2018-04-28
La vicepresidente della Consulta vuole vedere la politica in ginocchio
Marta Cartabia, pupilla di Giorgio Napolitano, auspica che i giudici sostituiscano gli eletti. E su una rivista di diritto scrive che le Corti europee devono spingere a trascurare le leggi nazionali «quando è appropriato».Doveva essere lei, cattolica, il flagello degli Lgbt alla Corte costituzionale. Oggi ragiona come i magistrati che legittimano adozioni gay ed eutanasia. Marta Cartabia, nominata giudice della suprema Corte da Giorgio Napolitano nel 2011, ne è vicepresidente dal 2014. Pubblica le sue riflessioni su una rivista accademica di diritto pubblico, Italian journal of public law. Ma le tesi del suo ultimo editoriale danno da pensare: o la Cartabia crede che i giudici debbano esercitare poteri di indirizzo politico, o cerca soltanto argomenti sofisticati per difenderne i privilegi. Entrambe sono ipotesi preoccupanti. La vicepresidente della Corte costituzionale muove da una constatazione di fatto: anche nei Paesi di civil law, in cui i magistrati dovrebbero limitarsi ad applicare le leggi emanate dai parlamenti e le sanzioni previste per la loro violazione, le toghe vengono sempre più spesso interpellate su questioni per le quali manca un pronunciamento delle assemblee legislative. In Italia è successo con la legge elettorale, ma soprattutto nei molti casi di minori affidati a coppie omosessuali, in cui i giudici si sono praticamente sostituiti al legislatore, legittimando le nuove forme di «genitorialità». Il buon senso suggerirebbe due diverse soluzioni a tale anomalia. Si può riconoscere che i parlamenti dovrebbero colmare i famosi «vuoti legislativi». Oppure si deve ammettere che legiferare su tutto è un errore, che può essere una scelta politica sensata anche lasciare che certi aspetti della realtà non rechino il sigillo della Gazzetta ufficiale. In questo secondo scenario, i magistrati dovrebbero mantenere un atteggiamento «conservativo», cioè ritenere che l'assenza di una legge equivalga alla volontà di arginare le inquietanti innovazioni del nostro tempo, dai viaggi in Svizzera dei malati terminali a quelli in India per affittare gli uteri delle donne povere. Al contrario, la Cartabia lascia trasparire una certa soddisfazione quando descrive il potere giudiziario che «prospera»: i magistrati, ormai, «rilasciano dichiarazioni ai media e formano uno straordinario pool di esperti, spesso chiamati a ricoprire le più alte posizioni amministrative e a lavorare accanto ai corpi politici; molti di loro lasciano il ramo giudiziario per competere nelle elezioni politiche e guadagnarsi un seggio in Parlamento». Tutto normale. Anzi no. Non perché l'attivismo togato rischi di trasformare surrettiziamente la natura dei nostri sistemi giuridici, «americanizzando», ossia politicizzando, il ruolo della Corte costituzionale. Per la Cartabia, il vero pericolo è che il potere giudiziario, proprio mentre raggiunge la massima espansione, venga ridimensionato.Tra gli «attacchi» alle toghe, la vicepresidente della suprema Corte ricomprende la riforma del sistema giudiziario approvata in Polonia, contro la quale la Commissione europea ha messo in campo l'articolo 7 del trattato sull'Unione europea, che sanziona le gravi violazioni ai valori fondamentali dell'Ue da parte di uno Stato membro. Ma accanto ai discussi provvedimenti adottati da Varsavia, che accrescono il controllo dell'esecutivo sui magistrati costituzionali, la Cartabia inserisce «la remunerazione dei giudici e il finanziamento della magistratura». Così, sebbene riconosca che «sacrifici temporanei sono inevitabili in tempi di crisi», la numero due della Consulta lamenta «una cronica carenza di fondi, la mancanza di remunerazioni appropriate, rischi per la sicurezza, tagli al personale e agli uffici giudiziari periferici». Oggi tutti tirano la cinghia, ma i giudici additano ogni tentativo di alterare il loro status come un attacco all'indipendenza della magistratura. Eppure i salari delle toghe sembrano tutto, tranne che inadeguati: a parte che nel 2012 la Corte costituzionale bocciò le riduzioni ai maxi stipendi di dirigenti e magistrati, ma il reddito dei giudici della Consulta oscilla tra i 360.000 e i 500.000 euro l'anno. E nemmeno i magistrati ordinari sono ridotti a un tale stato di indigenza da essere minacciati nella loro autonomia.Ma pur ammettendo che quella della Cartabia non sia un'elaborata apologia dei privilegi delle toghe (che prende di mira qualche bersaglio giusto, tipo la legislazione retroattiva e gli indulti), la vicepresidente della Corte costituzionale si starebbe comunque addentrando su un terreno spinoso. La sua, infatti, sarebbe un'esortazione ad assecondare il processo con cui la Consulta e, a cascata, i tribunali, si stanno progressivamente sostituendo ai rappresentanti eletti. Non solo sentenziando laddove le norme restano silenti, ma altresì esortando il Parlamento a legiferare, preferibilmente secondo gli orientamenti indicati dai magistrati. Un fenomeno cui danno impulso le corti europee, le quali, scrive la Cartabia con sorprendente naturalezza, «hanno incoraggiato i giudici, che erano stati in precedenza strettamente soggetti alla legge, a trascurarla quando era appropriato». Siamo molto distanti dall'eversione, se il messaggio è che l'Italia dovrebbe essere governata da una casta autocefala, disposta, se lo ritiene «appropriato», a ignorare la legislazione nazionale? È questa, d'altronde, l'essenza della judicial review, la pratica di controllo di costituzionalità che caratterizza la Corte suprema degli Stati Uniti. All'inizio del XIX secolo, l'alta Corte americana si arrogò unilateralmente il diritto di mantenere l'ultima parola sulle leggi approvate dal Congresso. Questa prerogativa, in un contesto di conflitti e cortocircuiti tra esecutivo e giudiziario, sarebbe diventata lo strumento con cui i giudici costituzionali potevano guidare l'evoluzione politica del Paese: talvolta in positivo, come nel caso dell'emancipazione dei neri, talvolta in negativo, come con la legalizzazione dei matrimoni gay. Che questo fosse lo spirito con il quale fu istituita la Corte costituzionale italiana è almeno lecito metterlo in dubbio. Che l'Italia debba trasformarsi in una repubblica dei giudici, invece, è certamente un'aberrazione.
Charlie Kirk (Getty Images)
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