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2022-02-26
Le restrizioni folli del green pass sopravvivono
(Ansa)
Quando dicono di voler chiudere tutto, chiudono tutto davvero, mentre quando dicono di voler riaprire, non riaprono un bel niente. In capo a due anni di pandemia, questo modo di agire da parte del ministro Roberto Speranza e delle autorità sanitarie si può ormai definire collaudato. Ed è evidentissimo proprio in questo frangente, laddove a fronte di una retorica da «liberi tutti» seguita all’annuncio del premier Mario Draghi di non voler prorogare oltre il prossimo 31 marzo lo stato d’emergenza, a guardare bene le carte si direbbe che l’impianto delle restrizioni, comprese quelle più severe e quelle partorite al punto più alto della curva dei contagi resta intatto.
Con uno scenario, inoltre, che si trasformerà in paradossale quando i turisti extra-Schengen, una volta entrati nel nostro Paese, si troveranno ad avere più diritti e più libertà di movimento dei cittadini italiani. Ma andiamo per ordine: si sta parlando insistentemente di ritorno alla normalità, il che indurrebbe a pensare che si sia in procinto di abbandonare le norme più invasive, e cioè il super green pass obbligatorio per tutti i lavoratori over 50. Niente di tutto ciò, perché le norme attualmente in vigore e in procinto di essere convertite in legge al Senato nei prossimi giorni ci dicono che l’obbligo di vaccinazione per gli over 50 resterà almeno fino al 15 giugno.
Stessa cosa per il super green pass obbligatorio per una serie di categorie lavorative, che continuerà a essere richiesto fino alla stessa data. Tutto ciò, a dispetto della crescente pressione politica di una parte ormai cospicua della stessa maggioranza, in primis della Lega che per ben due volte in Parlamento (prima in commissione poi in aula) ha cercato di portare a casa l’abolizione del green pass a partire dal primo aprile.
Cos’è, dunque, che in concreto si potrà fare di più all’indomani della fine dello stato d’emergenza? Non molto, se è vero che per iniziare si dovrebbe «concedere» di mangiare nei locali all’aperto a chi avrà il green pass base, e non il super green pass come adesso. E chi ha parlato, ragionevolmente, della possibilità di eliminare del tutto la certificazione per i pasti consumati outdoor, è stato bollato come fautore di pericolose fughe in avanti. Sempre parlando di attività all’aperto, dal primo aprile non ci vorrà più il super green pass per palestre e piscine, bensì il pass base, mentre per entrare nei negozi non sarà più necessaria la certificazione. Sul fronte trasporti, poi, vige l’incertezza perché se da un lato cadrà dal primo aprile l’obbligo di super green pass per i mezzi di trasporto a lunga percorrenza, al momento non è chiaro se per i trasporti pubblici locali continuerà a servire il green pass rafforzato.
Contraddizioni e incongruenze che raggiungono il picco, come accennato, sulla questione della (giusta) riapertura ai turisti extra-Ue, dal primo marzo. Questi, infatti, non dovranno più sottoporsi a quarantena e, al pari di quelli comunitari, potranno accedere a una serie di luoghi e attività previo tampone negativo, cosa che è ancora preclusa agli italiani.
Aifa immobile sulle reazioni sottostimate
La denuncia, che abbiamo pubblicato ieri, di una grande compagnia di assicurazione tedesca, la Bkk ProVita con sede a Monaco di Baviera, che confuta i dati ufficiali delle segnalazioni avverse in Germania, giudicandoli sottostimati di almeno dodici volte, impone una seria riflessione su come viene gestito il monitoraggio delle reazioni post vaccino anti Covid. Andreas Schöfbeck, amministratore delegato dell’istituto finanziario che opera nel settore sanitario, ha scritto a Paul Cichutek, presidente del Paul Ehrlich Institut, (Pei), l’Istituto federale per i vaccini e la biomedicina che fa capo al ministero della Salute tedesco, allegando i risultati di una ricerca condotta in sette mesi e mezzo.
Ben 216.695 assicurati, su un campione 10,9 milioni, ha avuto bisogno di cure e di assistenza medica, mentre il Pei ha pubblicato nel suo rapporto annuale solo 244.576 segnalazioni di reazioni avverse dopo aver vaccinato in 14 mesi 61,4 milioni di persone contro il Covid. Se da inizio 2021 alla metà del terzo trimestre, 216.695 tedeschi hanno avuto bisogno di ricorrere al medico dopo aver fatto la puntura anti Covid, Schöfbeck afferma di considerare «realistici fino ad oggi 400.000 visite dal medico da parte dei nostri assicurati a causa di complicazioni».
Ma soprattutto ha proiettato i dati sull’intera popolazione germanica, ipotizzando che «sarebbero tre milioni i tedeschi che hanno sofferto di reazioni» post inoculazione. Il Pei ha poi risposto, in ritardo e in maniera molto evasiva, sostenendo che «le informazioni contenute nella lettera del Bkk sono generiche», che «non è specificato quanti dei casi siano lievi e quanti si riferiscono a reazioni gravi» e che non è chiaro «se effettivamente è stato stabilito un nesso causale con la vaccinazione».
La «correlabilità» o meno di patologie invalidanti, disturbi gravi e decessi, segnalate dopo l’inoculazione, è una delle questioni che mettono in dubbio l’efficacia della farmacovigilanza così come viene condotta, assieme alla certezza che, se è al 94,8% passiva (di tipo spontaneo) e non attiva, quindi non da studi che registrano le reazioni avverse, le segnalazioni che arrivano all’Aifa saranno sempre in numero irrisorio. Ma attenzione, non è che solo emerga un quadro delle reazioni avverse non corrispondente alla realtà in quanto sottostimato, perciò inutile. Se vengono minimizzati o esclusi eventi seppur gravi, il messaggio sarà quello che il vaccino anti Covid funziona a meraviglia.
Il Consiglio di Stato, nella sentenza dello scorso 20 ottobre in cui stabiliva che l’obbligo vaccinale imposto ai sanitari risponde a un «dovere di solidarietà», guarda caso teneva conto dei dati pubblicati a settembre dall’Aifa, nel nono rapporto di farmacovigilanza sui vaccini contro il Covid-19. Su 101.110 segnalazioni allora arrivate, quelle gravi corrispondevano al 14,4% del totale, affermava l’agenzia regolatoria, e per l’organo di consulenza giuridico amministrativa «le risultanze statistiche evidenziano dunque l’esistenza di un bilanciamento rischi/benefici assolutamente accettabile e i danni conseguenti alla somministrazione del vaccino per il Sars-CoV-2 devono ritenersi, considerata l’estrema rarità del verificarsi di eventi gravi e correlabili, rispondenti ad un criterio di normalità statistica». Capite bene che se le segnalazioni fossero state in numero maggiore, e se non ci si limitasse ad applicare l’algoritmo dell’Oms, da tempo inadeguato a stabilire la connessione tra una reazione avversa e il vaccino inoculato, perché se c’è un’altra causa che può averlo scatenato (come infarto, diabete, tumore) esclude la correlazione, mentre nessun evento andrebbe sottostimato quando si somministra un farmaco che può dare reazioni non prevedibili, avremmo una panoramica ben diversa di quello che sta accadendo con le vaccinazioni anti Covid.
Secondo il rapporto annuale dell’Aifa, pubblicato con enorme ritardo una ventina di giorni fa, le segnalazioni arrivate sono state 117.920 su quasi 49 milioni di italiani vaccinati, delle quali appena 19.055 gravi (il 16,2% del totale). Il nesso di causalità con il vaccino è risultato correlabile nel 35,9% di tutte le gravi e indeterminato nel 37,7% di eventi avversi che hanno causato ospedalizzazione, pericolo immediato di vita, invalidità, anomalie congenite, decesso o «altra condizione clinicamente rilevante» solo perché c’è poca letteratura scientifica a riguardo.
In questa situazione grottesca, che esclude ai più il riconoscimento di danni subiti, ci chiediamo perché a nessuno sia venuto in mente di chiedere alle compagnie assicurative sanitarie italiane di fornire dati sui rimborsi presentati dai medici, come ha pensato bene di controllare la Bkk. Schöfbeck ha anche dichiarato che simili cifre possono essere «convalidate in modo relativamente semplice dal Pei e anche con breve preavviso, chiedendo ad altri tipi di assicurazione di valutare i dati a loro disposizione di chi ha chiesto assistenza post vaccino». Perché l’Aifa non lo fa?
Sapete che cosa ha risposto il Paul Ehrlich Institut? Che dopo 14 mesi dall’inizio delle vaccinazioni di massa contro il Covid, dovrebbe «partire a breve» uno studio non interventistico sostenuto e promosso dal ministero della Salute nel quale «dovrebbero essere valutate le indicazioni di diagnosi», nelle richieste di rimborsi medici pervenute alle assicurazioni, mettendoli in relazione con i dati del monitoraggio digitale della quota vaccinati». In Italia, comunque, nemmeno lo stanno progettando uno studio analogo.
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Lo sbandierato ritorno alla normalità è una bugia. Italiani meno liberi dei turisti stranieri Come dimostra la compagnia assicurativa tedesca Bkk, la vigilanza passiva non fotografa la reale entità degli effetti avversi Stessa criticità in Italia, dove i rischi del siero son calcolati in base alle poche segnalazioni. Ma l’Agenzia non cambia approccio.Lo speciale contiene due articoli. Quando dicono di voler chiudere tutto, chiudono tutto davvero, mentre quando dicono di voler riaprire, non riaprono un bel niente. In capo a due anni di pandemia, questo modo di agire da parte del ministro Roberto Speranza e delle autorità sanitarie si può ormai definire collaudato. Ed è evidentissimo proprio in questo frangente, laddove a fronte di una retorica da «liberi tutti» seguita all’annuncio del premier Mario Draghi di non voler prorogare oltre il prossimo 31 marzo lo stato d’emergenza, a guardare bene le carte si direbbe che l’impianto delle restrizioni, comprese quelle più severe e quelle partorite al punto più alto della curva dei contagi resta intatto. Con uno scenario, inoltre, che si trasformerà in paradossale quando i turisti extra-Schengen, una volta entrati nel nostro Paese, si troveranno ad avere più diritti e più libertà di movimento dei cittadini italiani. Ma andiamo per ordine: si sta parlando insistentemente di ritorno alla normalità, il che indurrebbe a pensare che si sia in procinto di abbandonare le norme più invasive, e cioè il super green pass obbligatorio per tutti i lavoratori over 50. Niente di tutto ciò, perché le norme attualmente in vigore e in procinto di essere convertite in legge al Senato nei prossimi giorni ci dicono che l’obbligo di vaccinazione per gli over 50 resterà almeno fino al 15 giugno. Stessa cosa per il super green pass obbligatorio per una serie di categorie lavorative, che continuerà a essere richiesto fino alla stessa data. Tutto ciò, a dispetto della crescente pressione politica di una parte ormai cospicua della stessa maggioranza, in primis della Lega che per ben due volte in Parlamento (prima in commissione poi in aula) ha cercato di portare a casa l’abolizione del green pass a partire dal primo aprile. Cos’è, dunque, che in concreto si potrà fare di più all’indomani della fine dello stato d’emergenza? Non molto, se è vero che per iniziare si dovrebbe «concedere» di mangiare nei locali all’aperto a chi avrà il green pass base, e non il super green pass come adesso. E chi ha parlato, ragionevolmente, della possibilità di eliminare del tutto la certificazione per i pasti consumati outdoor, è stato bollato come fautore di pericolose fughe in avanti. Sempre parlando di attività all’aperto, dal primo aprile non ci vorrà più il super green pass per palestre e piscine, bensì il pass base, mentre per entrare nei negozi non sarà più necessaria la certificazione. Sul fronte trasporti, poi, vige l’incertezza perché se da un lato cadrà dal primo aprile l’obbligo di super green pass per i mezzi di trasporto a lunga percorrenza, al momento non è chiaro se per i trasporti pubblici locali continuerà a servire il green pass rafforzato. Contraddizioni e incongruenze che raggiungono il picco, come accennato, sulla questione della (giusta) riapertura ai turisti extra-Ue, dal primo marzo. Questi, infatti, non dovranno più sottoporsi a quarantena e, al pari di quelli comunitari, potranno accedere a una serie di luoghi e attività previo tampone negativo, cosa che è ancora preclusa agli italiani. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-riapertura-e-una-presa-in-giro-lavoro-e-socialita-restano-negati-2656797561.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="aifa-immobile-sulle-reazioni-sottostimate" data-post-id="2656797561" data-published-at="1645887912" data-use-pagination="False"> Aifa immobile sulle reazioni sottostimate La denuncia, che abbiamo pubblicato ieri, di una grande compagnia di assicurazione tedesca, la Bkk ProVita con sede a Monaco di Baviera, che confuta i dati ufficiali delle segnalazioni avverse in Germania, giudicandoli sottostimati di almeno dodici volte, impone una seria riflessione su come viene gestito il monitoraggio delle reazioni post vaccino anti Covid. Andreas Schöfbeck, amministratore delegato dell’istituto finanziario che opera nel settore sanitario, ha scritto a Paul Cichutek, presidente del Paul Ehrlich Institut, (Pei), l’Istituto federale per i vaccini e la biomedicina che fa capo al ministero della Salute tedesco, allegando i risultati di una ricerca condotta in sette mesi e mezzo. Ben 216.695 assicurati, su un campione 10,9 milioni, ha avuto bisogno di cure e di assistenza medica, mentre il Pei ha pubblicato nel suo rapporto annuale solo 244.576 segnalazioni di reazioni avverse dopo aver vaccinato in 14 mesi 61,4 milioni di persone contro il Covid. Se da inizio 2021 alla metà del terzo trimestre, 216.695 tedeschi hanno avuto bisogno di ricorrere al medico dopo aver fatto la puntura anti Covid, Schöfbeck afferma di considerare «realistici fino ad oggi 400.000 visite dal medico da parte dei nostri assicurati a causa di complicazioni». Ma soprattutto ha proiettato i dati sull’intera popolazione germanica, ipotizzando che «sarebbero tre milioni i tedeschi che hanno sofferto di reazioni» post inoculazione. Il Pei ha poi risposto, in ritardo e in maniera molto evasiva, sostenendo che «le informazioni contenute nella lettera del Bkk sono generiche», che «non è specificato quanti dei casi siano lievi e quanti si riferiscono a reazioni gravi» e che non è chiaro «se effettivamente è stato stabilito un nesso causale con la vaccinazione». La «correlabilità» o meno di patologie invalidanti, disturbi gravi e decessi, segnalate dopo l’inoculazione, è una delle questioni che mettono in dubbio l’efficacia della farmacovigilanza così come viene condotta, assieme alla certezza che, se è al 94,8% passiva (di tipo spontaneo) e non attiva, quindi non da studi che registrano le reazioni avverse, le segnalazioni che arrivano all’Aifa saranno sempre in numero irrisorio. Ma attenzione, non è che solo emerga un quadro delle reazioni avverse non corrispondente alla realtà in quanto sottostimato, perciò inutile. Se vengono minimizzati o esclusi eventi seppur gravi, il messaggio sarà quello che il vaccino anti Covid funziona a meraviglia. Il Consiglio di Stato, nella sentenza dello scorso 20 ottobre in cui stabiliva che l’obbligo vaccinale imposto ai sanitari risponde a un «dovere di solidarietà», guarda caso teneva conto dei dati pubblicati a settembre dall’Aifa, nel nono rapporto di farmacovigilanza sui vaccini contro il Covid-19. Su 101.110 segnalazioni allora arrivate, quelle gravi corrispondevano al 14,4% del totale, affermava l’agenzia regolatoria, e per l’organo di consulenza giuridico amministrativa «le risultanze statistiche evidenziano dunque l’esistenza di un bilanciamento rischi/benefici assolutamente accettabile e i danni conseguenti alla somministrazione del vaccino per il Sars-CoV-2 devono ritenersi, considerata l’estrema rarità del verificarsi di eventi gravi e correlabili, rispondenti ad un criterio di normalità statistica». Capite bene che se le segnalazioni fossero state in numero maggiore, e se non ci si limitasse ad applicare l’algoritmo dell’Oms, da tempo inadeguato a stabilire la connessione tra una reazione avversa e il vaccino inoculato, perché se c’è un’altra causa che può averlo scatenato (come infarto, diabete, tumore) esclude la correlazione, mentre nessun evento andrebbe sottostimato quando si somministra un farmaco che può dare reazioni non prevedibili, avremmo una panoramica ben diversa di quello che sta accadendo con le vaccinazioni anti Covid. Secondo il rapporto annuale dell’Aifa, pubblicato con enorme ritardo una ventina di giorni fa, le segnalazioni arrivate sono state 117.920 su quasi 49 milioni di italiani vaccinati, delle quali appena 19.055 gravi (il 16,2% del totale). Il nesso di causalità con il vaccino è risultato correlabile nel 35,9% di tutte le gravi e indeterminato nel 37,7% di eventi avversi che hanno causato ospedalizzazione, pericolo immediato di vita, invalidità, anomalie congenite, decesso o «altra condizione clinicamente rilevante» solo perché c’è poca letteratura scientifica a riguardo. In questa situazione grottesca, che esclude ai più il riconoscimento di danni subiti, ci chiediamo perché a nessuno sia venuto in mente di chiedere alle compagnie assicurative sanitarie italiane di fornire dati sui rimborsi presentati dai medici, come ha pensato bene di controllare la Bkk. Schöfbeck ha anche dichiarato che simili cifre possono essere «convalidate in modo relativamente semplice dal Pei e anche con breve preavviso, chiedendo ad altri tipi di assicurazione di valutare i dati a loro disposizione di chi ha chiesto assistenza post vaccino». Perché l’Aifa non lo fa? Sapete che cosa ha risposto il Paul Ehrlich Institut? Che dopo 14 mesi dall’inizio delle vaccinazioni di massa contro il Covid, dovrebbe «partire a breve» uno studio non interventistico sostenuto e promosso dal ministero della Salute nel quale «dovrebbero essere valutate le indicazioni di diagnosi», nelle richieste di rimborsi medici pervenute alle assicurazioni, mettendoli in relazione con i dati del monitoraggio digitale della quota vaccinati». In Italia, comunque, nemmeno lo stanno progettando uno studio analogo.
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 19 dicembre con Flaminia Camilletti
Alberto Stasi (Ansa)
Ieri, nell’aula del tribunale di Pavia, quell’ombra è stata cancellata dall’incidente probatorio. «È stato chiarito definitivamente che Stasi è escluso». Lo dice senza giri di parole all’uscita dal palazzo di giustizia Giada Bocellari, difensore con Antonio De Rensis di Stasi. «Tenete conto», ha spiegato Bocellari, «che noi partivamo da una perizia del professor Francesco De Stefano (il genetista che nel 2014 firmò la perizia nel processo d’appello bis, ndr) che diceva che il Dna era tutto degradato e che Stasi non poteva essere escluso da quelle tracce». È il primo elemento giudiziario della giornata di ieri. La stessa Bocellari, però, mette anche un freno a ogni lettura forzata: «Non è che Andrea Sempio verrà condannato per il Dna. Non verrà mai forse neanche rinviato a giudizio solo per il Dna». Gli elementi ricavati dall’incidente probatorio, spiega, sono «un dato processuale, una prova che dovrà poi essere valutata e questo lo potrà fare innanzitutto la Procura quando dovrà decidere, alla fine delle indagini, cosa fare». Dentro l’aula, però, la tensione non è stata solo scientifica. È stata anche simbolica. Perché Stasi era presente. Seduto, in silenzio. E la sua presenza ha innescato uno scontro.
«È venuto perché questa era una giornata importante», spiega ancora Bocellari, aggiungendo: «Tenete conto che sono undici anni che noi parliamo di questo Dna e finalmente abbiamo assunto un risultato nel contraddittorio». Una scelta rivendicata senza tentennamenti: «Tenete conto anche del fatto che lui ha sempre partecipato al suo processo, è sempre stato presente alle udienze e quindi questo era un momento in cui esserci, nel massimo rispetto anche dell’autorità giudiziaria che oggi sta procedendo nei confronti di un altro soggetto». E quel soggetto è Sempio. Indagato. Ma assente. Una scelta opposta, spiegata dai suoi legali. «In ogni caso non avrebbe potuto parlare», chiarisce Angela Taccia, che spiega: «Il Dna non è consolidato, non c’è alcuna certezza contro Sempio. Il software usato non è completo, anzi è molto scarno, non si può arrivare a nessun punto fermo». Lo stesso tono lo usa Liborio Cataliotti, l’altro difensore di Sempio. «Confesso che non mi aspettavo oggi la presenza di Stasi. Però non mi sono opposto, perché si è trattato di una presenza, sia pur passiva, di chi è interessato all’espletamento della prova. Non mi sembrava potessero esserci controindicazioni alla sua presenza». Se per la difesa di Sempio la presenza di Stasi è neutra, sul fronte della famiglia Poggi il clima è diverso. L’avvocato Gian Luigi Tizzoni premette: «Vedere Stasi non mi ha fatto nessun effetto, non ho motivi per provare qualsiasi tipo di emozione». Ma la linea processuale è chiara. Durante l’udienza i legali dei Poggi (rappresentati anche dall’avvocato Francesco Compagna) hanno chiesto che Stasi uscisse dall’aula perché «non è né la persona offesa né l’indagato». Richiesta respinta dal gip Daniela Garlaschelli come «irrilevante e tardiva», perché giunta «a sei mesi di distanza dall’inizio dell’incidente probatorio». Stasi è stato quindi ammesso come «terzo interessato». Ma l’avvocato Compagna tiene il punto: «Credo che di processuale ci sia poco in questa vicenda, è un enorme spettacolo mediatico». E attacca sul merito: «La verità è che le unghie sono prive di significato, visto che la vittima non si è difesa e giocare su un dato che non è scientifico è una follia».
La perita Denise Albani, ricorda Compagna, «ha ribadito che non si può dire come, dove e quando quella traccia è stata trasferita e quindi non ha valore». Deve essersi sentito un terzo interessato anche il difensore dell’ex procuratore aggiunto di Pavia Mario Venditti (indagato a Brescia per un’ipotesi di corruzione in atti giudiziari riferita all’archiviazione della posizione di Sempio nel 2017). L’avvocato Domenico Aiello, infatti, ha alzato il livello dello scontro: «Non mi risulta che esista la figura della parte processuale del “terzo interessato”. Si è palesato in aula a Pavia il titolare effettivo del subappalto di manodopera nel cantiere della revisione». E insiste: «Sarei curioso di capire se sia soddisfatto e in quale veste sarà registrato al verbale di udienza, se spettatore abusivo o talent scout od osservatore interessato. Ancora una grave violazione del Codice di procedura penale. Spero non si sostituisca un candidato innocente con un altro sfortunato innocente e a spese di un sicuro innocente».
Ma mentre le polemiche rimbalzano fuori dall’aula, dentro il dato resta tecnico. E su quel dato, paradossalmente, tutti escono soddisfatti. «Dal nostro punto di vista abbiamo ottenuto risposte che riteniamo molto ma molto soddisfacenti sulla posizione di Sempio», dice Cataliotti. Taccia conferma: «Siamo molto soddisfatti di com’è andata oggi». La difesa di Sempio ribadisce che il dato è neutro, parziale, non decisivo. La difesa di Stasi incassa l’esclusione definitiva del Dna. E alla fine l’incidente probatorio ha fatto la sua parte. Ha prodotto una prova. Ha chiarito un equivoco storico. E ha lasciato ognuno con il proprio argomento in mano. Fuori dall’aula, però, il processo mediatico si è concentrato tutto sulla presenza di Stasi e sull’assenza di Sempio, come se l’innocenza o la colpevolezza di qualcuno fosse misurabile a colpi di apparizioni sceniche.
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E come si può chiamare un tizio che promette «appena posso (violare la legge, ndr) lo rifaccio»?. «Costi quel che costi», disse Luca Casarini, «al vostro ordine continuerò a disobbedire, perché obbedisco ad altro, di fronte al quale le vostre leggi ingiuste e criminali, ciniche e orribili non possono niente». Quelle contestate sono le leggi dello Stato italiano, approvate dal Parlamento italiano, vigilate dalla Corte costituzionale italiana, rispettate dalla maggioranza degli italiani. Ma per Casarini e compagni si possono ignorare. Anzi, si devono violare. E nessuno può permettersi il diritto di critica e di chiamarli pirati. «Abbiamo disobbedito a un ordine ingiusto e inumano del ministero dell’Interno», disse Beppe Caccia, capo missione di Mediterranea, «ma così facendo abbiamo obbedito al diritto marittimo, alla Costituzione italiana, alle leggi dell’umanità». Chi si può arrogare il diritto di stabilire che ci si può infischiare di una legge? Ve la immaginate quale sarebbe la reazione di fronte a un tizio che ignora il codice della strada o la normativa fiscale e dice che lui risponde a una legge superiore? E vi ricorda qualche cosa la definizione di «legge criminale»? Negli anni della contestazione lo Stato era criminale, le misure repressive, i divieti autoritari. Come sia finita si sa.
Il soccorso in mare ha un obiettivo politico: è un’azione che mira a «contrastare e a sovvertire il sistema capitalista e patriarcale» come ha spiegato don Mattia Ferrari, il cappellano di Mediterranea. «Abbiamo abbattuto un muro. Quello innalzato in mare dal decreto sicurezza bis. Siamo stati costretti a farlo», ha aggiunto Carola Rackete, la capitana che nella foga di attraccare nonostante le fosse stato negato il diritto allo sbarco andò a sbattere con la sua nave contro una motovedetta della Guardia di finanza. E costoro non si possono definire pirati? Chiamarli tali, perché come diceva il filosofo Giulio Giorello a proposito dei bucanieri, ritengono la loro coscienza «superiore a ogni legge», sarebbe diffamatorio? E quale offesa alla propria reputazione, quale danno, avrebbero patito, di grazia? È evidente che le querele hanno un obiettivo: tappare la bocca a chi esprime un giudizio critico, impedire alla libera stampa di dire quel che pensa e di chiamare le cose con il loro nome.
Da una settimana si discute di giornali comprati e venduti, perché John Elkann ha messo in vendita Repubblica e La Stampa. Ma la minaccia all’articolo 21 della Costituzione non viene da un imprenditore greco o italiano che compra una testata, bensì dal tentativo di imbavagliare chi si oppone, con le inchieste e le notizie, alla strategia dell’immigrazione, arma - come predica don Ferrari - usata per abbattere il sistema capitalistico e patriarcale. Sono certo che di fronte alla sentenza contro Panorama non si leveranno le voci degli indignati speciali. Quelle si alzano solo quando condannano Roberto Saviano a pagare mille euro per aver chiamato bastardi Meloni e Salvini. Visti i risultati, mi conveniva titolare «I nuovi bastardi».
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