2019-06-04
La rete del renziano Lotti per condizionare le scelte dei magistrati
Oltre a Luca Palamara, l'ex ministro ha visto anche Antonio Savasta, legato alla cricca di Amara. «Era introdotto da Bacci o babbo Renzi». Nuove prove sulle fatture false dei genitori del Bullo a Luigi Dagostino. L'investigatore della Gdf: «Date che non combaciano e importi lievitati in poche ore». Lo speciale comprende due articoli. L'inchiesta di Perugia sulle nomine al Csm, per quello che si apprende dal grammelot dei giornali, avrebbe registrato in diretta la nascita di una sorta di P5 formata da giudici e politici (si parla del possibile coinvolgimento di 20 magistrati) che stava cercando di affondare l'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il suo aggiunto Paolo Ielo. Ma di fronte a questo Arcimboldo un'immagine appare chiara. Il Giglio magico aveva e ha l'ambizione di controllare la magistratura attraverso il proconsole renziano Luca Lotti, già sottosegretario alla presidenza del Consiglio. A tal fine avrebbe ingaggiato nella sua squadra due fuoriclasse nel gioco delle nomine come i magistrati Cosimo Maria Ferri (dal 2018 deputato Pd) e Luca Palamara, pm romano indagato in Umbria per corruzione. Gente capace di sbloccare impasse di mesi con una sola mossa, che mandava a posto in un attimo decine di caselle per i posti direttivi e semidirettivi. Al fine di imparare il mestiere Luca Lotti ha iniziato a frequentare il pianeta delle toghe da qualche anno e, quando era a Palazzo Chigi, i magistrati facevano la coda davanti al suo ufficio. In una galassia parallela si muoveva il faccendiere Piero Amara, avvocato che di mestiere corrompeva i giudici e faceva il consulente per l'Eni. Per screditare due consiglieri d'amministrazione della compagnia petrolifera e avvalorare la tesi di una sorta di complotto ai danni dell'ad Claudio Descalzi, avrebbe messo in campo i suoi pedoni, e tra questi il pm di Trani Antonio Savasta. Savasta è un nome che i nostri lettori conoscono bene: dalla galassia di Amara atterra sul pianeta di Lotti il 17 giugno 2015, quando era già travolto da problemi giudiziari. A spedirlo là sono Tiziano Renzi e il suo socio Luigi Dagostino, un imprenditore con diversi amici magistrati. Lo stesso giorno il primo riceve dal secondo 24.400 euro. Che diventeranno 190.200 euro il mese successivo (sono entrambi indagati a Firenze per traffico di influenze illecite). Lotti il 14 maggio 2018, davanti alla pm Christine von Borries, ha confessato la sua nuova vita di magistrato ad honorem: «Non riesco a ricordare bene Savasta e cosa mi chiese anche perché durante la mia funzione di sottosegretario ho incontrato molti membri non togati e togati del Csm con i quali parlavo del funzionamento delle commissioni del Csm. Ho incontrato anche altri pm e giudici di primo grado». Lotti ammette l'interesse per i meccanismi che governano il mondo delle toghe e la pm von Borries gli chiede, un po' maliziosamente, se tutti questi magistrati li avesse «incontrati nella sua veste istituzionale a Palazzo Chigi». E allora Lotti, ancora ministro, gonfia il petto: «Ne ho incontrati vari durante cene a Roma che avvenivano anche con membri del Csm e qualcuno anche a Palazzo Chigi e in altre occasioni». In ProcuraLotti fa riferimento anche ad Andrea Bacci, un imprenditore che era stato il factotum di Matteo Renzi: «Io ho conosciuto Dagostino tramite Andrea Bacci di cui ero amico e inoltre è noto che ero in buoni rapporti con Tiziano Renzi con il quale passeggiavo ogni lunedì da via Mazzini alla stazione quindi è probabile che tale appuntamento (con Savasta, ndr) lo abbia chiesto o Bacci oTiziano Renzi». Dunque, uno dei pm a disposizione della presunta cricca guidata all'avvocato Amara entrava e usciva da Palazzo Chigi su sollecitazione di Renzi senior o dell'ex socio Bacci. Il quale per un periodo è stato socio dello stesso Amara: «Io con lui avevo un rapporto d'amicizia, l'ho conosciuto a Roma. Ci andavo a cena ogni tanto perché era una persona simpatica», aveva raccontato alla Verità. «Volle entrare nella Teletouch srl con noi, gli sembrava una bella idea, e allora io e i miei soci gli abbiamo ceduto il 10%, ma poi abbiamo messo la società in liquidazione e non se n'è fatto più nulla». Quando i finanzieri hanno perquisito Bacci, nell'ambito di un procedimento per reati fiscali, hanno trovato un foglietto con i nomi di Amara, di Lotti e di un magistrato della Corte dei conti. Gli inquirenti romani hanno chiesto all'imprenditore renziano il significato dell'appunto e lui ha spiegato che era il promemoria di una richiesta di Amara, desideroso di far incontrare la toga con Lotti. Il magistrato, a quanto risulta alla Verità, sarebbe lo stesso che, dopo la presentazione di un esposto da parte dei 5 stelle, aveva in carico il fascicolo sul volo di Stato utilizzato dall'allora premier Matteo Renzi (era il 2015) per portare in settimana bianca la famiglia a Courmayeur. Bacci con gli inquirenti romani ha negato di aver riferito l'ambasciata a Lotti. Ma l'imprenditore entra anche in un altro capitolo delle disavventure di Amara. L'avvocato, insieme con altri sodali, aveva ideato un presunto complotto ai danni dell'amministratore delegato dell'Eni Descalzi, per affossare l'inchiesta milanese sullo stesso ad. Prima la polpetta avvelenata viene affidata alla Procura di Trani (quella di Savasta), poi a quella di Siracusa e precisamente a Giancarlo Longo, altro pm secondo l'accusa a disposizione della cricca. E qui succede un'altra stranezza. Bacci, durante una premiazione a Montecarlo, sostiene di aver incontrato un fantomatico businessman iraniano, che l'avrebbe avvicinato proponendo affari per l'Eni in cambio di un sostegno al manager Umberto Vergine, che avrebbe dovuto sostituireDescalzi alla guida della compagnia petrolifera. Non molto tempo dopo Bacci viene convocato a Siracusa come persona informata dei fatti, con la scusa di un'intercettazione del fantomatico persiano, e con il suo racconto avvalora la versione della macchinazione contro Descalzi. «Ma io come potevo influire su quella nomina?», ironizza oggi Bacci. A proposito di intercettazioni e manovre, Lotti, i suoi due consulenti Ferri e Palamara e un altro consigliere del Csm, Luigi Spina, sono stati intercettati a maggio mentre parlavano dell'esposto del pm romano Stefano Fava contro l'ex procuratore Giuseppe Pignatone e l'aggiunto Paolo Ielo e finalizzato, per i pm, «a gettare discredito». L'interesse di Lotti per l'esposto si può spiegare solo con un desiderio di rivincita contro Pignatone e Ielo che hanno chiesto il suo rinvio a giudizio per favoreggiamento nell'inchiesta Consip. Ieri sera, il vicepresidente del Csm David Ermini ha fatto visita al presidente della Repubblica poche ore dopo l'arrivo, dall'Umbria, degli atti desegretati dell'indagine. Mentre oggi, in concomitanza con il plenum straordinario del Consiglio superiore, Fava e Spina (dimessosi da Palazzo dei Marescialli) saranno interrogati a Perugia. Ma tra febbraio e marzo, mentre veniva preparata e spedita al Csm questa denuncia, a Firenze ne veniva confezionata un'altra (sempre di un pm contro i suoi superiori) e presentata a Genova, Procura competente per i reati dei magistrati fiorentini. Infatti aveva come obiettivi Giuseppe Creazzo e Luca Turco, magistrati serissimi e taciturni del capoluogo toscano. Sono gli unici che lontani dai riflettori hanno stretto all'angolo Tiziano Renzi (mentre a Roma ne hanno chiesto l'archiviazione) e, proprio a febbraio, hanno ottenuto l'arresto dei genitori dell'ex premier. Creazzo in quel momento non era un procuratore qualsiasi, ma il candidato di Unicost (e quindi in teoria di Palamara) per la guida della Procura di Roma. Ma anche a causa dell'esposto le sue quotazioni hanno iniziato a scendere, mentre Palamara, intercettato dai colleghi perugini, avrebbe accettato di dirottare i suoi voti su un candidato gradito a Lotti e Ferri, ossia Marcello Viola, rispettabilissimo procuratore generale di Firenze. Chissà se l'inchiesta di Perugia svelerà possibili trame anche dietro all'esposto genovese, di cui i giornali si stanno completamente disinteressando. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-rete-di-lotti-per-condizionare-le-decisioni-di-magistrati-e-csm-2638667924.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="nuove-prove-sulle-fatture-false-dei-genitori-del-bullo-a-dagostino" data-post-id="2638667924" data-published-at="1757872418" data-use-pagination="False"> Nuove prove sulle fatture false dei genitori del Bullo a Dagostino Le fatture false dei coniugi Renzi sarebbero in realtà falsissime. È quanto ha sostenuto l'accusa nell'udienza di ieri nel processo contro i genitori dell'ex premier. Il luogotenente della Gdf Nazzareno Giovannelli, convocato dalla pm Christine von Borries, ha infatti illustrato le fonti di prova raccolte nell'indagine e ha spiegato che nei computer di Tiziano Renzi e Laura Bovoli sono stati trovati i file excel e pdf delle fatture numero 1 della Party srl e numero 202 della Eventi 6, entrambe società riconducibili alla coppia. Il documento collegato alla Party srl da 24.400 euro sarebbe stato generato la sera del 16 giugno 2015, sebbene la fattura fosse datata 15 giugno. Il finanziere ha anche rimarcato che sull'agenda del coimputato Luigi Dagostino era indicato anche un appuntamento tra lui e Renzi senior per la mattina del 16 giugno, forse per definire gli ultimi accordi. L'investigatore ha poi ricostruito la genesi della fattura 202 da 170.800 euro che sarebbe stata preparata in tre diverse versioni, partendo da 100.000 euro di imponibile per poi passare, in poche ore, a 140.000. La seconda mail aveva allegata una relazione e delle piantine che, secondo Giovannelli, assomigliavano in tutto a un precedente lavoro già pagato di un architetto di Milano. Per l'investigatore l'autore del file era l'amministratore di fatto Tiziano Renzi, mentre le ultime modifiche erano state affidate alla moglie. Secondo le difese le «impronte digitali» di Tiziano sul documento sono frutto di un equivoco. I testimoni della parte civile, il responsabile dei controlli del gruppo Kering che pagò le fatture e il responsabile della tesoreria, hanno confermato che tra le carte contabili non è stata ritrovata documentazione di supporto alle due fatture, né incarichi né contratti (neppure quello citato nella mail inviata il 6 luglio dalla Eventi 6). La prima fattura venne inserita da Kering tra le immobilizzazioni, poi riqualificata come onere indeducibile nella revisione del bilancio, diventando oggetto di ravvedimento operoso. La seconda, invece, nel conto economico venne inserita tra i costi, quindi fu trasformata in costo non deducibile. Insomma la Kering alla fine pagò circa 110.000 euro di tasse in più per coprire quelle che riteneva detrazioni non giustificate. Durante l'udienza sono state lette le trascrizioni delle intercettazioni di Dagostino e dei suoi collaboratori in cui si parla di fatture inesistenti. Con la Party «non facevamo un cazzo» esclama l'imprenditore. «C'è un fatto di, come si dice, sudditanza psicologica perché quello è il padre di Renzi, è normale che non mi metto a trattare, che cazzo me ne frega, paga la Kering». In un'altra aggiunge: «Ma il Renzi veniva a rompere i coglioni». La prossima udienza sarà l'8 luglio e in quell'occasione sarà sentito Dagostino che, al contrario dei due genitori, sta partecipando a tutte le udienze. A proposito dei due versamenti potrebbe confermare quanto già sostenuto con i giornali e cioè che si trattava di pagamenti gonfiati, ma non di fatture per prestazioni inesistenti. Anche se il suo tributarista di fiducia, in un'intercettazione, gli fa presente che tra la sovrafatturazione e la fattura falsa «non c'è differenza».