2022-07-23
La regina del cibo da strada ha un cavaliere
La piadina romagnola con lo scquacquerone (IStock)
Lo squacquerone «è identitario della Romagna contadina»: il nome deriva dal suo liquefarsi quando viene spalmato sulla piadina calda. Prime tracce scritte a inizio Ottocento. Oggi, sei produttori a marchio Dop e chef famosi ne rilanciano curiosi abbinamenti.Uno dei suoi testimonial più coinvolti è stato Andrea Muccioli, per anni anima e motore della comunità di San Patrignano, voluta dal padre Vincenzo. «È un formaggio il cui nome deriva direttamente dal dialetto romagnolo. È legato alla terra, all’allevamento, al territorio. È una storia che va prima conosciuta e poi salvaguardata, ecco perché lo squacquerone trasuda cultura». Che potrebbe essere apparentemente un riuscito gioco di parole, posto che una delle caratteristiche di questa delizia romagnola sta proprio nella sua cremosità … irrequieta, a partire dalla plasticità delle forme quando lo si versa nel piatto. Gli fa eco Graziano Pozzetto, autore dalle salde radici locali, che a questa intrigante creatura ha dedicato un’ampia e documentata monografia per conto di Panozzo Editore. «Lo squacquerone è identitario della Romagna contadina, fa parte dell’imprinting emozionale di generazioni che hanno vissuto un’epoca di semplicità e sostanza». Il nome stesso è onomatopeico, ovvero pertinente alla sua essenza, dalle forme debordanti (che «squacquerano») in quanto «non lo si riesce a contenere, perché arginato da una parte cola dall’altra». Hanno provato ad incasellarlo già a metà Ottocento, nei vari dizionari italoromagnoli. Per Antonio Morri trova le sue radici in «squacquaron», di persona ciarliera, che ride sgangheratamente, senza limiti, riferimento probabilmente al fatto che fosse un prodotto casalingo delle classi più umili. Gli ribatte Libero Ercolani, più scientifico, un secolo dopo. In realtà l’etimo è riferito a «squacquarer», ovvero liquefarsi quando, ad esempio, viene spalmato sulla calda e accogliente piadina, regina dello street food. Divertente il confronto tra due autorevoli firme della cultura gastronomica nazionale. Per lo storico Corrado Barberis, padre dell’Istituto di sociologia rurale, lo squacquerone, lasciato a sé stesso, «si scioglie in una sorta di dissenteria casearia» al che ribatte Luigi Cremona, firma di punta del Touring club «veniva prodotto in famiglia quando la quantità di latte non era sufficiente per inviarlo nei caseifici», conservato pochi giorni nelle cantine grazie all’umidità e alle basse temperature invernali. La sintesi migliore, comunque, è nella scheda che gli riserva Slow Food sulla Guida ai formaggi d’Italia «dalla consistenza ingovernabile», limite che non gli ha precluso, comunque, l’assegnazione della prestigiosa targa di prodotto Dop nel 2012. Ma torniamo alle radici. Un tempo, nelle famiglie contadine, il latte della mungitura mattutina veniva dato al lattaio che girava per le fattorie, mentre quello della mungitura serale, una volta messa da parte la quota per la colazione del mattino, veniva lavorato per ottenerne un formaggio di pronto consumo, limitatamente alle stagioni tra autunno e inverno. Nelle case di chi poteva si allevava la borella, la regina della stalla, ovvero mucche da latte esentate dal duro lavoro dei campi. Ricevevano un’alimentazione più curata, con i migliori avanzi dell’orto. I loro giacigli tenuti in ordine come se fossero di famiglia. Producevano più latte, anche se più diluito, delle colleghe legate al giogo quotidiano dell’arare i campi. Anche la mungitura seguiva regole precise. Vi erano donne dedicate cui le borelle concedevano con fiducia la spremitura delle loro sorgenti lattee, tanto che, al tempo, leggenda sosteneva che, davanti a mani inesperte, la borella si rendesse tignosa e dal capezzolo corto. Una volta raccolto il latte entrava in gioco la sua trasformatrice, ossia l’azdora, la governatrice della cucina, senza se e senza ma. Ognuna con i suoi piccoli segreti, tramandati oralmente di madre in figlia per generazioni. Alcune, le più missionarie della causa squacquerona, «preferivano dedicarsi alla lavorazione dei formaggi da sole, la sera, con il lume a petrolio». Una manualità tipica, con una delicata rotazione della materia entro un contenitore di terracotta, aggiungendovi con sapienza e pazienza un po' di caglio e sale q.b.. Le prima tracce scritte di nobile schiatta, per la natura del prodotto, ovvero una missiva del 15 febbraio 1800 in cui il cardinale cesenate Carlo Bellisomi, bloccato dal conclave a Venezia in cui poi venne eletto Papa Pio VII, ovvero il conterraneo Barnaba Chiaramonti, chiedeva a suoi che gli venissero spedite con urgenza, tra le calli lagunari, le agognate formelle squacquerone. Non poteva mancare il sommo Gabriele D’Annunzio, che in una delle sue trasvolate peninsulari gli dedica tumide parole «un formaggio candido, tenero, che sembra serbare la più fresca verginità del latte». Spariglia le carte Luigi Pasquini, forse il massimo tra gli Squacqueron Lover’s di cui si abbia traccia scritta. In una lettera inviata ad Aldo Spallucci, medico e cultore delle tradizioni di Romagna, fondatore, nel 1920, dell’autorevole rivista La Pie (ovvero La Piadina) così si dichiara, senza filtri, squacquero devoto. «Il nome non deriva dall’andar sciolti di corpo, ma da certo gagliardo modo di ridere dei nostri contadini in famiglia, soddisfatti del raccolto e portati quindi a ridere «squacqueratamente». Questi formaggi li vedo adagiati su carnose foglie di cavolo, recati dalla gente del contado ai mercati cittadini, entro ampi canestri, coperti da lindi tovagliati, tra il fumar dei fiati e lo svolazzar delle capparelle», sorta di tabarri. E l’outing prosegue con conseguenti flash back che risalgono dall’infanzia. Arriviamo al rito della piadina. «Devi spalmarlo con il coltello su di un solo lato, poi chiudi e riapri la piada per assicurarti che lui stia facendo i fili su entrambi i lati, che si allungano e accorciano a seconda della molta o poca apertura della piada. Quando mordi non mandare subito giù il boccone. Al tepore della piada che ti scalda la bocca si accompagna la fresca liquidità di lui, che ti si scioglie sulla lingua, esce dagli angoli della bocca, ti cola tra le dita». Ma è ora di tornare con i piedi per terra. La strada dello squacquerone, quella dei sei produttori a marchio Dop, parte da poco sotto Bologna, a Castel San Pietro, e termina poco prima di Rimini, a Savignano sul Rubicone. Ma lo squacquerone, per i devoti alla causa, non ha confini piadinari, come ben documentato dall’americana Lynne Rossetto Kasper, la prima a darne una mappa culinaria a tutto menù. Lo si trova come farcia di cappelletti o ravioli così come nei risotti, magari assieme a salsiccia di mora romagnola. Gianfranco Bolognesi, alla Frasca di Castrocaro, lo proponeva come gnocchi su fonduta di tartufi. Intrigante la minestra con squacquerone, ben descritta da Grazia Bravetti Magnoni. Piatto del venerdì di penitenza. Quadretti di sfoglia cotti nel paiolo, che poi, una volta tolto dal fuoco, veniva sedato con l’acqua fredda perché la pasta non si incollasse. Versati nella zuppiera cui poi si aggiungeva lo squacquerone rigorosamente lavorato con la forchetta, per amalgamarlo al meglio. Di lì poi al piatto, con porzioni dosate a seconda del commensale, uomini, vecchi, bambini, arricchendo poi il tutto con foglie di verza, cavolo o cipolla. Tradizione lo vede abbinato a marmellata di fichi, anche se il faentino Sefano Faccini si è inventato il Tiramisù allo squacquerone e quel birbante di Bruno Barbieri non poteva trattenersi dal proporre la pastiera napoletana allo squacquerone.
Marta Cartabia (Imagoeconomica)