paolo Auriemma: «Una marchetta al Pd». Però il dominus degli incarichi difendeva a oltranza «l'integrazione».«Così il pm salvò il collega al Csm». Pierantonio Zanettin, ex Fi nel parlamentino: «Chiesi di aprire la pratica per i conflitti d'interessi di Rossi, che indagava su Etruria e babbo Boschi, ma il ras di Unicost la fece archiviare».Lo speciale comprende due articoli. Il tema politico-ideologico viene introdotto a bruciapelo durante un momento goliardico, proprio mentre lo stratega delle nomine Luca Palamara e il suo collega Marco Mancinetti si stanno confrontando, usando termini da maschiacci, su alcune bellezze con la toga che vogliono invitare a una festa. Tra un apprezzamento e l'altro, però, Paolo Auriemma, capo della Procura di Viterbo, lancia la bomba, anticipando già ai suoi interlocutori come la pensa: «Siete contrari allo ius soli? Io contrarissimo». È il 2 luglio 2017. Da circa un mese il dibattito era molto acceso. Il 15 giugno, infatti, erano scaduti i termini per la presentazione degli emendamenti alla proposta di legge (spinta a tutta forza dalla sinistra) per il diritto di cittadinanza agli stranieri e, nei giorni in cui il trojan infilato dagli investigatori perugini nello smartphone di Palamara è attivo, sulla stampa non si parlava d'altro. Ovviamente il tema appassionava anche i magistrati e qualche riferimento è rimasto incagliato nelle intercettazioni della Procura di Perugia.Per difendere Matteo Renzi, Palamara ha preso le difese anche dello ius soli con il collega Auriemma, «contrarissimo» alla legge. E gli dà perfino del leghista: «A Paolo xazzo, non solo contro Renzi, ora anche leghista! Eh no, questo è troppo». Auriemma, piccato, replica: «Sei favorevole? Qual è la ragione politica?». Risposta: «Una sola: integrazione». Auriemma lo stende: «Oggi il sacerdote leggendo la prima lettura di domani ha detto che il profeta Ezechiele era ospitato ma nello stesso tempo dava qualcosa e non si limitava a chiedere. Integriamo a colpi di legge gente che mette il cappuccio alle donne? Che non le fa studiare? Che non ha avuto l'illuminismo. Prima si integrassero poi si vede. Della integrazione non gliene frega niente a nessuno e una marchetta del Partito democratico che fa sapendo che ha perso voti per conquistare quelli dei genitori dei minori che sono cresciuti in Italia». Mancinetti sottolinea: «Parole su cui riflettere...». E una riflessione sul tema i giudici l'hanno organizzata davvero. Il 22 ottobre è il grande giorno. A Siena si tiene il trentatreesimo congresso dell'Associazione nazionale magistrati. La sesta sessione, piazzata in scaletta nell'ultimo dei tre giorni di dibattito, ha un titolo esplicito: «Nuove domande di giustizia tra libertà e diritto. Nuove famiglie, liberalizzazione droghe leggere, fine vita, ius soli». Se qualcuno avesse avuto dubbi sulla posizione ideologica del sindacato dei magistrati quella fase congressuale avrebbe di certo sgomberato il campo da ogni equivoco. D'altra parte, il presidente dell'Anm, Eugenio Albamonte, intervistato dall'agenzia di stampa Agi, aveva accompagnato la fase preparatoria del congresso con queste parole: «Vogliamo lanciare un sasso nello stagno e ribadire al legislatore che deve fare presto nel prendere le sue scelte». Altro dettaglio: l'introduzione dei lavori venne affidata a Silvia Albano (anche lei presente nelle chat con Palamara), che nel 2014, da giudice del Tribunale civile di Roma si era occupata dello scambio di embrioni all'ospedale Pertini. La fase di pressing della magistratura sulla politica lascia traccia anche all'interno delle chiacchierate di Palamara intercettate dagli investigatori. Il 31 ottobre, ancora una volta nel gruppo Whatsapp condiviso da Palamara, Mancinetti e Auriemma si torna sull'argomento. Auriemma posta nella chat il link a un articolo di Repubblica su Silvio Berlusconi indagato per le stragi di mafia del 1993. Il servizio giornalistico riporta le intercettazioni del boss Giuseppe Graviano che, finite in un fascicolo aperto a Firenze, evocano il leader forzista come mandante. Auriemma torna sullo ius soli, ma non risparmia un colpo a Nino Di Matteo: «Non bastava lo ius soli. Pure la strage per far vincere la destra. Con il contributo di Di Matteo». L'attuale consigliere del Csm eletto da indipendente nelle liste di Piercamillo Davigo all'epoca era ancora un pubblico ministero della Procura di Palermo. E fu lui a segnalare all'ufficio giudiziario fiorentino il verbale ritenuto la chiave per riaprire le indagini che erano già state fatte ma senza risultati concreti: la Procura di Firenze, competente per la strage di via dei Georgofili, aveva archiviato la sua inchiesta quasi 20 anni prima, nel 1998. Palamara, che appare più interessato al Cavaliere, lascia cadere il discorso sullo ius soli e chiede il nome del procuratore di Firenze: «Non ricordo», dice Palamara, «forse lo ricordi tu Paolo». Auriemma, stando alle chat, non crede alle teorie sul coinvolgimento berlusconiano: «Non è colpa del procuratore di Firenze, ma di Palermo che ha mandato il fascicolo. Spero che il procuratore di Firenze affronti questa pagliacciata rapidamente».Poi riprende il tema che da circa tre mesi gli sta a cuore: «Comunque lo ius soli bastava da solo a fare perdere le elezioni alla sinistra. Un vero suicidio». 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Il capo del Dagl era inizialmente Carlo Deodato, oggi segretario generale della Consob, poi sostituito dalla renzianissima Antonella Manzione. Rossi aveva fatto parte della giunta esecutiva centrale dell'Anm quando Luca Palamara ne era presidente e il pm indagato a Perugia per corruzione, da vero amico, riuscì a far chiudere la pratica dopo una lunga battaglia. Ci mise la faccia perorando durante il plenum la causa del procuratore. Ma quando Palamara lasciò il Csm, Rossi perse il suo scudo. Nell'ottobre del 2018 il nuovo consiglio rinviò la sua conferma a procuratore e un anno dopo, con Piercamillo Davigo relatore, l'istanza venne bocciata. Nella consiliatura precedente il conflitto d'interessi di Rossi era stato sollevato da Pierantonio Zanettin, deputato di Forza Italia, all'epoca consigliere azzurro del Csm. Ma il parlamentare trovò un fiero avversario: Palamara. «La pratica Rossi», spiega alla Verità Zanettin, «è stato uno dei miei cavalli di battaglia. Chiesi io l'apertura del fascicolo quando, nel dicembre 2015, uscì un'agenzia che svelava che Rossi, titolare dell'inchiesta sulla Popolare dell'Etruria, era ancora un consulente del governo. Noi lo chiamammo in prima commissione, quella che si occupa di trasferimenti per incompatibilità, e lui ci disse che non conosceva la famiglia Boschi». Un'affermazione che ammorbidì i commissari, anche perché nel frattempo l'incarico governativo non era stato confermato: «Demmo un parere favorevole all'archiviazione della pratica. Ma a ridosso del plenum venne fuori lo scoop su Panorama da cui apprendemmo che Rossi aveva indagato più volte Boschi (chiese la definitiva archiviazione nel 2014 mentre era consulente del governo Renzi, ndr) e che quindi non poteva non conoscerlo e che a difenderlo era stato Giuseppe Fanfani, che in quel momento era consigliere del Csm. Riaprimmo subito il caso. E Rossi ci venne a dire che non aveva capito la domanda e che comunque non aveva conosciuto personalmente Boschi senior». Tutto a posto? Non proprio. «Dopo aver risentito Rossi giungemmo a una travagliatissima archiviazione. Si trattava di un'archiviazione «vestita», nel senso che conteneva diversi rilievi. Ma Palamara e il suo gruppo fecero passare una serie di emendamenti in aula per cancellarli tutti. Io, alla fine, fui l'unico a votare contro l'archiviazione, mentre i due relatori, Piergiorgio Morosini e Renato Balduzzi, e altri sette si astennero perché erano state sbianchettate le critiche». Ma quali rilievi furono cancellati? «Avevamo evidenziato che Rossi, mentre era consulente di Palazzo Chigi, aveva tenuto per sé, senza condividerlo con altri colleghi come da buona prassi, il fascicolo sul crac della Popolare aretina, un'inchiesta che avrebbe portato all'iscrizione sul registro degli indagati di Boschi senior. E di questi possibili profili di incompatibilità Rossi non aveva informato il Csm. Scrivemmo anche che avevamo ravvisato qualche esitazione in Rossi ogni qual volta era stato toccato il tema dei contatti con esponenti del mondo politico-istituzionale». Cancellature a parte, il plenum stabilì anche che quella delibera non entrasse nel fascicolo personale di Rossi, penalizzandolo. Zanettin ricorda chi si batté più di tutti gli altri a favore del procuratore di Arezzo: «Fu Palamara. Interveniva sempre per difendere Rossi. Litigai diverse volte con lui. In uno di questi scontri dissi a Palamara che lo proteggeva perché erano entrambi di Unicost e lui si indignò rivendicando la sua autonomia. Ma oggi le chat mi danno ragione». Soprattutto laddove Palamara afferma che anche se Rossi aveva fatto «cazzate su cazzate» bisognava «salvarlo». «Per me è una soddisfazione apprenderlo visto che al Csm ero finito in un'ultraminoranza a causa di queste mie battaglie. Che per fortuna oggi sono diventate di moda. Certo pensavo che il sostegno di Palamara a Rossi avesse una motivazione solo correntizia. Scoprire, invece, che dietro c'era anche la preoccupazione per i possibili contraccolpi sul governo Renzi mi ha francamente sorpreso».
Friedrich Merz (Ansa)
Il dissenso della gioventù aveva provocato forti tensioni all’interno della maggioranza tanto da far rischiare la prima crisi di governo seria per Merz. Il via libera del parlamento tedesco, dunque, segna di fatto una crisi politica enorme e pure lo scollamento della democrazia tra maggioranza effettiva e maggioranza dopata. Come già era accaduto in Francia, la materia pensionistica è l’iceberg contro cui si schiantano i… Titanic: Macron prima, Merz adesso. Il presidente francese sulle pensioni ha visto la rottura dei suoi governi per l’incalzare di rivolte popolari e questo in carica guidato da Lecornu ha dovuto congelare la materia per non lasciarci le penne. Del resto in Europa non è il solo che naviga a vista, non curante della sfiducia nel Paese: in Spagna il governo Sánchez è in piena crisi di consensi per i casi di corruzione scoppiati nel partito e in casa, e pure l’accordo coi i catalani e coi baschi rischia di far deragliare l’esecutivo sulla finanziaria. In Olanda non c’è ancora un governo. In Belgio il primo ministro De Wever ha chiesto altro tempo al re Filippo per superare lo stallo sulla legge di bilancio che si annuncia lacrime e sangue. In Germania - dicevamo - il governo si è salvato per l’appoggio determinante della sinistra radicale, aprendo quindi un tema politico che lascerà strascichi dei quali beneficerà Afd, partito assai attrattivo proprio tra i giovani.
I tre voti con i quali Merz si è salvato peseranno tantissimo e manterranno acceso il dibattito proprio su una questione ancestrale: l’aumento del debito pubblico. «Questo disegno di legge va contro le mie convinzioni fondamentali, contro tutto ciò per cui sono entrato in politica», ha dichiarato a nome della Junge Union Gruppe Pascal Reddig durante il dibattito. Lui è uno dei diciotto che avrebbe voluto affossare la stabilizzazione previdenziale anche a costo di mandare sotto il governo: il gruppo dei giovani non aveva mai preso in considerazione l’idea di caricare sulle spalle delle future generazioni 115 miliardi di costi aggiuntivi a partire dal 2031.
E senza quei 18 sì, il governo sarebbe finito al tappeto. Quindi ecco la solita minestrina riscaldata della sopravvivenza politica a qualsiasi costo: l’astensione dai banchi dell’opposizione del partito di estrema sinistra Die Linke, per effetto della quale si è ridotto il numero di voti necessari per l'approvazione. E i giovani? E le loro idee?
Merz ha affermato che le preoccupazioni della Junge Union saranno prese in considerazione in una revisione più ampia del sistema pensionistico prevista per il 2026, che affronterà anche la spinosa questione dell'innalzamento dell'età pensionabile. Un bel modo per cercare di salvare il salvabile. Anche se ora arriva pure la tegola della riforma della leva: il parlamento tedesco ha infatti approvato la modernizzazione del servizio militare nel Paese, introducendo una visita medica obbligatoria per i giovani diciottenni e la possibilità di ripristinare la leva obbligatoria in caso di carenza di volontari. Un altro passo verso la piena militarizzazione, materia su cui l’opinione pubblica tedesca è in profondo disaccordo e che Afd sta cavalcando. Sempre che la democrazia non deciderà di fermare Afd…
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«The Rainmaker» (Sky)
The Rainmaker, versione serie televisiva, sarà disponibile su Sky Exclusive a partire dalla prima serata di venerdì 5 dicembre. E allora l'abisso immenso della legalità, i suoi chiaroscuri, le zone d'ombra soggette a manovre e interpretazioni personali torneranno protagonisti. Non a Memphis, dov'era ambientato il romanzo originale, bensì a Charleston, nella Carolina del Sud.
Il rainmaker di Grisham, il ragazzo che - fresco di laurea - aveva fantasticato sulla possibilità di essere l'uomo della pioggia in uno degli studi legali più prestigiosi di Memphis, è lontano dal suo corrispettivo moderno. E non solo per via di una città diversa. Rudy Baylor, stesso nome, stesso percorso dell'originale, ha l'anima candida del giovane di belle speranze, certo che sia tutto possibile, che le idee valgano più dei fatti. Ma quando, appena dopo la laurea in Giurisprudenza, si trova tirocinante all'interno di uno studio fra i più blasonati, capisce bene di aver peccato: troppo romanticismo, troppo incanto. In una parola, troppa ingenuità.
Rudy Baylor avrebbe voluto essere colui che poteva portare più clienti al suddetto studio. Invece, finisce per scontrarsi con un collega più anziano nel giorno dell'esordio, i suoi sogni impacchettati come fossero cosa di poco conto. Rudy deve trovare altro: un altro impiego, un'altra strada. E finisce per trovarla accanto a Bruiser Stone, qui donna, ben lontana dall'essere una professionista integerrima. Qui, i percorsi divergono.
The Rainmaker, versione serie televisiva, si discosta da The Rainmaker versione carta o versione film. Cambia la trama, non, però, la sostanza. Quel che lo show, in dieci episodi, vuole cercare di raccontare quanto complessa possa essere l'applicazione nel mondo reale di categorie di pensiero apprese in astratto. I confini sono labili, ciascuno disposto ad estenderli così da inglobarvi il proprio interesse personale. Quel che dovrebbe essere scontato e oggettivo, la definizione di giusto o sbagliato, sfuma. E non vi è più certezza. Nemmeno quella basilare del singolo, che credeva di aver capito quanto meno se stesso. Rudy Baylor, all'interno di questa serie, a mezza via tra giallo e legal drama, deve, dunque, fare quel che ha fatto il suo predecessore: smettere ogni sua certezza e camminare al di fuori della propria zona di comfort, alla ricerca perpetua di un compromesso che non gli tolga il sonno.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.
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