2019-07-27
La vera economia di San Francesco? Lui amava Cristo, non la decrescita
Reinterpretare la povertà del Santo di Assisi come un nuovo modello sociale è una manovra a rischio protestantizzazione.Nel medioevo, ai tempi di San Francesco d'Assisi (1182-1226), tra XII al XIII secolo, si svilupparono molte varietà di eresie pauperistiche, in reazione alla opulenza delle gerarchie ecclesiastiche. Nacquero vari ordini mendicanti - fraticelli, umiliati, poveri evangelici, beghine, patari, valdesi e altri - che prepararono progressivamente il terreno per la grande eresia (apparentemente) correlata a ragioni economiche: la Riforma protestante. Gli studiosi di questi problemi spiegano anche che, a partire dalla fine del Trecento, ci si convinse che la povertà, come ideale di vita, fosse irrealizzabile e potesse perfino pregiudicare i più deboli, ma anche che la Chiesa povera fosse un errore perché non avrebbe avuto risorse per evangelizzare e fare opere di carità. Di conseguenza la protesta religiosa pauperistica si trasformò, alleandosi con la protesta sociale, contrapponendosi alla Chiesa romana e arrivando pian piano a concorrere alla preparazione della Riforma protestante, che generò una seconda Chiesa senza Roma. È bene riflettere, proprio oggi, su questo punto. La purezza del VangeloIspirarsi a San Francesco con l'obiettivo di «umanizzare» l'economia è un'operazione che richiede molta attenzione, perché San Francesco non si occupò di economia, ma di conversione dei cuori. Non si può umanizzare l'economia se prima non si converte l'uomo che l'economia gestisce: non sono le strutture e gli strumenti che vanno cambiati, infatti, bensì il cuore dell'uomo che li usa. Altrimenti il rischio è di «protestantizzare» l'uso dello strumento economico, attribuendo a questo autonomia morale. Pertanto, se si sceglie San Francesco quale maestro, occorre ascoltare davvero le sue lezioni implicite. San Francesco volle che la povertà, che lui aveva scelto, si rivelasse nella purezza del Vangelo, non pretendeva certo di farne una lezione di economia, tanto meno contro i ricchi. I poveri pezzenti, i mendicanti, non erano i poveri di San Francesco, perché non cercavano, non volevano e non amavano la povertà, come invece faceva il santo di Assisi. La loro povertà, utile talvolta alla loro - spesso giusta - ribellione, non era la povertà di San Francesco. Per lui la povertà non era certo quella dei poveri «per disgrazia», e ancor meno era quella dei poveri «per rancore polemico», ostentata dagli eretici. San Francesco era povero per vocazione, per amore di Cristo. Solo nel Vangelo la povertà non si lamenta, non protesta, ma si esprime senza rancore, senza lamenti, perché si identifica con Gesù stesso.Neppure papa Innocenzo III, il Papa di San Francesco, quello che indisse la crociata contro gli eretici albigesi, quello stesso che scrisse il De contemptu mundi (nel quale disprezza la miseria della condizione umana), aveva capito lo spirito della povertà di San Francesco. Non doveva esser facile capire questo spirito. Non un fine ma un mezzoLo stesso San Bernardo aveva già chiamato «santa» la povertà nel mondo, ma San Francesco non parlava di una povertà che santifica chi, non volendola, riesce a sopportarla; lui parlava di una povertà che arricchisce e dà felicità a chi la vuole e la ama. Attenzione però: per San Francesco la povertà non era il fine, ma solo un mezzo, grazie al quale, liberamente, egli poneva il proprio pensiero in Dio facendo la volontà di Dio. In «Laudato si'», quello di San Francesco, tutte le creature sono chiamate a lodare Iddio secondo il loro ruolo naturale, solo l'uomo è chiamato a farlo esercitando virtù, con merito, perdonando e soffrendo. Scrive San Francesco: «Laudato si', mi' Signore, per quelli che perdonano per il tuo amore e sostengono infermità e tribolazioni». Ecco che San Francesco distingue due livelli di creature, con diversi ruoli e doveri, e alla creatura umana chiede di esercitare le virtù, guadagnando meriti con le sue azioni. In particolare perdonando e sopportando tribolazioni. Dio è infatti «meritocratico» (con buona pace dei teologi progressisti che considerano questa concezione una «bestemmia»). La chiesa e il mondoL'intento di umanizzare l'economia ispirandosi alla (soggettivamente reinterpretata) spiritualità di San Francesco, pertanto, comporta un rischio. Il rischio di fuorviare le persone con utopie «pauperistiche» moderne che possono generare errori irreversibili, come l'auspicio della «decrescita economica» predicata dal culto neomalthusiano-ambientalista, culto che venera la natura e invece disprezza l'uomo, considerandolo un cancro. E magari privilegiando indirettamente certe religioni pagane «più attente all'ambiente di quelle cristiane». Un'ultima considerazione. Invece di parlare di «casa comune» riferendosi al Creato (ambiente), un cattolico che si ispiri a San Francesco dovrebbe parlare del Creato come di un «bene di famiglia della casa di Dio», da trattare con il massimo rispetto. Ma finché la teologia prevalente continuerà ad affermare che la Chiesa è parte del mondo, essa - la Chiesa - rischierà sempre di essere «evangelizzata dal mondo» e perderà il suo ruolo e il suo compito, che è concorrere a generare il vero bene comune.
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