
Così una consulente mancata diventa «un duro colpo per le istituzioni». Con un senso del melodramma degno di un film di Pietro Germi, la sinistra oggi vede «crepe profonde» nelle fondamenta della Repubblica. Chi ha digerito senza fiatare i 24.000 euro nella cuccia del cane di Monica Cirinnà, i profumi di Piero Fassino e ha festeggiato l’elezione della pluripregiudicata Ilaria Salis a Bruxelles, ora è afflitto da gastrite permanente per il caso Sangiuliano-Boccia. E chiede l’allontanamento del ministro, vuole che Giorgia Meloni «spieghi in Parlamento», critica lo scoop del Tg1. Insomma apparecchia il consueto armamentario dimissionista, strategia a senso unico di un’opposizione che - non essendo più in grado di fare politica in Parlamento - si fa sostituire di volta in volta dalla magistratura (vicenda Giovanni Toti), dal sistema mediatico o dalla piazza referendaria, chiamata ad abrogare la qualunque.
Qui il Braveheart del moralismo a targhe alterne è Angelo Bonelli (portavoce di Alleanza Verdi e Sinistra), che brandisce fuori da Montecitorio un esposto consegnato al posto di polizia della Camera e indirizzato alla Procura di Roma. «Ho sentito una imbarazzante intervista di Gennaro Sangiuliano, che non deve chiedere scusa a Giorgia Meloni o a sua moglie ma agli italiani, e siccome il premier difende l’indifendibile non mi resta che rivolgermi ancora all’autorità giudiziaria».
Le ipotesi di reato sarebbero distrazione per peculato e rivelazione di (ancora misteriosi) segreti d’ufficio perché, come spiega Bonelli, «nella ricostruzione del ministro c’è qualcosa che non torna. Accreditare una persona che non aveva nessun ruolo utilizzando servizi dello Stato, andando ospite di organizzazioni e amministrazioni locali, facendo in modo che Maria Rosaria Boccia venisse a conoscenza di atti riservati della Pubblica amministrazione, è un fatto di una gravità inaudita». Ovviamente erano meno inaudite le imprese cooperative della moglie e della suocera di Aboubakar Soumahoro, scandalo che non aveva creato incubi notturni ad alcun esponente di Avs fino a quando le inchieste non hanno travolto i parenti del sindacalista con gli stivali.
Premettendo che la faccenda getta una lunga ombra sull’ingenuità e sull’autolesionismo del poco astuto titolare del ministero della Cultura, il tentativo di moralizzazione della sua vita privata (fino a prova contraria) ha in sé qualcosa di triste e ridicolo insieme. Diventa quindi automatico, quasi necessario, stigmatizzare con levità il puritanesimo ipocrita di chi non ha proprio patenti per salire - avvolto da corone d’alloro - sul podio della moralità. Fra gli indignati speciali spicca la pasionaria del Pd Laura Boldrini, che una decina di anni fa da presidente della Camera andò ai funerali di Nelson Mandela con volo di Stato in comitiva, con fidanzato e collaboratori. Oggi pontifica: «Raramente il nostro Paese è caduto così in basso. Una storia imbarazzante che va ben oltre il gossip, come dimostrano le dimissioni farsa prontamente respinte dalla presidente Meloni. La sua soap opera personale è diventata una questione politica e di sicurezza nazionale».
La sua collega Cecilia D’Elia non si capacita: «Avevamo chiesto al ministro Sangiuliano di venire a riferire sul caso Boccia in Parlamento perché ci interessano le ricadute istituzionali della vicenda, e invece occupa il servizio pubblico, la televisione di noi tutti, senza peraltro chiarire nulla. Davvero basta». Al Nazareno non si ricorda una simile preoccupazione per l’immagine dell’Italia neppure nei giorni dell’arresto per mazzette dell’immaginifico Antonio Panzeri, protagonista del Qatargate, il potente funzionario ex piddino che «aveva troppo contante e non sapeva cosa farne». Un problema così fastidioso che un giorno decise di «gettarne un po’ in un bidone della spazzatura mentre tornava a casa».
Nella sua spettacolare e mal tollerata deriva a sinistra, anche Italia viva è in allarme per le crepe nella credibilità della Repubblica. Matteo Renzi (quello delle convention milionarie in Arabia Saudita) non dorme più la notte e si concentra sullo sgarbo procedurale: «In un Paese civile si riferisce in Parlamento e non al Tg1». Subito spalleggiato (te pareva) da Maria Elena Boschi, che da ministro per le Riforme non ebbe problemi a rivolgersi all’ad di Unicredit per valutare l’acquisizione di Banca Etruria, con il babbo vicepresidente.
La deputata renziana, come gli esponenti del Movimento 5 stelle in Commissione di vigilanza Rai, critica anche la diretta tv. «Mai nella storia del servizio pubblico è stato stravolto un palinsesto e data una tribuna di 15 minuti a un ministro per un uso privato. I vertici dell’azienda siano immediatamente convocati dalla Commissione». La sua è un’antipatica ingerenza nelle prerogative della redazione. Anche alcuni commentatori per i quali «la notizia è sempre sovrana», oggi hanno la gastrite per lo scoop del direttore del Tg1, Gianmarco Chiocci. In realtà un’intervista puntuale, senza sconti, con domande efficaci. Un colpo giornalistico in piena regola che agita le code di paglia di chi è rimasto con un palmo di naso.






