2022-04-01
La sovranità debole e la paura ci hanno condotti al disastro
Di fronte alla pandemia i governi hanno reagito senza razionalità. Accade quando a decidere sono dei meccanismi impersonali.Non ne siamo forse ancora del tutto consapevoli, ma le politiche messe in atto in particolare dai Paesi occidentali per contrastare la pandemia possono rappresentare un punto di svolta, qualcosa di infinitamente più complesso e significativo di un insieme di interventi dettati dall’emergenza, di una dolorosa parentesi. Intorno a questa prospettiva, sarà necessario tornare con più ampiezza, quando l’aspetto medico-sanitario della crisi sarà superato e potremmo valutare con più obbiettività questa vicenda nella sua dimensione storico-sociale complessiva. Fin d’ora, però, una ricerca come quella di Bizzarri invita, anzi obbliga a qualche riflessione generale. L’interrogativo nasce prepotentemente dalle stesse analisi che Bizzarri presenta (nel suo libro, ndr). Perché a fronte di dati incontrovertibili, sempre più suffragati da miriadi di ricercatori (la letteratura scientifica internazionale su cui il libro si fonda è ultra-esauriente), le politiche seguite hanno insistito sull’unico fronte delle chiusure, degli obblighi urbi et orbi, della vaccinazione di massa (la domanda varrebbe anche se l’efficacia del vaccino fosse assoluta)? Ci si trova quasi di fronte a un riflesso condizionato. L’emergenza sembra aver fatto scattare una risposta istintiva. I piani pandemici precedentemente elaborati puntavano sul discernimento, su isolamenti parziali, su interventi medici diffusi secondo scienza e coscienza, escludevano o quasi il ricorso a lockdown, non facevano neanche cenno a trattamenti sanitari obbligati. Eppure tali piani prevedevano la possibilità di pandemie ancora più gravi di quella che abbiamo attraversato, sia per decessi che per il ricorso a terapie intensive. Erano piani che prevedevano strategie di intervento. Che cosa ha fatto scattare un meccanismo che ne ha reso impossibile l’attuazione ragionata? Tentare una risposta non può che rimandarci al contesto politico e, direi, culturale in cui anche le nostre politiche sanitarie sono, volenti o nolenti, immerse. La lettura emergenzialistica di questa esperienza non regge – anche perché, è evidente, un’emergenza che si protrae nel tempo sine die cessa di essere tale e va diversamente interpretata. La pandemia ha messo in drammatica evidenza i limiti fisiologici delle tradizionali forme di sovranità. Con la pandemia tali limiti hanno toccato il corpo delle persone. Quando si trattava di ambiente, di energia, di economia e finanza i processi di globalizzazione potevano apparire (non lo erano!) ininfluenti sulle forme della nostra vita. Il Covid ha mostrato come il tramonto di quelle forme, non sostituite da altre, comporti dirette e drammatiche conseguenze sulla nostra stessa salute. Ciò ha generato, a livello di massa, il fenomeno, sempre fondamentale per interpretare le modalità dell’azione politica, della paura, nel senso greco del termine: phobos, da cui fobia, che implica il fuggire di fronte al pericolo, non l’affrontarlo. La fuga genera il tentativo di richiudersi in sé, di nascondersi, di sottrarsi al rischio che l’altro, qualunque sia la sua figura, sempre, per forza, rappresenta. Una fobia dell’immunità ha preso possesso della nostra mente. Come è avvenuto? La mia idea è che sia stata la debolezza del «sovrano» a scatenarla; la incapacità di previsione (clamorosa in questo caso; come Bizzarri documenta, il pericolo e l’esistenza di epidemie erano ben noti), l’impotenza a porre in atto misure di portata strategica, coinvolgenti cioè in modo armonico tutti i soggetti interessati a rispondere all’emergenza (chiamiamola «destrutturazione» tecnicoamministrativa), hanno reso «inevitabile» la fuga che abbiamo sperimentato, il precipitarsi, cioè, per la via di fuga: blocchi e inflazione caotica, irrazionale di norme, a prescindere da ogni altra valutazione di ordine giuridico, sociale, culturale (valutazioni sempre inascoltate o avvertite con assoluto fastidio). La via «autoritaria» è in questo caso l’espressione di una profonda crisi del «sovrano», non di una sua precisa volontà, tantomeno di una strategia politica. Per un verso ciò è rassicurante, per l’altro indica un pericolo forse ancora maggiore per lo Stato di diritto, così come finora lo si è inteso (o fra-inteso). È in corso qualcosa di sotterraneo, ma niente affatto misterioso: processi che in gran parte sfuggono alla volontà di chi sembra porli in atto, tuttavia ben chiari nei loro meccanismi. Mutamenti strutturali «senza soggetto». Da qui anche la crisi delle tradizionali forme di organizzazione politica, sempre strettamente connesse a logiche «identitarie». Se è il «meccanismo» a comandare, che potere possono avere quest’ultime, col loro inevitabile bagaglio ideologico? Parlo dell’evoluzione «naturale» dei sistemi politici verso forme in cui la procedura tecnico-amministrativa fagocita in sé la rappresentanza politica, fino all’identificarsi delle due dimensioni. Questo processo è del tutto funzionale all’affermazione del potere economico-finanziario, globale per natura. Le antiche sovranità nazionali, territorialmente determinate, ne diventano uffici o, al più, provincie.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)
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