2024-09-10
La ricetta di Draghi per l’Ue: più poteri a Bruxelles e freno al voto all’unanimità
Mario Draghi e Ursula von der Leyen (Ansa)
Il rapporto sulla competitività di Mr Bce: «Servono cambi radicali e più del doppio del Piano Marshall». La road map: emissioni comuni e meno sovranità agli Stati.The future of European competitiveness. Il futuro della competitività europea. È il titolo del rapporto preparato da Mario Draghi che in quasi 400 pagine analizza i gravi problemi che rallentano la crescita del Vecchio continente - diventato ormai un vaso di coccio in mezzo ai due di ferro (Usa e Cina) - invoca un cambio radicale per continuare a esistere, punta il dito sulle regole Ue che affossano lo sviluppo e offre la sua ricetta: più regole Ue. Insomma, l’Europa così com’è non funziona quindi ci vuole più Europa. Un’Europa da rilanciare anche con il ricorso soprattutto ai soldi dei privati e togliendo il potere di veto ai singoli Stati nelle decisioni dell’esecutivo di Bruxelles per accelerare le decisioni. Tutto questo con un piano consegnato nelle mani di Ursula von der Leyen, fresca di riconferma alla presidenza della Commissione, che negli ultimi anni ha contribuito a creare i problemi denunciati dallo stesso ex premier ed ex numero uno della Bce. E cui sarà affidata la gestione degli investimenti necessari nel nuovo «whatever it takes» di Draghi.La sua relazione parte dall’assunto che l’Europa si trova di fronte a una sfida esistenziale e l’unico modo di vincere tale sfida è quello di «perseguire la via di una maggiore crescita economica e di una maggiore produttività». Per raggiungere tali obiettivi sono necessari almeno 750-800 miliardi di euro di investimenti aggiuntivi annui pari al 4,4-4,7% del Pil dell’Ue nel 2023. «Per digitalizzare e decarbonizzare l’economia e aumentare la nostra capacità di difesa, la quota di investimenti in Europa dovrà aumentare di circa 5 punti percentuali del Pil all’anno fino a raggiungere i livelli degli anni Sessanta e Settanta. Si tratta di una situazione senza precedenti. Per fare un confronto, gli investimenti aggiuntivi forniti dal Piano Marshall tra il 1948 e il 1951 ammontavano a circa l’1-2% del Pil all’anno», ha affermato Draghi nell’introduzione al suo rapporto. «È una sfida esistenziale» e per vincerla bisogna «completare il mercato unico, finanziare in comune beni pubblici europei», riformare il governo della Ue e smettere con le esenzioni sugli aiuti di Stato che andrebbero usati per obiettivi comuni o progetti frontalieri «ma andrebbero fermati per altre cose perché frammentano ulteriormente il mercato unico». L’Unione dovrebbe poi orientarsi verso «l’emissione regolare di strumenti di debito comune» (quindi con il rischio di declassamento del debito nazionale) per consentire «progetti di investimento congiunti tra gli Stati membri e contribuire all’integrazione dei mercati dei capitali», ha spiegato ieri riferendosi all’esempio del Nextgenerationeu. La proposta è stata però criticata qualche ora dopo dal ministero delle finanze tedesco, Christian Lindner, che su X ha commentato così: «Con il debito comune dell’Ue non risolveremo nessun problema strutturale, le sovvenzioni non mancano alle imprese. Sono vincolate dalla burocrazia e dall’economia pianificata. E hanno difficoltà ad accedere al capitale privato». Ma torniamo al piano presentato ieri. «Una nuova strategia industriale a livello europeo non avrà successo senza cambiamenti paralleli nell’assetto istituzionale e nel funzionamento dell’Unione», ha precisato l’ex premier proponendo di incentivare misure a favore della competitività usando il bilancio comunitario, ma anche di ridurre il numero di scelte prese all’unanimità dei Paesi membri. Draghi propone, infatti, un’estensione del voto a maggioranza qualificata. «Finora, molti sforzi per approfondire l’integrazione europea tra gli Stati membri sono stati ostacolati dal voto all’unanimità. Dovrebbero quindi essere sfruttate tutte le possibilità offerte dai trattati Ue per estendere il voto a maggioranza qualificata», si legge nel piano. Il voto a maggioranza qualificata dovrebbe essere «esteso a più aree», sottolinea l’ex premier, auspicando anche - nei casi di stallo - il ricorso alla «cooperazione rafforzata». Proposta che, se accolta, metterebbe fine al potere di veto e indebolirebbe ulteriormente la forza negoziale dei singoli Paesi, compresa l’Italia. In conferenza stampa l’ex presidente della Bce ha detto che se l’Europa non agirà in modo tempestivo andrà incontro ad una «lenta agonia». «Siamo già in modalità di crisi perenne e non riconoscerlo significa ignorare la realtà e andare verso una situazione che nessuno vuole», ha proseguito Draghi precisando che «avanzare proposte necessarie per la produzione in Ue è l’obiettivo principale e verrà presentato ai leader Ue perché saranno i leader a rispondere adottando decisioni pratiche. Bisogna andare avanti insieme ma se non lo si potrà fare bisognerà trovare altri modi per andare avanti». Nel piano si accende un faro anche sulla decarbonizzazione. «Se gli ambiziosi obiettivi climatici dell’Europa saranno accompagnati da un piano coerente per raggiungerli, la decarbonizzazione sarà un’opportunità per l’Europa. Ma se non riusciamo a coordinare le nostre politiche, c’è il rischio che la decarbonizzazione possa andare contro la competitività e la crescita». Un allarme che su queste pagine è stato lanciato ormai da mesi. Nel rapporto viene poi sottolineato che senza un piano per trasferire i benefici della decarbonizzazione agli utenti finali, i prezzi dell’energia continueranno a pesare sulla crescita. «Le aziende dell’Ue devono ancora affrontare prezzi dell’elettricità che sono 2-3 volte superiori a quelli degli Stati Uniti. I prezzi del gas naturale pagati sono 4-5 volte più alti», scrive l’ex premier. «Questo divario di prezzo è causato principalmente dalla mancanza di risorse naturali in Europa, ma anche da problemi fondamentali con il nostro mercato energetico comune. Le regole di mercato impediscono alle industrie e alle famiglie di catturare tutti i benefici dell’energia pulita nelle loro bollette. Le tasse elevate e le rendite catturate dai trader finanziari aumentano i costi energetici per la nostra economia», aggiunge. Insomma, è colpa della speculazione e non del fallimento del price cap voluto da Draghi.
Donald Trump (Getty Images)
Andrea Crisanti (Imagoeconomica)