
A Cuneo viene insaccata e servita con l'aperitivo. Gli antichi naturalisti credevano che si cibasse di pagliuzze d'oro e d'argento. Amata dai Savoia, fu oggetto di aristocratici scambi. Luigi XIV ne era così ghiotto che se la faceva portare già cotta da Ginevra.Tra regine ci si incontra, è nella natura delle cose, come avvenne tra le vallate alpine, sul finire dell'Ottocento a Sant'Anna di Valdieri, nel Cuneese. Qui trascorreva le sue vacanze la regina Elena di Savoia, consorte di Vittorio Emanuele III. I locali la accoglievano ogni volta con quanto di meglio poteva offrire il territorio: le loro trote pescate nei torrenti. In omaggio alla nobile ospite nacque spontaneo il gemellaggio. «Grazie, ma che pesce è?». «La trota regina, sua maestà». E fu così che Elena di Savoia si appassionò alla pesca, perdendosi tra i ruscelli nelle sue estati spensierate. Ma la nobiltà della trota ha radici lontane. La cita indirettamente Plinio il vecchio, osservando come, tra la fauna fluviale, si trovasse un esemplare dotato di otto pinne invece delle cinque regolamentari e poi ancora Lucio Columella, citando una sorta di pesce «lupo», stante la voracità della trota, dalla dieta di rigida osservanza carnivora. Sembra che il suo nome derivi dal greco «troktòs», che significa vorace, ma anche buono a mangiarsi, in quanto la trota, effettivamente, risponde a entrambe le caratteristiche, in acqua prima e a tavola dopo. La sua livrea, di cangiante magia cromatica, attirò anche l'attenzione di Leonardo da Vinci che, nel suo Codice Atlantico, la cita indirettamente: «Nel fiume Adda il pesce vive d'argento, del quale trova assai la sua rena». Tra gli antichi naturalisti si credeva che le trote si cibassero delle pagliuzze d'oro e d'argento sparse nelle sabbie dei corsi d'acqua montani, anche se, in realtà, il minerale che arreda il fondo è la più plebea mica, ossia il minerale che deriva dalla disgregazione delle rocce granitiche della montagna. Forse per questa certezza un secolo prima Bianca di Savoia, per celebrare il pranzo di nozze della figlia andata in sposa all'erede di re Edoardo III d'Inghilterra, inserì nel menù le trote servite in crosta d'oro. Intuizione a cui arrivò 600 anni dopo Gualtiero Marchesi con il suo risotto con foglia d'oro, ugualmente regale, ma certamente più commestibile. A Leonardo rispose indirettamente Corrado Gessner, il quale ebbe a dire che «le ricercatissime trote divorano non già l'oro delle sabbie, bensì quello delle borse dei ghiottoni». E, in effetti, galeotte anche le direttive del Concilio di Trento, bisogna dire che, con i precetti in tema di digiuno, la trota si impose definitivamente... sulle tavole dei penitenti tanto che François Rabelais, compilando la lista dei pesci che i gastrolatri (cioè i peccatori di gola del tempo) sacrificavano nei giorni di magro, al primo posto risultava la trota. Trote oggetto di aristocratici scambi, ad esempio tra Bona di Borbone, consorte di Amedeo VI di Savoia, che inviava il miglior pescato a Milano, omaggiandone Galeazzo Visconti il quale ricambiava con le pregiate anguille che provenivano da Ferrara. Luigi XIV, il Re Sole, ne era talmente ghiotto che leggenda racconta vi fossero dei corrieri che gliela portavano già cotta da Ginevra. Sempre a Versailles, nel maggio del 1914, si svolse una singolar tenzone cui furono invitati i 40 migliori «masterchef» dell'epoca. A nove di loro fu assegnato il compito di creare il menù perfetto, con relativi piatti. Vinse il trono goloso la Trota au grand Napoleon. La trota di torrente, o di fiume, non bastava più tanto che, nella seconda metà dell'Ottocento, si cominciarono a mettere a punto le tecniche di allevamento. I primi studi li si deve a Lazzaro Spallanzani, pioniere della fecondazione artificiale. In Italia il primo allevamento di trota fu opera di Agostino Zecchini che, nel 1858, lo inaugurò a Molina di Ledro, nel Trentino. A lui si affiancarono don Francesco Canevari e il conte Filippo Bossi Fedrigotti. Si provvide così anche ai ripopolamenti dei corsi d'acqua e dei laghi con uova e avannotti. Oggi il Trentino è la regione leader della troticoltura. Questa regina fluviale è un ottimo indicatore ecologico dello stato di salute ambientale. Infatti la trota abbisogna di acque ricche di ossigeno, quali possono essere solo quelle in buona salute. La trota è un pesce «alpinista» che può ambientarsi fino a 2.500 metri. Dalle vette alla tavola il passo può essere breve. Grazie anche alla regina Elena, la trota era di casa nei menù di casa Savoia tanto che, al Quirinale, vennero introdotte le trote cotte al Barolo e, quando si volle far festa allo zar Nicola II, gli si offrirono le trote in salsa Cardinal (con tanto di tartufo albese).Abbuffate con redenzione quelle che vedono protagonista la trota e non solo per i dettami di santa madre Chiesa, ma anche perché è un laboratorio di salute come aveva intuito Ippolito Salviani, archiatra vaticano nel Cinquecento. Ricca di omega 3 e minerali, povera di colesterolo, è un alimento adatto a tutti. Tra i grandi classici troviamo la trota alla mugnaia (filetti fritti e poi conditi con succo di limone e prezzemolo) o quella in cartoccio. Un cameo merita la trota in carpione. Si tratta di una preparazione che ha origini lontane, codificata nel 1570 da Bartolomeo Scappi, cuoco di papa Pio V. Per favorirne la conservabilità si lavorava il pesce mettendolo sotto sale, una volta fritto veniva passato sotto aceto e infine fatto bollire con sale e aromi. Così conciato poteva resistere diversi giorni prima del consumo. Tecnica del carpione utile anche in altre vicende più umane, come raccontano Elma Schena e Adriano Ravera. Sul finire dell'Ottocento venne a mancare l'amato vescovo di Cuneo. Sindaco e due assessori se ne andarono a Torino in cerca di degno imbalsamatore, tuttavia le richieste erano eccessive per le casse comunali. Presi da sconforto, i tre si consolarono, sulla via del ritorno, in un'osteria, dove il loro animo venne risollevato da una straordinaria trota in carpione. Sorpresi e incuriositi, chiesero la chiave di tanta magia a un oste compiaciuto di svelarne il segreto. Detto fatto. I tre si guardarono negli occhi e, il giorno dopo, venne consegnato il corpo del vescovo all'oste per le misure del caso. Tuttavia il palato si può imbalsamare goloso davanti a molte altre preparazioni. Ecco allora la trota in blu, tecnica messa a punto dal cuoco di casa Savoia Giovanni Vialardi. Si scotta la livrea del pesce con dell'aceto bollente e il manto irideo vira in blu, come per magia. Dopo lenta cottura a fuoco minimo la si può servire con salsa di capperi se servita calda, o, se a freddo, dopo una pennellata d'olio, con l'immancabile maionese. Ma ci sta pure con il foie gras, come insegnano Sandro e Maurizio Serva del ristorante La Trota in quel di Rivodutri. Farcia ideale con i ravioli, anche se chicca per pochi sono le guancette di trota con i maltagliati. Come sfiziosa entrè si può provare il salame di trota, una felice intuizione proposta, a Cuneo, dall'Antica salumeria Ariano. Un lavorato di trota misto a erbe e spezie, insaccato in budelli naturali, pressato e affumicato, servito a fette come aperitivo. Un suo fervido ammiratore, Camillo Sormano, agli inizi del Novecento, descrisse anche la sua vita affettiva. Nella stagione degli amori la femmina, scelto il posto per l'alcova, crea una piccola fossa sul fondo e frega il ventre contro la ghiaia (da qui il termine fregola per indicare la stagione degli amori), emettendone le uova. A quel punto entra in scena il maschio che produce il suo latte (così veniva chiamato il seme trotante). Dopo di che «i due sposi si congedano con un freddo addio, che non significa neppure arrivederci».
Andy Mann for Stefano Ricci
Così la famiglia Ricci difende le proprie creazioni della linea Sr Explorer, presentata al Teatro Niccolini insieme alla collezione Autunno-Inverno 2026/2027, concepita in Patagonia. «Più preserveremo le nostre radici, meglio costruiremo un futuro luminoso».
Il viaggio come identità, la natura come maestra, Firenze come luogo d’origine e di ritorno. È attorno a queste coordinate che si sviluppa il nuovo capitolo di Sr Explorer, il progetto firmato da Stefano Ricci. Questa volta, l’ottava, è stato presentato al Teatro Niccolini insieme alla collezione Autunno-Inverno 2026/2027, nata tra la Patagonia e la Terra del Fuoco, terre estreme che hanno guidato una riflessione sull’uomo, sulla natura e sul suo fragile equilibrio. «Guardo al futuro e vedo nuovi orizzonti da esplorare, nuovi territori e un grande desiderio di vivere circondato dalla bellezza», afferma Ricci, introducendo il progetto. «Oggi non vi parlo nel mio ruolo di designer, ma con lo spirito di un esploratore. Come un grande viaggiatore che ha raggiunto luoghi remoti del Pianeta, semplicemente perché i miei obiettivi iniziavano dove altri vedevano dei limiti».
Aimo Moroni e Massimiliano Alajmo
Ultima puntata sulla vita del grande chef, toscano di nascita ma milanese d’adozione. Frequentando i mercati generali impara a distinguere a occhio e tatto gli ingredienti di qualità. E trova l’amore con una partita a carte.
Riprendiamo con la seconda e conclusiva puntata sulla vita di Aimo Moroni. Cesare era un cuoco di origine napoletana che aveva vissuto per alcuni anni all’estero. Si era presentato alla cucina del Carminati con una valigia che, all’interno, aveva ben allineati i ferri del mestiere, coltelli e lame.
Davanti agli occhi curiosi dei due ragazzini l’esordio senza discussioni: «Guai a voi se me li toccate». In realtà una ruvidezza solo di apparenza, in breve capì che Aimo e Gialindo avevano solo il desiderio di apprendere da lui la professione con cui volevano realizzare i propri sogni. Casa sua divenne il laboratorio dove insegnò loro i piccoli segreti di una vita, mettendoli poi alla prova nel realizzare i piatti con la promozione o bocciatura conseguente.
Alessandra Coppola ripercorre la scia di sangue della banda neonazi Ludwig: fanatismo, esoterismo, violenza e una rete oscura che il suo libro Il fuoco nero porta finalmente alla luce.
La premier nipponica vara una manovra da 135 miliardi di dollari Rendimenti sui bond al top da 20 anni: rischio calo della liquidità.
Big in Japan, cantavano gli Alphaville nel 1984. Anni ruggenti per l’ex impero del Sol Levante. Il boom economico nipponico aveva conquistato il mondo con le sue esportazioni e la sua tecnologia. I giapponesi, sconfitti dall’atomica americana, si erano presi la rivincita ed erano arrivati a comprare i grattacieli di Manhattan. Nel 1990 ci fu il top dell’indice Nikkei: da lì in poi è iniziata la «Tokyo decadence». La globalizzazione stava favorendo la Cina, per cui la nuova arma giapponese non era più l’industria ma la finanza. Basso costo del denaro e tanto debito, con una banca centrale sovranista e amica dei governi, hanno spinto i samurai e non solo a comprarsi il mondo.





