2022-06-10
È finita, pure Colombo è diventato putinista
Furio Colombo (Getty images)
Fresco di addio al «Fatto», Furio Colombo sul giornale di casa Agnelli riabilita la realpolitik di Kissinger: la priorità è la pace. Sulle stesse colonne, l’inviato nel Donesk accusa Kiev di violenze contro i civili. E «La Stampa» attacca addirittura Joe Biden.Sono costretto a segnalare altri pericolosi putinisti che si aggirano nelle redazioni dei giornali italiani, dando seguito alla denuncia del Corriere della Sera circa l’esistenza di una rete «complessa e variegata» che nel nostro Paese fa propaganda per lo zar russo. Secondo il quotidiano, per questa struttura lavorerebbero diversi influencer e commentatori, i quali condizionerebbero con i loro interventi di «contro informazione» l’intera opinione pubblica italiana. Nei giorni scorsi mi ero permesso di aggiungere alla lista di proscrizione redatta dal giornale di via Solferino, anche il nome di due collaboratori della medesima testata, ovvero l’ex ambasciatore Sergio Romano e l’esiliato speciale in America Federico Rampini. In un suo articolo il primo metteva in dubbio l’efficacia delle sanzioni contro Mosca e il secondo addirittura si chiedeva se fosse giusto, per sottrarsi ai ricatti del Cremlino, soggiacere a quelli di Pechino. Tuttavia, oggi mi trovo nella condizione di denunciare nuove subdole argomentazioni filo Putin, ad opera di opinionisti in servizio presso alcuni cosiddetti quotidiani indipendenti. Sulla prima pagina di Repubblica, per esempio, è comparso un incredibile articolo a firma di Furio Colombo, fresco di addio al Fatto in polemica con la linea del duplex Travaglio-Orsini. Secondo l’ex spicciafaccende in America di casa Agnelli, la redazione a cui ha detto addio sarebbe infestata da agenti al servizio del nuovo zar. Tuttavia, leggendo il suo articolo sulle pagine del quotidiano diretto da Maurizio Molinari, si capisce che la polemica serviva a celare il vero obiettivo, ovvero traslocare presso un’altra testata per disseminare dubbi sulla strategia dell’Europa in difesa dell’Ucraina. Già dal titolo si intuisce dove l’ex direttore dell’Unità voglia andare a parare: «L’ora della Realpolitik». Segue un nostalgico ricordo di quando lo stesso Colombo ebbe la fortuna di incontrare Henry Kissinger, ovvero il diplomatico più diplomatico che gli Stati Uniti abbiano mai avuto, e di sentirsi dire «please, call me Henry», ovvero un amichevole «chiamami Enrico, per favore». E così, ecco Furio che per la vicenda Ucraina chiama in ballo Enrico come mai ci si poteva attendere dopo la sfuriata, e conseguente porta sbattuta, a Travaglio. Riporto testualmente: «L’insegnamento di Kissinger è che lo stato delle cose conta più dei progetti, quelli aggressivi e quelli eroici. Non è una sgridata agli ucraini che resistono e un gesto di tolleranza per i russi che si ostinano. È la stessa posizione che ha indotto la potentissima America a interrompere la guerra in Vietnam. Non importa se una visione politica (russa) sia giusta o distorta, se una resistenza (ucraina) sia eroicamente condotta. L’importante è interrompere, perché i contendenti sono destinati a restare uno accanto all’altro e in mezzo all’Europa. È la politica della realtà che ha sempre guidato Kissinger». Dal tono adorante si comprende che Colombo riconosce l’autorevolezza dell’ex segretario di Stato di Nixon e fa l’esegesi del suo pensiero. Che tradotto in parole comprensibili al volgo significa una sola cosa: a prescindere da torti e ragioni, si deve interrompere la guerra. Capito il concetto? Il povero Zelensky dovrebbe rassegnarsi a fare pace con Putin.Ma ancor peggio è ciò che nell’edizione dello stesso quotidiano è stato pubblicato dall’inviato nel Donetsk. Fabio Tonacci dà voce al comandante del plotone (ucraino) in panne, facendogli dire che «i locali aiutano le truppe nemiche, rivelano loro le nostre posizioni e i nostri spostamenti. Io guido tre plotoni, siamo gli ultimi in questa zona (a 30 chilometri da Severodonetsk, ndr), e ci tocca difenderci da quelli che siamo venuti a proteggere». Ma è anche peggio quello che Tonacci fa dire a Rita e Vadim. La prima è furiosa con l’esercito di Kiev, il secondo, con il torace avvolto da una benda su cui affiora una macchia di sangue, racconta che «i soldati ucraini sono entrati in casa nostra, mi hanno picchiato con il calcio del fucile per farci sloggiare. Vi sembra normale?». Vadim, che lavorava come autista per i pompieri, alla fine conclude: «Non ci interessa sotto quale autorità vivremo, per noi l’unica cosa importante è che finisca». Insomma, subdolamente Tonacci demolisce una narrazione lunga tre mesi, con i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, insinuando dubbi sulla strategia della guerra di liberazione: un chiaro favore a Putin.E che dire di Domenico Quirico che sulle pagine della Stampa se la prende con Joe Biden che stringe la mano a Mohammed bin Salman, quel simpatico principe che ha fatto segare in due - letteralmente - il povero Jamal Khashoggi all’interno dell’ambasciata di Istanbul? Per l’inviato del quotidiano sabaudo, il presidente americano crede che tutto sia permesso e di potersi permettere tutto. E conclude: un meccanismo che dovrebbe indignare e far riflettere. Un altro assist a Putin da segnalare agli addetti alle liste di proscrizione. Ps. Fa piacere che, anche se con tre mesi di ritardo, alcuni commentatori siano arrivati alle conclusioni a cui questo giornale era giunto fin dall’inizio della guerra. Segno che non è mai troppo tardi per raccontare i fatti senza i pregiudizi dell’ideologia e della propaganda.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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