2021-03-27
La valle dei Mocheni sfata il pregiudizio sulle capre stupide
In una laterale della Valsugana una comunità di 2.000 persone parla tedesco arcaico e alleva bestie dall'intelligenza metodica.Un viaggio nelle storie e tradizioni delle minoranze linguistiche a nord est presenta realtà assai diverse, con radicamenti profondi, pensiamo ai ladini delle Dolomiti o alle comunità slovene su quella dorsale che, dal Collio, porta sino a Trieste. Oppure i cimbri, di lontana origine celtica, sparsi tra il vicentino altopiano di Asiago e la Lessinia, sino a lambire il lago di Garda. Un mondo a parte, poco conosciuto, ma affascinante, è quello dei mocheni, presenti nell'omonima valle, una laterale della Valsugana, «vicinissima a Trento, ma lontana da tutto», come l'ha ben dipinta Paolo Annechini. Conquistò un ufficiale al servizio dell'impero asburgico, al secolo Robert Musil, un talento passato alla storia per aver scritto L'uomo senza qualità. La definì la valle incantata, forse per avervi incontrato Lene Maria Lenzi, bellezza mochena, cui dedicò la novella Grigia.Un mix antropologico originale. I signori di Pergine inviarono alcune famiglie di «roncadori», cioè agricoltori, molti di origine germanica, per trarre frutto dal legname e dai pascoli. La scoperta di importanti fonti minerarie attirò successivamente i «canopi»: bavaresi, svevi, carinziani, boemi. Un melting pot di linguaggi e tradizioni a matrice germanica da cui nacque il mocheno, «un tedesco arcaico, rimasto come fossilizzato nel medioevo» che ha incuriosito, nel tempo, vari studiosi. Gente operosa e a spiccata autonomia, il cui motto «mochen i», io faccio, è divenuto simbolo identitario. Li ha ben inquadrati Dario Bragaglia «sarà per il nome, che fa pensare a una tribù indiana, quando si sale in valle, si ha quasi la sensazione di entrare in una riserva». Oggi sono poco meno di 2.000 e «vivono incuneati tra gli italiani, come una vecchia roccia consumata dal tempo». Una cucina di montagna, di semplicità e sostanza: latte, formaggi, carni affumicate, patate, crauti. Tradizioni tramandate oralmente in famiglia, da nonne a nipoti, con tratti originali e curiosi, ma capaci di attrarre e fidelizzare come una calamita. Come Vea Carpi, una pisana diventata mochena a tutti gli effetti, tanto da raccontare nel suo libro tecniche senza tempo: la lievitazione naturale delle farine, il pane cotto a legna, con pazienza, senza fretta. Altro esempio il cuccalar, tradizione di Palù del Fersina, per certi versi la capitale identitaria della vallata. Piccole focaccine rotonde cui si aggiunge nell'impasto il latticello, ovvero lo scarto della lavorazione della panna, ricco di fermenti lattici. Radici lontane, già descritte nel XVIII secolo dallo storico Simon Pietro Bartolomei. Impastato e subito messo a cuocere nelle stufe a legna, un tempo era il premio per la merenda dei ragazzi che portavano le mucche al pascolo. Adesso possono essere valorizzate sia in versione dolce, con frutti di bosco, crema di nocciola, ma anche salate con salumi e formaggi. Di tutt'altro spessore la pinza, una specie di pane al latte, cotta tra due ollari riscaldati sulle braci. Anche questa a farcitura bipartisan, dolce o salata. Sempre a Palù i Kropfen, sorta di tortelloni ripieni di verza, formaggi e porri. A Roveda, una frazione di Frassilongo, sono fritti in versione dolce, con riso, uva passa e zucchero. In alternativa i Rufioi, la variante mochena dei ravioli, declinati in vari modi. Ripieni di verza e ricotta affumicata, come con patate, porri e formaggi. Eclettici pure con la terza variante, ripieni di carne. Siamo tra vallate alpine e quindi non possono mancare gli insaccati. Classica la lucanica, un misto di carni scelte di cavallo e maiale. Grazie ai flussi commerciali legati alla modernità, con il peperoncino si può provare anche la versione piccante. Sui formaggi la tradizione ha trovato la quadra con la valorizzazione della memoria. È vero che l'attività estrattiva è andata via via sparendo, ma nella miniera dell'Erdemolo, a Palù, l'affinamento dei formaggi avviene in cunicoli dove, un tempo, si estraevano rame e altri metalli. Pioniere di questo ritorno al passato Adriano Moltrer, produttore nella sua malga a Fierozzo, grazie al latte della pezzata mochena, una capra salvata dall'estinzione, con una associazione di pastori dedicata. L'affinamento in miniera avviene con una temperatura costante, tra i 7 e i 10 gradi, e un buon tasso di umidità, tra il 75 e l'80 per cento. In questo modo si ha una proliferazione batterica contenuta e uno sviluppo accelerato delle muffe di superfice. Ne risulta un prodotto morbido e cremoso con un particolare profilo aromatico legato alle erbe di montagna.La storia della capra mochena non può non ricordare una bella testimonianza di valorizzazione e contaminazioni reciproche avvenuta con una delle sue ambasciatrici dal sorriso contagioso, Agitu Idea Gudeta. Una storia nella storia. Di origine etiope, il padre docente universitario ad Addis Abeba, si era laureata in sociologia a Trento con una tesi sull'economia rurale nei paesi in via di sviluppo.Ma nella sua Etiopia era difficile portare innovazione alla tradizione dei pastori nomadi. Non per mancanza di volontà, ma per una progressiva spoliazione delle proprietà ad opera di una politica governativa spregiudicata. Il padre andò a insegnare negli Usa, nel 2010, per sfuggire ad una repressione sempre più invasiva. Agitu tornò in areo in quel Trentino che aveva amato, ricambiata. Donna di talento e passione, affrontando non pochi sacrifici, avviò la sua impresa, fondando La Capra felice, una piccola attività di allevamento e produzione casearia. Era il tempo in cui la capra mochena stava scomparendo. Molto indipendente, facile da allevare, con una produzione lattea di qualità, ma dalla resa molto inferiore ad altre razze. Agitu si specializzò in arte casearia in Francia. Memore di una antica tradizione nel suo paese, dove i pastori usavano la panna del latte come idratante per la pelle, affiancò una linea di cosmesi caprina. Vari riconoscimenti a valorizzarne dedizione e impegno. Premiata al Salone del Gusto nel 2014. Tra gli ambasciatori del Trentino, la sua nuova patria, a Expo 2015. Premio di resistenza casearia a Cheese 2015.Mungeva personalmente le sue creature e insegnava a farlo a chi desiderava riscoprire antiche tradizioni. Era considerata una trentina dalla pelle colorata, un po' etiope e un po' mochena. La chiamavano la pastora nera, le sue capre passate da una dozzina a ben oltre un centinaio. Oltre alla pezzata allevava anche la camosciata delle Alpi. Nel 2018 segnalata tra le donne simbolo a livello internazionale di inclusione e integrazione. Per quei tragici appuntamenti del destino pochi mesi fa è caduta per mano di un suo collaboratore, ghanese. I colleghi ne hanno subito adottato le caprette, un modo per tenere viva la sua memoria e rendere onore al suo impegno. Di lei ha scritto Donatella Di Pietrantonio «ha voluto scommettere su animali a bassa resa lattea, elogiava la loro intelligenza metodica, sfatando così il pregiudizio della capra stupida». Un latte, quello caprino, di vari pregi. Alta digeribilità, poco colesterolo, ricco di vitamine e sali minerali. Ideale per bimbi e persone anziane. Il dolce delle grandi occasioni è lo straboi, una derivazione dal tedesco strauben cioè arricciato. Un ricco impasto dove, oltre a farina, uova, sale e zucchero, vi è la marcia di Bacco in più, con grappa o birra. Preparato il tutto lo si versa in un imbuto e, da qui, a cerchi concentrici, in una teglia ricca d'olio bollente. L'abilità risulta nel renderlo croccante fuori, morbido dentro, servito con abbondante zucchero a velo. È una valle ricca di frutti di bosco, ed ecco nascere un instant classic, la treccia mochena, un'invenzione di Sergio Osler. Una pasta lievitata ripiena di crema pasticcera e confettura di mirtilli. Un prodotto a lievitazione ripetuta dove, come nello straboi, l'abilità consiste nel dare croccantezza esterna, abbinata a gustosa sofficità interna.
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