2020-10-01
La Santa Sede taglia i ponti con gli Usa: «Washington strumentalizza il Papa»
Paul Richard Gallagher (Franco Origlia, Getty Images)
Il «ministro degli Esteri vaticano» Paul Richard Gallagher attacca Mike Pompeo, critico sul patto Chiesa-Cina: «Bergoglio non lo riceve, non si fa usare». Oggi l'incontro con Pietro Parolin, che però non media: «Non siamo irritati ma sorpresi».Il segreto di Pulcinella finalmente ieri è stato svelato. Il Papa aveva fatto sapere di non poter incontrare il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, in visita a Roma, perché è prassi che non vengano ricevute autorità politiche durante le campagne elettorali dei Paesi di appartenenza. In realtà il vero motivo, che tutti dicevano a denti stretti, è che Francesco non vuole farsi dettare la linea, soprattutto sulla Cina. E specialmente dagli Stati Uniti dell'amministrazione Trump.Il fastidio provocato Oltretevere da un articolo di Pompeo, pubblicato la settimana scorsa sulla rivista First thing, ieri si è materializzato nella dichiarazione secca che si è lasciato sfuggire il «ministro degli Esteri» vaticano, monsignor Paul Richard Gallagher, a margine del simposio sulla libertà religiosa organizzato dall'ambasciata degli Stati Uniti presso la Santa Sede e aperto proprio da Mike Pompeo. Dal nugolo di giornalisti esce una domanda rivolta a Gallagher, che si è anche lamentato di aver potuto parlare solo pochi minuti: c'è un tentativo di strumentalizzare il Papa nella partecipazione di Mike Pompeo a un simposio sulla libertà religiosa in Vaticano durante la campagna elettorale Usa? «Beh, sì», risponde Gallagher, «È una delle ragioni per cui il Papa non lo riceve».Il segretario di Stato Vaticano, Pietro Parolin, ha provato a sciogliere il ghiaccio e a ribadire che «Mike Pompeo aveva chiesto di vedere il Papa, ma il Papa l'aveva detto chiaramente che non si ricevono personalità politiche in campagna elettorale». Tuttavia, l'imbarazzo ieri mattina era evidente, anche perché qualcuno notava che la regola per cui «non si ricevono personalità politiche in campagna elettorale» era stata in qualche modo infranta nell'aprile 2016 quando Francesco ricevette a Santa Marta, seppur per pochi minuti, il candidato alle primarie democratiche Bernie Sanders.La settimana scorsa Pompeo, twittando il suo articolo apparso su First thing, aveva sintetizzato la sua posizione dicendo che «il Vaticano metterebbe in pericolo la sua autorità morale se rinnovasse l'accordo» con la Cina sulla nomina dei vescovi. Sul piatto il segretario di Stato Usa mette le violazioni alla libertà religiosa del governo di Pechino (non solo contro i cristiani), come ha ribadito ieri mattina al simposio. Davanti al cardinale Parolin e a monsignor Gallagher, cioè i principali artefici dell'accordo Cina-Santa Sede, Pompeo ha ribadito senza peli sulla lingua che «gli Stati possono a volte fare compromessi per far avanzare fini buoni, i leader vanno e vengono e le priorità cambiano. Ma la Chiesa è in una posizione differente, non si devono compromettere standard di principio basati su verità eterne». Parole pesanti come pietre che cadono sulla nuova ostpolitik vaticana nei confronti della Cina, aprendo quella che a tutti gli effetti assomiglia a una crisi diplomatica in atto tra governo degli Stati Uniti e Santa sede.L'uscita dell'articolo di Pompeo chiaramente è stata mal digerita Oltretevere e a Santa Marta, lo chiariscono in qualche modo altre parole pronunciate ieri sempre dal cardinale Parolin. Incalzato dai giornalisti sull'eventuale irritazione della Santa sede rispetto alle posizioni espresse da Pompeo, il cardinale usa tutta la sua felpata diplomazia rispondendo: «Irritazione non direi, sorpresa sì». Aggiungendo, con ulteriore dose di provata arte diplomatica, che questa sorpresa c'è stata «perché era già in previsione una visita a Roma in cui Pompeo avrebbe incontrato dei vertici della Santa Sede, e ci sembrava quella la sede più opportuna e più adatta per parlare di queste cose e lo faremo: ci incontreremo domani (oggi, ndr) e ci sarà modo di confrontarci su queste tematiche».È molto probabile che l'incontro di oggi tra i due segretari di Stato metterà un po' di balsamo sulle ferite, ma le posizioni sono nette e difficilmente conciliabili. L'ambasciatrice degli Stati Uniti presso la Santa Sede, Callista Gingrich, anche lei presente al simposio di ieri, in un articolo pubblicato martedì su Fox news ha tenuto una posizione molto critica sul governo di Pechino. «Mentre il Partito comunista cinese porta avanti la sua guerra sulla fede», ha scritto, «gli Stati Uniti continueranno a costruire partnership con nazioni che la pensano allo stesso modo e che condividono il nostro impegno per promuovere e difendere la libertà religiosa».La sponda vaticana però resta fedele alla (sua) linea, proprio martedì un articolo firmato da Andrea Tornielli, direttore editoriale dei media vaticani, citava Parolin e ribadiva che «l'intenzione è di proporre alle autorità cinesi una proroga, continuando ad adottare l'Accordo in forma provvisoria». L'accordo non riguarda, scrive ancora Tornielli, le relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e la Cina, lo status giuridico della Chiesa cattolica cinese, i rapporti tra il clero e le autorità del Paese, ma «riguarda esclusivamente il processo di nomina dei vescovi». La scelta, al di là dei distinguo, era e resta molto controversa per gli innegabili risvolti politici ed ecclesiali in un Paese in cui la libertà religiosa non è garantita. Ma la Santa Sede non vuole ascoltare nessuno, come attesta anche il viaggio a Roma del cardinale emerito di Hong Kong, Joseph Zen, nel tentativo di incontrare il Papa, proprio per parlargli ancora dei rischi dell'accordo e delle nomina del nuovo vescovo di Hong kong. Dopo aver atteso qualche giorno, Zen ha ripreso l'aereo senza che il Papa abbia trovato il tempo per incontrarlo.