True
2021-01-26
Tutte le strade di Arcuri portano in Cina
Andreyna Dayanna (Facebook)
Con le guance piene e le labbra tumide quando parla sembra un venditore di empanadas di quelli che si incontrano sulle spiagge della sua Manta. Eppure il cinquantenne ecuadoriano Jorge Edisson Solis San Andres è il personaggio centrale nella vicenda della maxi commessa di mascherine acquistate dalla struttura del commissario straordinario per l'emergenza Domenico Arcuri.
Sino a pochi mesi fa era un imprenditore un po' traffichino che si preoccupava con alterne fortune di fare piccoli affarucci. La Guardia di finanza quando è entrata nella sua casa di Ardea, in provincia di Roma (una villetta a due piani con salone, cucina, due bagni e tre camere da letto) ha trovato un faldone rosa contenente pratiche di finanziamento chieste da cittadini stranieri. Due o tre di questi lo hanno pure denunciato sentendosi truffati. Ma nelle stesse stanze le Fiamme gialle hanno sequestrato sei folder contenenti altrettante lettere di incarico per la fornitura di mascherine intestate alla Presidenza del Consiglio dei ministri-Commissario straordinario per l'emergenza Covid.
Il doppio registro di Solis non deve stupire. Domenica sera, durante la trasmissione di Massimo Giletti Non è l'Arena, è venuto per la prima volta allo scoperto e si è preso il merito dell'affare su cui la Procura di Roma ha acceso i riflettori immaginando una gigantesca frode nelle pubbliche forniture. Se l'Italia ha messo in magazzino 801 milioni di mascherine a prezzi non proprio di saldo è grazie a lui.
Con la giornalista si è mostrato quasi infastidito che in giro si dicesse che aveva incassato la miseria di 3,8 milioni di euro: «Questa è un'esclusiva per Giletti, Giletti sei forte!» ha proclamato scimmiottando Adriano Celentano. «Quei 3,8 milioni, che in realtà sono 5,8 milioni, mi sono arrivati dalla Wenzhou light. Allora io faccio fattura con la società di mia figlia alla Wenzhou light e la Wenzhou light paga mia figlia che lavora con me». Però in un altro passaggio Solis ci tiene a far sapere che la Guernica con l'affare non c'entra proprio niente: «Perché noi non facciamo né importazioni né esportazioni con la Guernica».
In effetti dall'1 marzo 2019, fino al giorno del primo bonifico di 300.000 euro (dell'8 maggio 2020) da parte della Wenzhou light, sul conto corrente della Guernica erano entrati solo 4.194,53 euro e la transazione più alta era stata di 500 euro; l'ultimo pagamento di 18 euro era arrivato il 2 gennaio 2020. Ma da maggio su due diversi conti sono affluiti 3,8 milioni. La commercialista C. B. ha dichiarato agli investigatori: «La società risulta amministrata dalla figlia Dayanna, ma chi si occupa di tutto è il padre Jorge. Per quanto ne so la società si occupa di vendita di prodotti di canapa, ma è stata operativa fino alla fine del 2019 […] disconosco il fatto che la Guernica abbia contatti con società cinesi e che si sia occupata di dispositivi di protezione individuali». Ma se la Guernica è questa, con che società è stato fatto l'affare Solis? Il neo milionario si impettisce: «Io lavoro per la Cina. Abbiamo creato una holding, la Wenzhou light… la Luokai è una figlia della mamma che è la Wenzhou che paga a tutti noi la provvigione». La giornalista gli fa notare che la figlia è stata creata in fretta e furia a cinque giorni dalla firma del contratto. Solis è spiazzante: «La Luokai […] fu creata per una questione fiscale, come succede in Italia, perché con una società piccola non puoi fatturare tanto. È normale […] perché avevamo un appalto grande». Un gioco delle tre carte su cui sembra che nessuno abbia fatto controlli. E così a questa strana multinazionale della mascherina sembra che siano arrivate decine e decine di milioni di euro di commissioni. A giudizio di Solis, meritatissimi. I 59 milioni all'ingegnere Andrea Vincenzo Tommasi? «È il più forte nella logistica. Lui è la persona a cui abbiamo dato più provvigioni». Anche se sotto sotto, pure in questo caso, Solis sembra volersi prendere il merito: «Ok il contatto con Tommasi sono io. Io sono el l'uomo della mascherina».
Prova a sminuire anche il ruolo di Mario Benotti, il giornalista Rai in aspettativa che conosceva direttamente Arcuri: «Allora, no, questa storia che il dottor Benotti ha messo (in contatto, ndr) con il dottor Arcuri è una bugia» giura Solis, forse pensando di fare un favore al socio d'affari, il quale, però, da tempo rivendica di essere stato messo in pista dal commissario in persona. Continua Solis: «Io con il gruppo mio abbiamo detto: “Al dottor Benotti dobbiamo dare una provvigione per il lavoro che… si è impegnato… non ha mai chiesto un euro niente». In realtà nell'ufficio di Benotti i finanzieri hanno trovato un documento intitolato «fee agreement» intestato alla Microproducts di Benotti, risalente al 15 marzo 2020, oltre a 34 fatture emesse tra il 6 aprile e il 13 luglio per un importo complessivo di 12 milioni di euro. Messo alle strette, Solis giustifica il pagamento in un modo che quasi commuove: «Allora se la torta è grande, una fetta di torta è normale che ogni persona che sta nel gruppo […] Il dottor Benotti mi ha contactato per aiutare l'Italia, lui mi ha detto guarda adesso c'è molta crisi. Sta tutto registrato in Whatsapp che la Finanza ha… lui mi ha messo in contatto… il dottor Benotti ha messo la faccia per l'Italia, perché quando nessuno voleva dar credito all'Italia ha detto: “Aiutami, voi siete le uniche persone che mi possono aiutare, io garantisco per l'Italia"». Sembra di udire l'inno di Mameli sullo sfondo. «Lui ha comunicato no ad Arcuri, ha comunicato alla Protezione civile che aveva trovato a Jorge Solis e ad Andrea Tommasi». E uno dei più stretti collaboratori del commissario, Antonio Fabbrocini si sarebbe fatto vivo: «Sono di Invitalia. Io voglio che lei aiuti l'Italia. Io garantisco che la mia banca paga». A quel punto Solis avrebbe scomodato le sue conoscenze. A partire da un cinese con residenza nell'italianissimo e popolarissimo quartiere romano del Quadraro, Zhongkai Cai. «Io sono quello con i contatti con la Cina… venti anni insomma… siamo amici siamo un gruppo de cinesi, sono pure cristiani, conosciamo moglie figli, tutti» scandisce Jorge, detto Giorgio. Certo non è facile immaginare questa comunità cino-ecuadoriana-cristiana che fa affari miliardari con Arcuri, ma cerchiamo di non essere provinciali e procediamo oltre. «Io lavoro per la Cina, io lavoro per il signor Ho, per la Wenzhou light, come si chiama la società. Il signor Ho è il direttore generale di tutte le società. A me, a tutti noi ci ha pagato la Wenzhou light». Quando compulsiamo le visure delle ditte di import export che hanno importato le mascherine troviamo un Ho Pan Chiu: è il rappresentante legale della Shanghai Prince international da cui sembrano dipendere, in uno schema di scatole rigorosamente cinesi, la Wenzhou light, la Wenzhou Moon-Ray e la Luokai trade.
Il rappresentante legale della Wenzhou light è, invece, Gao Wu. Nelle mail scambiate tra Solis e Cai, come abbiamo scritto nei giorni scorsi, l'ecuadoriano annunciava fantasmagoriche commissioni.
A voler credere a quei messaggi le provvigioni intascate dai mediatori non sarebbero di 72 milioni, pari al 5,76 per cento del valore delle forniture, ma ammonterebbero ad almeno 203 milioni, ovvero il 16,24 per cento del costo della commessa. L'articolo 1755, codice civile stabilisce che il mediatore ha diritto alla provvigione da ciascuna delle parti, se l'affare è concluso per effetto del suo intervento, e il compenso del mediatore si aggira intorno al 5%. Un guadagno del 20% pertiene all'attività di impresa. E dal 2020, forse, anche a chi fa il lobbista con lo Stato.
«La proposta da Seul per risparmiare centinaia di milioni snobbata da Arcuri»
Emergono nuovi particolari sul sistema di fornitura di mascherine cinesi per l'emergenza Covid 19 e ancora una volta si scopre che l'operato del commissario Domenico Arcuri non è proprio trasparente e tantomeno strategico. «L'Italia non ha risparmiato sulle mascherine», ha dichiarato l'imprenditore Pierluigi Stefani, a Non è l'Arena.
I dispositivi Ffp2 si potevano comprare a circa un terzo di quanto speso, acquistandoli da un'azienda della Corea del Sud, ma l'Italia ha preferito le più costose mascherine cinesi. Durante il programma televisivo il manager, attivo nel business degli eventi musicali e con sede anche a Seul, ha spiegato che «ai primi di marzo, da un'azienda primaria coreana è arrivata una proposta dedicata a enti e istituzioni italiane, non privati, per la fornitura di mascherine ffp2 certificate a 7 centesimi l'una (contro i 2,20 euro delle cinesi, ndr) con una consegna garantita entro 8 mesi dalla proposta di 100 milioni di mascherine». Il numero era comunque indicativo, «potevano essere di meno o di più, bastava che lo chiedessero», ha spiegato Stefani. I numeri sono noti. La cinese Wenzhou Moon-Ray faceva pagare 2,20 euro ogni mascherina Ffp2. Per la fornitura di 10 milioni di mascherine, l'Italia paga 22 milioni di euro. Stefani, in Corea, ha molti amici che, data l'emergenza, si rendono disponibili a creare dei contatti per la fornitura di mascherine Ffp2. Una primaria azienda è in grado di fornire lo stesso identico prodotto cinese a 0,70 euro. Considerando che si era a marzo del 2020, quindi a inizio pandemia, l'imprenditore si è subito attivato informando i contatti che aveva: la Protezione civile, di cui è commissario straordinario Arcuri, Assolombarda, Regione Toscana, Regione Campania, il senatore Massimo Mallegni. La proposta aveva tutte le carte in regola per essere una buona opportunità a un costo decisamente più contenuto.
«Io non sono un venditore né di saponette né di mascherine», precisa Stefani, «mi sono solo reso disponibile fornendo il numero di telefono di chi contattare e dato disponibilità per eventuale supporto con l'inglese». Quindi, da normale cittadino si è messo a disposizione senza nessun altro fine, anche perché, per una storia personale, è grato al sistema sanitario. Ha cercato tutti, ha bussato a tutte le porte, ma nessuno ha risposto. «Mi aspettavo che qualcuno chiamasse l'ambasciata italiana a Seul e, attraverso l'ambasciata, si informasse sull'azienda e prendesse un aereo per fare un contratto». Niente di stratosferico. In piena pandemia, la proposta di recuperare in tempi brevi dei dispositivi di protezione certificati a prezzi tre volte inferiori di altre offerte, in un Paese normale, avrebbe suscitato almeno un minimo interesse. Insospettito dal silenzio delle istituzioni, il manager si è prodigato a verificare che l'informazione fosse arrivata.
Quando ha chiesto notizie ad Assolombarda, pensando che fosse impossibile che non interessasse a nessuno, l'associazione ha assicurato che «la proposta è stata inoltrata a Dipartimento della protezione civile», ma è tutto in mano al commissario Arcuri «che però decidere liberamente, non è tenuto a dare riscontro». Inascoltato è stato anche il senatore Mallegni che, avuta l'informazione, «ha scritto a Conte, Borrelli, a tutti», ricorda il manager, ma niente da fare. Lo stesso senatore, chiamando in trasmissione conferma l'incredibile disinteresse delle istituzioni ad avere mascherine a prezzi più bassi.
«La storia è particolarmente preoccupante», ha dichiarato Mallegni. «Quando Stefani mi ha segnalato la questione delle mascherine, in un tempo in cui non si trovavano, diligentemente, da senatore della Repubblica, ho preso la carta intestata del Senato e ho scritto al presidente del Consiglio, nella sua mail privata, ho scritto al capo della Protezione civile, ho scritto al commissario Arcuri non una non due, ma più di una mail per segnalare la questione». Il risultato? «Non mi hanno mai risposto», ma il commissario Arcuri «mi ha telefonato personalmente», ricorda il senatore. Nel contenuto della telefonata c'è l'essenza di questa gestione. Di fronte alla possibilità di avere in un momento di estrema necessità un accesso rapido, diretto a dei dispositivi che costavano un terzo di quelli poi acquistati, Arcuri, come dice il senatore Mallegni si è giustificato affermando che «i tecnici della sua struttura hanno ritenuto l'offerta non particolarmente vantaggiosa e che avrebbero guardato altrove». Un altrove che, oltre a far pagare la stessa mascherina il triplo allo Stato - quindi ai cittadini - avrebbe fatto intascare oltre 200 milioni di provvigioni a soggetti che pretendono di farci credere di aver fatto risparmiare all'Italia.
Una storia che non sta in piedi, ma del resto non ci si può aspettare di meglio da un commissario investito in pompa magna da un governo che perde i pezzi. Proprio un esempio di democrazia e trasparenza, da parte del governo Conte, di dare a una sola persona, non solo la possibilità di decidere liberamente, ma di non dover rispondere, su scelte che interessano la salute pubblica.
Continua a leggere
Riduci
Uno dei mediatori dell'affare mascherine: «Ho io i contatti con Pechino, abbiamo creato una holding». Jorge Edisson Solis San Andres rivela di aver guadagnato più di quanto finora emerso. La triangolazione con la società della figliaI prezzi coreani per le protezioni erano inferiori a quelli cinesi. L'imprenditore Pierluigi Stefani: anche Giuseppe Conte si disinteressò all'offertaLo speciale contiene due articoliCon le guance piene e le labbra tumide quando parla sembra un venditore di empanadas di quelli che si incontrano sulle spiagge della sua Manta. Eppure il cinquantenne ecuadoriano Jorge Edisson Solis San Andres è il personaggio centrale nella vicenda della maxi commessa di mascherine acquistate dalla struttura del commissario straordinario per l'emergenza Domenico Arcuri.Sino a pochi mesi fa era un imprenditore un po' traffichino che si preoccupava con alterne fortune di fare piccoli affarucci. La Guardia di finanza quando è entrata nella sua casa di Ardea, in provincia di Roma (una villetta a due piani con salone, cucina, due bagni e tre camere da letto) ha trovato un faldone rosa contenente pratiche di finanziamento chieste da cittadini stranieri. Due o tre di questi lo hanno pure denunciato sentendosi truffati. Ma nelle stesse stanze le Fiamme gialle hanno sequestrato sei folder contenenti altrettante lettere di incarico per la fornitura di mascherine intestate alla Presidenza del Consiglio dei ministri-Commissario straordinario per l'emergenza Covid.Il doppio registro di Solis non deve stupire. Domenica sera, durante la trasmissione di Massimo Giletti Non è l'Arena, è venuto per la prima volta allo scoperto e si è preso il merito dell'affare su cui la Procura di Roma ha acceso i riflettori immaginando una gigantesca frode nelle pubbliche forniture. Se l'Italia ha messo in magazzino 801 milioni di mascherine a prezzi non proprio di saldo è grazie a lui.Con la giornalista si è mostrato quasi infastidito che in giro si dicesse che aveva incassato la miseria di 3,8 milioni di euro: «Questa è un'esclusiva per Giletti, Giletti sei forte!» ha proclamato scimmiottando Adriano Celentano. «Quei 3,8 milioni, che in realtà sono 5,8 milioni, mi sono arrivati dalla Wenzhou light. Allora io faccio fattura con la società di mia figlia alla Wenzhou light e la Wenzhou light paga mia figlia che lavora con me». Però in un altro passaggio Solis ci tiene a far sapere che la Guernica con l'affare non c'entra proprio niente: «Perché noi non facciamo né importazioni né esportazioni con la Guernica».In effetti dall'1 marzo 2019, fino al giorno del primo bonifico di 300.000 euro (dell'8 maggio 2020) da parte della Wenzhou light, sul conto corrente della Guernica erano entrati solo 4.194,53 euro e la transazione più alta era stata di 500 euro; l'ultimo pagamento di 18 euro era arrivato il 2 gennaio 2020. Ma da maggio su due diversi conti sono affluiti 3,8 milioni. La commercialista C. B. ha dichiarato agli investigatori: «La società risulta amministrata dalla figlia Dayanna, ma chi si occupa di tutto è il padre Jorge. Per quanto ne so la società si occupa di vendita di prodotti di canapa, ma è stata operativa fino alla fine del 2019 […] disconosco il fatto che la Guernica abbia contatti con società cinesi e che si sia occupata di dispositivi di protezione individuali». Ma se la Guernica è questa, con che società è stato fatto l'affare Solis? Il neo milionario si impettisce: «Io lavoro per la Cina. Abbiamo creato una holding, la Wenzhou light… la Luokai è una figlia della mamma che è la Wenzhou che paga a tutti noi la provvigione». La giornalista gli fa notare che la figlia è stata creata in fretta e furia a cinque giorni dalla firma del contratto. Solis è spiazzante: «La Luokai […] fu creata per una questione fiscale, come succede in Italia, perché con una società piccola non puoi fatturare tanto. È normale […] perché avevamo un appalto grande». Un gioco delle tre carte su cui sembra che nessuno abbia fatto controlli. E così a questa strana multinazionale della mascherina sembra che siano arrivate decine e decine di milioni di euro di commissioni. A giudizio di Solis, meritatissimi. I 59 milioni all'ingegnere Andrea Vincenzo Tommasi? «È il più forte nella logistica. Lui è la persona a cui abbiamo dato più provvigioni». Anche se sotto sotto, pure in questo caso, Solis sembra volersi prendere il merito: «Ok il contatto con Tommasi sono io. Io sono el l'uomo della mascherina». Prova a sminuire anche il ruolo di Mario Benotti, il giornalista Rai in aspettativa che conosceva direttamente Arcuri: «Allora, no, questa storia che il dottor Benotti ha messo (in contatto, ndr) con il dottor Arcuri è una bugia» giura Solis, forse pensando di fare un favore al socio d'affari, il quale, però, da tempo rivendica di essere stato messo in pista dal commissario in persona. Continua Solis: «Io con il gruppo mio abbiamo detto: “Al dottor Benotti dobbiamo dare una provvigione per il lavoro che… si è impegnato… non ha mai chiesto un euro niente». In realtà nell'ufficio di Benotti i finanzieri hanno trovato un documento intitolato «fee agreement» intestato alla Microproducts di Benotti, risalente al 15 marzo 2020, oltre a 34 fatture emesse tra il 6 aprile e il 13 luglio per un importo complessivo di 12 milioni di euro. Messo alle strette, Solis giustifica il pagamento in un modo che quasi commuove: «Allora se la torta è grande, una fetta di torta è normale che ogni persona che sta nel gruppo […] Il dottor Benotti mi ha contactato per aiutare l'Italia, lui mi ha detto guarda adesso c'è molta crisi. Sta tutto registrato in Whatsapp che la Finanza ha… lui mi ha messo in contatto… il dottor Benotti ha messo la faccia per l'Italia, perché quando nessuno voleva dar credito all'Italia ha detto: “Aiutami, voi siete le uniche persone che mi possono aiutare, io garantisco per l'Italia"». Sembra di udire l'inno di Mameli sullo sfondo. «Lui ha comunicato no ad Arcuri, ha comunicato alla Protezione civile che aveva trovato a Jorge Solis e ad Andrea Tommasi». E uno dei più stretti collaboratori del commissario, Antonio Fabbrocini si sarebbe fatto vivo: «Sono di Invitalia. Io voglio che lei aiuti l'Italia. Io garantisco che la mia banca paga». A quel punto Solis avrebbe scomodato le sue conoscenze. A partire da un cinese con residenza nell'italianissimo e popolarissimo quartiere romano del Quadraro, Zhongkai Cai. «Io sono quello con i contatti con la Cina… venti anni insomma… siamo amici siamo un gruppo de cinesi, sono pure cristiani, conosciamo moglie figli, tutti» scandisce Jorge, detto Giorgio. Certo non è facile immaginare questa comunità cino-ecuadoriana-cristiana che fa affari miliardari con Arcuri, ma cerchiamo di non essere provinciali e procediamo oltre. «Io lavoro per la Cina, io lavoro per il signor Ho, per la Wenzhou light, come si chiama la società. Il signor Ho è il direttore generale di tutte le società. A me, a tutti noi ci ha pagato la Wenzhou light». Quando compulsiamo le visure delle ditte di import export che hanno importato le mascherine troviamo un Ho Pan Chiu: è il rappresentante legale della Shanghai Prince international da cui sembrano dipendere, in uno schema di scatole rigorosamente cinesi, la Wenzhou light, la Wenzhou Moon-Ray e la Luokai trade.Il rappresentante legale della Wenzhou light è, invece, Gao Wu. Nelle mail scambiate tra Solis e Cai, come abbiamo scritto nei giorni scorsi, l'ecuadoriano annunciava fantasmagoriche commissioni.A voler credere a quei messaggi le provvigioni intascate dai mediatori non sarebbero di 72 milioni, pari al 5,76 per cento del valore delle forniture, ma ammonterebbero ad almeno 203 milioni, ovvero il 16,24 per cento del costo della commessa. L'articolo 1755, codice civile stabilisce che il mediatore ha diritto alla provvigione da ciascuna delle parti, se l'affare è concluso per effetto del suo intervento, e il compenso del mediatore si aggira intorno al 5%. Un guadagno del 20% pertiene all'attività di impresa. E dal 2020, forse, anche a chi fa il lobbista con lo Stato.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-torta-e-grande-una-fetta-a-tutti-lecuadoriano-incastra-i-soci-in-tv-2650134029.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-proposta-da-seul-per-risparmiare-centinaia-di-milioni-snobbata-da-arcuri" data-post-id="2650134029" data-published-at="1611614163" data-use-pagination="False"> «La proposta da Seul per risparmiare centinaia di milioni snobbata da Arcuri» Emergono nuovi particolari sul sistema di fornitura di mascherine cinesi per l'emergenza Covid 19 e ancora una volta si scopre che l'operato del commissario Domenico Arcuri non è proprio trasparente e tantomeno strategico. «L'Italia non ha risparmiato sulle mascherine», ha dichiarato l'imprenditore Pierluigi Stefani, a Non è l'Arena. I dispositivi Ffp2 si potevano comprare a circa un terzo di quanto speso, acquistandoli da un'azienda della Corea del Sud, ma l'Italia ha preferito le più costose mascherine cinesi. Durante il programma televisivo il manager, attivo nel business degli eventi musicali e con sede anche a Seul, ha spiegato che «ai primi di marzo, da un'azienda primaria coreana è arrivata una proposta dedicata a enti e istituzioni italiane, non privati, per la fornitura di mascherine ffp2 certificate a 7 centesimi l'una (contro i 2,20 euro delle cinesi, ndr) con una consegna garantita entro 8 mesi dalla proposta di 100 milioni di mascherine». Il numero era comunque indicativo, «potevano essere di meno o di più, bastava che lo chiedessero», ha spiegato Stefani. I numeri sono noti. La cinese Wenzhou Moon-Ray faceva pagare 2,20 euro ogni mascherina Ffp2. Per la fornitura di 10 milioni di mascherine, l'Italia paga 22 milioni di euro. Stefani, in Corea, ha molti amici che, data l'emergenza, si rendono disponibili a creare dei contatti per la fornitura di mascherine Ffp2. Una primaria azienda è in grado di fornire lo stesso identico prodotto cinese a 0,70 euro. Considerando che si era a marzo del 2020, quindi a inizio pandemia, l'imprenditore si è subito attivato informando i contatti che aveva: la Protezione civile, di cui è commissario straordinario Arcuri, Assolombarda, Regione Toscana, Regione Campania, il senatore Massimo Mallegni. La proposta aveva tutte le carte in regola per essere una buona opportunità a un costo decisamente più contenuto. «Io non sono un venditore né di saponette né di mascherine», precisa Stefani, «mi sono solo reso disponibile fornendo il numero di telefono di chi contattare e dato disponibilità per eventuale supporto con l'inglese». Quindi, da normale cittadino si è messo a disposizione senza nessun altro fine, anche perché, per una storia personale, è grato al sistema sanitario. Ha cercato tutti, ha bussato a tutte le porte, ma nessuno ha risposto. «Mi aspettavo che qualcuno chiamasse l'ambasciata italiana a Seul e, attraverso l'ambasciata, si informasse sull'azienda e prendesse un aereo per fare un contratto». Niente di stratosferico. In piena pandemia, la proposta di recuperare in tempi brevi dei dispositivi di protezione certificati a prezzi tre volte inferiori di altre offerte, in un Paese normale, avrebbe suscitato almeno un minimo interesse. Insospettito dal silenzio delle istituzioni, il manager si è prodigato a verificare che l'informazione fosse arrivata. Quando ha chiesto notizie ad Assolombarda, pensando che fosse impossibile che non interessasse a nessuno, l'associazione ha assicurato che «la proposta è stata inoltrata a Dipartimento della protezione civile», ma è tutto in mano al commissario Arcuri «che però decidere liberamente, non è tenuto a dare riscontro». Inascoltato è stato anche il senatore Mallegni che, avuta l'informazione, «ha scritto a Conte, Borrelli, a tutti», ricorda il manager, ma niente da fare. Lo stesso senatore, chiamando in trasmissione conferma l'incredibile disinteresse delle istituzioni ad avere mascherine a prezzi più bassi. «La storia è particolarmente preoccupante», ha dichiarato Mallegni. «Quando Stefani mi ha segnalato la questione delle mascherine, in un tempo in cui non si trovavano, diligentemente, da senatore della Repubblica, ho preso la carta intestata del Senato e ho scritto al presidente del Consiglio, nella sua mail privata, ho scritto al capo della Protezione civile, ho scritto al commissario Arcuri non una non due, ma più di una mail per segnalare la questione». Il risultato? «Non mi hanno mai risposto», ma il commissario Arcuri «mi ha telefonato personalmente», ricorda il senatore. Nel contenuto della telefonata c'è l'essenza di questa gestione. Di fronte alla possibilità di avere in un momento di estrema necessità un accesso rapido, diretto a dei dispositivi che costavano un terzo di quelli poi acquistati, Arcuri, come dice il senatore Mallegni si è giustificato affermando che «i tecnici della sua struttura hanno ritenuto l'offerta non particolarmente vantaggiosa e che avrebbero guardato altrove». Un altrove che, oltre a far pagare la stessa mascherina il triplo allo Stato - quindi ai cittadini - avrebbe fatto intascare oltre 200 milioni di provvigioni a soggetti che pretendono di farci credere di aver fatto risparmiare all'Italia. Una storia che non sta in piedi, ma del resto non ci si può aspettare di meglio da un commissario investito in pompa magna da un governo che perde i pezzi. Proprio un esempio di democrazia e trasparenza, da parte del governo Conte, di dare a una sola persona, non solo la possibilità di decidere liberamente, ma di non dover rispondere, su scelte che interessano la salute pubblica.
Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
Continua a leggere
Riduci
iStock
Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
Continua a leggere
Riduci
Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
Continua a leggere
Riduci