2020-11-15
La voglia di vita del centenario Morin antidoto alla paura figlia di questo secolo
Dalla vittoria in sala parto, al disincanto verso l'euroburocrazia. Nelle memorie del pensatore il suo elisir di longevità: la sfida. La costruzione dell'Unione europea non ha neppure sfiorato la cultura del continente, cui è rimasta sostanzialmente estranea: roba da burocrazia, né di cuore né di pensiero. È ciò che mi ha colpito subito leggendo le memorie di uno degli umanisti europei più multiformi e presenti nella vita culturale dell'ultimo secolo: l'antropologo della cultura e filosofo morale Edgar Morin, che compirà tra poco i 100 anni (ora raccontati con humour e profondità in I ricordi mi vengono incontro, Raffaello Cortina editore). Nelle sue 707 pagine scorrono 100 anni di incontri, iniziative culturali, libri, prese di posizioni politiche, vite vissute tra Francia, Italia, Spagna, Sud America e resto del mondo; con una grande assente: le istituzioni dell'Europa. Il generale Charles De Gaulle ne aveva ben intuito i possibili effetti dissolventi e contrari allo spirito dei Paesi del continente. In effetti quando poi l'Europa si costituì davvero con le sue istituzioni e burocrazie, brillò per la sua assenza da ogni discorso e vita culturale, dove non creò mai nulla di rilevante e vitale (e infatti non è citata mai in tutto il testo, a suo modo una piccola enciclopedia di un secolo di storia culturale europea). In questo modo però (e sottraendo alla cultura molte attenzioni e risorse), ha anche spento gradualmente la vitalità e lo slancio riflessivo e creativo in tutto il continente, ormai occupato da burocrazie politicizzate anziché da attività creative. È ciò che capita quando si parte dalla moneta, e non, appunto, dalla vita e dalla cultura. Al di là però del mondo disanimato dell'Europa e dei suoi micidiali trattati (che nessuno dei deputati che li hanno firmati è mai riuscito a leggere), c'è invece un dibattito e un insieme di storie personali e collettive, insomma una cultura non creata dal denaro, dalle tecnologie e dai compromessi politici, ma dalle «idee inutili» e dalle passioni: è quella raccontata in questo libro.Morin è, da sempre un uomo di sinistra; ma, come capita sempre ai più sensibili tra i suoi compagni, il suo interesse nel corso della vita si è spostato gradualmente da Carlo Marx e le sue idee all'uomo in carne ed ossa (e alla donna, presenza costante e decisiva nella ricchissima vita affettiva e intellettuale di Morin). Si passa così dalla carta, che rimane tuttavia fondamentale nella vita del prolifico scrittore, alla carne, che si arricchisce col passare del tempo di contenuti e valenze cognitive e spirituali. L'inizio è drammatico: il bambino, sopravvissuto a un tentativo di aborto compiuto dalla madre, si è raggomitolato in senso contrario nell'utero «il che significa che al momento del parto verrà strangolato dal cordone ombelicale». Il ginecologo estrae dunque un bimbo nato morto ma, come il suo piccolo paziente, non si perde d'animo: «Prende il neonato per i piedi e non smette di schiaffeggiarlo, senza mai fermarsi, per un tempo così lungo da far perdere ogni speranza». Finché il bimbo strilla. Continuerà poi a dare nei 100 anni successivi i segni della propria vitalità e del proprio amore per l'esistenza: drammatici, allegri, sentimentali, meditativi. Puntualmente rievocati in queste pagine, come se li avesse vissuti ieri. Il non perdersi d'animo e prendere a testate l'esistenza è d'altra parte caratteristico dei grandi anziani. Lo psicoanalista americano James Hillman, che tenne duro fino a 85 anni, mi raccontava come il durare a lungo sia una prova de La forza del carattere (e ci scrisse sopra un libro molto bello, Adelphi editore). Verissimo. La forza di Morin è però più libera e sciolta di quella del pur inventivo Hillman e ciò fa di questo sbizzarrito libro di memorie anche un notevole libro di avventure. Certo, non è tutto merito dei vecchissimi (come, nel suo piccolo, l'ultra ottantenne che qui scrive) se abbiamo avuto delle avventure, vissute anche con spirito; ma del tempo in cui abbiamo vissuto, che ce le ha offerte. E l'avventura, la prova, se sopravvivi rafforza. È una cosa nota da sempre, ma oggi dimenticata. Il rischio è oggi considerato solo una sfiga: va soppresso, silenziato, mascherato, mai affrontato e superato con il rafforzamento, individuale e collettivo. No: ora si propone, anzi si impone, la fuga, il mascheramento; l'isolamento, non la battaglia. Ne è un esempio straordinario il Covid 19: una sfida che poteva essere occasione di rigenerazione del modello di sviluppo, di rafforzamento e stimolo per la costruzione di una società nuova, è diventato motivo di fuga, allontanamento, sospensione di ogni attività (dunque della vita). Anche nella storia e della generazione di Morin ci fu un'epidemia importante (che ne segnò i genitori), oggi molto citata quasi il Covid 19 ne fosse una ripetizione: l'influenza spagnola, che provocò alla madre una lesione cardiaca. Ma i due eventi non sono paragonabili: quell'epidemia provocò nel 1918 più di 100 milioni di vittime; col Covid siamo a 1 milione e 30.000: molto diverso. Lo si paragona anche a una guerra, ma anche quello è un paragone del tutto improprio. Nella guerra il rischio è assicurato, non ci si può schermare: bisogna solo sperare che vada bene, che la bomba cada più in là, che la pallottola ti risparmi. Sei sempre tu che devi voler sopravvivere: lo Stato non può proteggerti più di tanto. L'idea di potersela cavare sottraendosi alla lotta è del tutto immaginaria. La verità è che la lotta (ogni lotta) è un'opportunità da cogliere: se ti sottrai, sei perduto. A 15 anni Morin aveva confezionato pacchi di aiuto per la Colonna Durruti, la formazione libertaria impegnata nella guerra di Spagna il cui capo fu eliminato da una pallottola, non si seppe mai da chi sparata. Quando ne ebbe 20 e stava entrando all'università scoppiò la guerra mondiale. Non ne è terrorizzato: tra le sue letture c'era la filosofa Simone Weil che confidava della forza del principio di nazionalità e sapeva che l'egemonia nazionalsocialista sul continente non poteva durare a lungo. Tuttavia le apparenti vittorie del regime prima della ritirata da Mosca, nel fango, e l'indurirsi della dominazione tedesca in Francia e contro gli ebrei, lo spinsero a impegnarsi nella Resistenza. Dove aveva tre cognomi: Nahum, quello di suo padre, di una famiglia ebraica venuta da Salonicco a Livorno, poi in Francia; Morin, storpiatura nata da una «compagna» che aveva capito male il nome proposto da lui stesso: Manin (nome di un personaggio di un romanzo di Malraux e dell'eroe dell'indipendenza veneziana), e Poncet, quello del documento falso fornito dal partito. «Sono al tempo stesso Poncet e Morin, e a volte mi capita perfino di dimenticare la mia prima identità di Nahum». Un'identità spericolata, ma flessibile, è un ottimo alleato in tempi pericolosi. Anche per non prendersi troppo sul serio e non diventare il papa riconosciuto di una corrente o una moda culturale, cosa che all'uomo libero fa sempre paura. Un rischio che Morin non ha mai corso. L'amore per la vita ha avuto per Edgard Morin lo stesso posto dominante che la nausea ha avuto per Jean Paul Sartre. È per questo che non è diventato come Sartre un papa della cultura, ma è arrivato a 100 anni felice come un bambino.
Antonella Bundu (Imagoeconomica)
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