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2020-11-28
La priorità del governo è spalancare i porti
Matteo Salvini (Ansa)
Con alcuni settori produttivi del Paese, come la ristorazione e il turismo, in ginocchio e in piena emergenza sanitaria, il governo mostra i muscoli esclusivamente su una questione: smantellare i decreti sicurezza di Matteo Salvini. Ieri, per voce del ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D'Incà, ha posto la fiducia nell'aula della Camera sul nuovo decreto immigrazione, qualificando, di fatto, le politiche sull'accoglienza come fondamentali rispetto alla propria azione politica. Dall'approvazione del decreto immigrazione, quindi, dipenderà la tenuta del Conte bis. L'esame del provvedimento che interviene in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare, modificando alcuni articoli del codice penale, e che riporta l'Italia al 2018, è cominciato ieri alla Camera. Prevede la cancellazione delle multe per le Ong, nessuna confisca di navi e - soprattutto - un grande ritorno: il meccanismo della protezione umanitaria con un allargamento delle maglie della protezione speciale. Con tempi più brevi pure per la concessione della cittadinanza. E costi più alti per l'accoglienza: tornano i 35 euro a cranio, con il nuovo Sistema di accoglienza e integrazione (Sai), nel quale finiranno oltre ai titolari di protezione internazionale e ai minori stranieri non accompagnati, anche i richiedenti asilo. Una sorta di Sprar 2.0. E approderà in aula senza nemmeno aver concluso l'esame degli emendamenti (dei 1.500 presentati inizialmente, la maggior parte del Carroccio, il presidente della commissione Affari costituzionali della Camera, Giuseppe Brescia del M5s, ne aveva bocciati 400, salvo poi riammetterne 250. Alla fine ne sono rimasti in piedi 1.076, ma non sono stati discussi).
Altri emendamenti sono stati già approvati, come quello presentato dal Pd riguardante i flussi, con i dem che hanno chiesto l'abolizione delle quote massime di stranieri da ammettere sul territorio nazionale per lavoro subordinato.
E poi ci sono quelli presentati da Laura Boldrini, per estendere il divieto di espulsione a coloro che potrebbero essere perseguitati non solo per questioni razziali, di sesso, lingua, religione, opinioni politiche e condizioni personali o sociali, ma anche per orientamento sessuale e identità di genere. Ma pure per bloccare le espulsioni degli immigrati anche se il provvedimento di allontanamento emesso da un giudice è già esecutivo. Nonostante uno straniero sia stato formalmente espulso e la sua domanda di ingresso in Italia già bocciata una volta, potrà ripresentare una seconda domanda per tentare di rimanere.
La maggioranza giallorossa, per far passare la riforma, punta anche su un semplice trucco: sul provvedimento presentato c'è una clausola di invarianza finanziaria, che si applica quando dalla norma non discendono nuovi oneri a carico della finanza pubblica. Quindi ufficialmente non sono previste ulteriori spese rispetto ai decreti Salvini. «È ovvio che i costi lieviteranno in corso d'opera», spiega alla Verità Nicola Molteni, responsabile del dipartimento sicurezza e immigrazione della Lega, che aggiunge: «Non riusciranno a far fronte all'ondata di ingressi, che è già tre volte superiore a quella dell'anno precedente, e dovranno trovare un modo per finanziare l'accoglienza con cifre esorbitanti. Con questo decreto si alimenta solamente il business dei permessi di soggiorno, la finta accoglienza e la finta solidarietà. Basti pensare che tornano i famosi 35 euro per migrante a fronte dei 19-26 euro dei decreti Salvini. In pratica, riprende la macchina mangiasoldi della finta integrazione che torna a macinare servizi e forniture per chiunque approdi in Italia. Coop e associazioni ringraziano. Mentre altri Paesi Ue chiudono e difendono le frontiere e rafforzano le normative interne a tutela degli interessi di sicurezza nazionale, la cancellazione dei decreti Salvini rende l'Italia il campo profughi d'Europa a cielo aperto».
Il centrodestra ha chiesto il rinvio dell'atto in commissione, con una richiesta, avanzata da Igor Iezzi della Lega a nome di tutta l'opposizione e ribadita anche da Ylenia Lucarelli (Fdi) e Giusy Bartolozzi (Forza Italia), motivata dall'assenza di una relazione da parte del governo, oltre che del parere della commissione Bilancio di Montecitorio. «La Camera si occupa dei decreti sicurezza, ma è urgente? Mi domando perché si parli di clandestini e sbarchi con i problemi che ci sono», ha commentato Matteo Salvini. «Noi», ha aggiunto, «ci opporremo alla cancellazione di questi decreti, riaprire i porti non è prioritario. Staremo in aula finché non ritirano gli emendamenti».
Al voto di lunedì alla Camera una frangia di dissidenti grillini cercherà, invece, di mitigare uno dei capisaldi della riforma voluta da Luciana Lamorgese: lo stop al sequestro delle navi delle Ong per il salvataggio dei migranti. Un passaggio diametralmente opposto rispetto a quello sostenuto dai pentastellati quando il ministro dell'Interno era Salvini. E che potrebbe creare più di qualche imbarazzo anche al premier Giuseppe Conte.
Stampò dei manifesti per Lega e si ritrova in croce per i 49 milioni
«Mai avuto una tessera politica, io lavoro per chi mi paga. In 40 anni di attività ho stampato manifesti, brochure e santini per tutti i partiti, non solo per la Lega. Del resto faccio lo stampatore. Non è ancora vietato». Marzio Carrara è un imprenditore bergamasco incappato suo malgrado in un singolare sport, la pesca a strascico a caccia dei presunti fondi della Lega. Che oggi sono come la pentola in fondo all'arcobaleno, eccitano gli animi mediatici come le inchieste che accompagnavano Silvio Berlusconi negli anni d'oro.
Il problema dei castelli di carte è che, quando cadono, qualcuno ci rimane sotto. Magari senza colpa, solo perché passava di lì. È il caso di Carrara, entrato da qualche settimana negli articoli dei giornali di mezza Italia che ricostruiscono i rapporti tra la Lega e i famosi commercialisti Alberto Di Rubba, Michele Scillieri, Andrea Manzoni (agli arresti domiciliari) nell'indagine su Film Commission e sui 49 milioni di rimborsi elettorali. Dipinto come il responsabile di un giro di denaro da 29 milioni in entrata e in uscita «senza una reale provenienza né i beneficiari della somma», Carrara si è svegliato una mattina nel ruolo di uomo misterioso dai contorni opachi. Ma in quei panni non si riconosce.
«Ma quali opachi, è tutto chiaro. Per la Lega ho stampato prodotti elettorali per 70.000 euro relativi alla campagna per le politiche del 2018: ci sono ordini, fatture e consegne fatte attraverso corrieri a livello nazionale, tutto tracciato al centesimo. Per quanto riguarda i 29 milioni, sono frutto di un'operazione di acquisizione e vendita assolutamente trasparente. Nel 2017 con la mia società Agh ho comprato per 5 milioni il gruppo Arti Grafiche dal colosso tedesco Bertelsmann che non lo riteneva più strategico e l'ho rivenduto nel 2018 a un altro colosso del settore, il gruppo Pozzoni, per 29. Una plusvalenza importante, frutto di una valorizzazione ritenuta interessante dal mercato. Anche qui è tutto tracciato, atti e flussi finanziari. Nella mia vita non mi sono mai nascosto davanti a niente».
Il problema di Carrara è il rapporto con Di Rubba, da anni suo consulente ed entrato per un periodo in società con lui nella Agh. Una liaison che ha fatto scattare l'interesse della guardia di finanza e dei media. Poiché lo stampatore bergamasco non è propriamente un imprenditore che sta con le mani in mano, c'è un passaggio in più: con i 29 milioni ha comprato Lediberg e oggi dà lavoro a un migliaio di persone. Realizza prodotti cartacei di ogni genere, è leader nel settore agende, Smemoranda esce dalle sue rotative.
«Di Rubba mi ha sempre seguito nell'attività. Negli articoli si chiede conto di pagamenti a lui per 214.000 euro: sono due anni di lavoro, ho semplicemente onorato il contratto. Se lui aveva rapporti con la Lega, questo non può essere un problema mio. Sono stato messo in croce anche per l'acquisizione di Lediberg da un fondo del Curaçao, come se lì si nascondesse l'inghippo. Ma quel fondo è arrivato in Italia nel 2013 con procedura ufficiale, passando attraverso il tribunale. Tutto in chiaro. Dal fondo Iris Capital ho comprato un'azienda, non era mio. E per fare le cose per bene, senza correre rischi di opacità, non ho mandato i soldi dell'acquisto a Curaçao come avrei potuto ma li ho fatti depositare su un conto corrente italiano appoggiato allo studio Dentons di Milano, l'advisor legale del venditore. Capisco la diffidenza, ma dopo una vita ad alzarmi alle 5 di mattina e a pensare solo a lavorare mi ritrovo la reputazione a zero. Controllare prima di sparare a una persona non sarebbe stato difficile». Carrara lo spiega con amarezza, teme che banche e clienti scappino perché «lavorando con clienti istituzionali, insinuazioni simili ti fanno diventare improvvisamente brutto anche se sei bello. Ho una famiglia, sono sempre andato a testa alta nella mia città, Bergamo. Adesso dovrei vergognarmi anche se non ho fatto niente di illegale. Oggi se qualcuno digita il mio nome in Google sembro Totò Riina. Chi mi risarcisce dei danni d'immagine?». Quelli che stanno condizionando pesantemente l'operatività dell'azienda, con mille famiglie preoccupate per il futuro.
Marzio Carrara ha ricevuto numerosi accertamenti dalla guardia di finanza, svolti con minuziosa attenzione: nessuna contestazione. Non è indagato, non è stato convocato come persona informata dei fatti. Però è finito nel tritacarne. «Questa faccenda mi ha insegnato a non avere mai più a che fare con i partiti politici, neppure per lavoro. Impieghi mezzo secolo a costruirti una solida reputazione e ti viene demolita in un mese».
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Iniziano i lavori d'aula per abolire i decreti sicurezza di Matteo Salvini: l'esecutivo pone la fiducia alla Camera e si prepara a ripristinare l'accoglienza indiscriminata, con i relativi business oscuri. Il leader leghista: «Con tutti i problemi che ci sono, è urgente questo?»Storia di Marzio Carrara: decenni di lavoro onesto messi in dubbio per qualche articolo.Lo speciale contiene due articoli. Con alcuni settori produttivi del Paese, come la ristorazione e il turismo, in ginocchio e in piena emergenza sanitaria, il governo mostra i muscoli esclusivamente su una questione: smantellare i decreti sicurezza di Matteo Salvini. Ieri, per voce del ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D'Incà, ha posto la fiducia nell'aula della Camera sul nuovo decreto immigrazione, qualificando, di fatto, le politiche sull'accoglienza come fondamentali rispetto alla propria azione politica. Dall'approvazione del decreto immigrazione, quindi, dipenderà la tenuta del Conte bis. L'esame del provvedimento che interviene in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare, modificando alcuni articoli del codice penale, e che riporta l'Italia al 2018, è cominciato ieri alla Camera. Prevede la cancellazione delle multe per le Ong, nessuna confisca di navi e - soprattutto - un grande ritorno: il meccanismo della protezione umanitaria con un allargamento delle maglie della protezione speciale. Con tempi più brevi pure per la concessione della cittadinanza. E costi più alti per l'accoglienza: tornano i 35 euro a cranio, con il nuovo Sistema di accoglienza e integrazione (Sai), nel quale finiranno oltre ai titolari di protezione internazionale e ai minori stranieri non accompagnati, anche i richiedenti asilo. Una sorta di Sprar 2.0. E approderà in aula senza nemmeno aver concluso l'esame degli emendamenti (dei 1.500 presentati inizialmente, la maggior parte del Carroccio, il presidente della commissione Affari costituzionali della Camera, Giuseppe Brescia del M5s, ne aveva bocciati 400, salvo poi riammetterne 250. Alla fine ne sono rimasti in piedi 1.076, ma non sono stati discussi). Altri emendamenti sono stati già approvati, come quello presentato dal Pd riguardante i flussi, con i dem che hanno chiesto l'abolizione delle quote massime di stranieri da ammettere sul territorio nazionale per lavoro subordinato. E poi ci sono quelli presentati da Laura Boldrini, per estendere il divieto di espulsione a coloro che potrebbero essere perseguitati non solo per questioni razziali, di sesso, lingua, religione, opinioni politiche e condizioni personali o sociali, ma anche per orientamento sessuale e identità di genere. Ma pure per bloccare le espulsioni degli immigrati anche se il provvedimento di allontanamento emesso da un giudice è già esecutivo. Nonostante uno straniero sia stato formalmente espulso e la sua domanda di ingresso in Italia già bocciata una volta, potrà ripresentare una seconda domanda per tentare di rimanere. La maggioranza giallorossa, per far passare la riforma, punta anche su un semplice trucco: sul provvedimento presentato c'è una clausola di invarianza finanziaria, che si applica quando dalla norma non discendono nuovi oneri a carico della finanza pubblica. Quindi ufficialmente non sono previste ulteriori spese rispetto ai decreti Salvini. «È ovvio che i costi lieviteranno in corso d'opera», spiega alla Verità Nicola Molteni, responsabile del dipartimento sicurezza e immigrazione della Lega, che aggiunge: «Non riusciranno a far fronte all'ondata di ingressi, che è già tre volte superiore a quella dell'anno precedente, e dovranno trovare un modo per finanziare l'accoglienza con cifre esorbitanti. Con questo decreto si alimenta solamente il business dei permessi di soggiorno, la finta accoglienza e la finta solidarietà. Basti pensare che tornano i famosi 35 euro per migrante a fronte dei 19-26 euro dei decreti Salvini. In pratica, riprende la macchina mangiasoldi della finta integrazione che torna a macinare servizi e forniture per chiunque approdi in Italia. Coop e associazioni ringraziano. Mentre altri Paesi Ue chiudono e difendono le frontiere e rafforzano le normative interne a tutela degli interessi di sicurezza nazionale, la cancellazione dei decreti Salvini rende l'Italia il campo profughi d'Europa a cielo aperto». Il centrodestra ha chiesto il rinvio dell'atto in commissione, con una richiesta, avanzata da Igor Iezzi della Lega a nome di tutta l'opposizione e ribadita anche da Ylenia Lucarelli (Fdi) e Giusy Bartolozzi (Forza Italia), motivata dall'assenza di una relazione da parte del governo, oltre che del parere della commissione Bilancio di Montecitorio. «La Camera si occupa dei decreti sicurezza, ma è urgente? Mi domando perché si parli di clandestini e sbarchi con i problemi che ci sono», ha commentato Matteo Salvini. «Noi», ha aggiunto, «ci opporremo alla cancellazione di questi decreti, riaprire i porti non è prioritario. Staremo in aula finché non ritirano gli emendamenti». Al voto di lunedì alla Camera una frangia di dissidenti grillini cercherà, invece, di mitigare uno dei capisaldi della riforma voluta da Luciana Lamorgese: lo stop al sequestro delle navi delle Ong per il salvataggio dei migranti. Un passaggio diametralmente opposto rispetto a quello sostenuto dai pentastellati quando il ministro dell'Interno era Salvini. E che potrebbe creare più di qualche imbarazzo anche al premier Giuseppe Conte.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-priorita-del-governo-e-spalancare-i-porti-2649063866.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="stampo-dei-manifesti-per-lega-e-si-ritrova-in-croce-per-i-49-milioni" data-post-id="2649063866" data-published-at="1606508222" data-use-pagination="False"> Stampò dei manifesti per Lega e si ritrova in croce per i 49 milioni «Mai avuto una tessera politica, io lavoro per chi mi paga. In 40 anni di attività ho stampato manifesti, brochure e santini per tutti i partiti, non solo per la Lega. Del resto faccio lo stampatore. Non è ancora vietato». Marzio Carrara è un imprenditore bergamasco incappato suo malgrado in un singolare sport, la pesca a strascico a caccia dei presunti fondi della Lega. Che oggi sono come la pentola in fondo all'arcobaleno, eccitano gli animi mediatici come le inchieste che accompagnavano Silvio Berlusconi negli anni d'oro. Il problema dei castelli di carte è che, quando cadono, qualcuno ci rimane sotto. Magari senza colpa, solo perché passava di lì. È il caso di Carrara, entrato da qualche settimana negli articoli dei giornali di mezza Italia che ricostruiscono i rapporti tra la Lega e i famosi commercialisti Alberto Di Rubba, Michele Scillieri, Andrea Manzoni (agli arresti domiciliari) nell'indagine su Film Commission e sui 49 milioni di rimborsi elettorali. Dipinto come il responsabile di un giro di denaro da 29 milioni in entrata e in uscita «senza una reale provenienza né i beneficiari della somma», Carrara si è svegliato una mattina nel ruolo di uomo misterioso dai contorni opachi. Ma in quei panni non si riconosce. «Ma quali opachi, è tutto chiaro. Per la Lega ho stampato prodotti elettorali per 70.000 euro relativi alla campagna per le politiche del 2018: ci sono ordini, fatture e consegne fatte attraverso corrieri a livello nazionale, tutto tracciato al centesimo. Per quanto riguarda i 29 milioni, sono frutto di un'operazione di acquisizione e vendita assolutamente trasparente. Nel 2017 con la mia società Agh ho comprato per 5 milioni il gruppo Arti Grafiche dal colosso tedesco Bertelsmann che non lo riteneva più strategico e l'ho rivenduto nel 2018 a un altro colosso del settore, il gruppo Pozzoni, per 29. Una plusvalenza importante, frutto di una valorizzazione ritenuta interessante dal mercato. Anche qui è tutto tracciato, atti e flussi finanziari. Nella mia vita non mi sono mai nascosto davanti a niente». Il problema di Carrara è il rapporto con Di Rubba, da anni suo consulente ed entrato per un periodo in società con lui nella Agh. Una liaison che ha fatto scattare l'interesse della guardia di finanza e dei media. Poiché lo stampatore bergamasco non è propriamente un imprenditore che sta con le mani in mano, c'è un passaggio in più: con i 29 milioni ha comprato Lediberg e oggi dà lavoro a un migliaio di persone. Realizza prodotti cartacei di ogni genere, è leader nel settore agende, Smemoranda esce dalle sue rotative. «Di Rubba mi ha sempre seguito nell'attività. Negli articoli si chiede conto di pagamenti a lui per 214.000 euro: sono due anni di lavoro, ho semplicemente onorato il contratto. Se lui aveva rapporti con la Lega, questo non può essere un problema mio. Sono stato messo in croce anche per l'acquisizione di Lediberg da un fondo del Curaçao, come se lì si nascondesse l'inghippo. Ma quel fondo è arrivato in Italia nel 2013 con procedura ufficiale, passando attraverso il tribunale. Tutto in chiaro. Dal fondo Iris Capital ho comprato un'azienda, non era mio. E per fare le cose per bene, senza correre rischi di opacità, non ho mandato i soldi dell'acquisto a Curaçao come avrei potuto ma li ho fatti depositare su un conto corrente italiano appoggiato allo studio Dentons di Milano, l'advisor legale del venditore. Capisco la diffidenza, ma dopo una vita ad alzarmi alle 5 di mattina e a pensare solo a lavorare mi ritrovo la reputazione a zero. Controllare prima di sparare a una persona non sarebbe stato difficile». Carrara lo spiega con amarezza, teme che banche e clienti scappino perché «lavorando con clienti istituzionali, insinuazioni simili ti fanno diventare improvvisamente brutto anche se sei bello. Ho una famiglia, sono sempre andato a testa alta nella mia città, Bergamo. Adesso dovrei vergognarmi anche se non ho fatto niente di illegale. Oggi se qualcuno digita il mio nome in Google sembro Totò Riina. Chi mi risarcisce dei danni d'immagine?». Quelli che stanno condizionando pesantemente l'operatività dell'azienda, con mille famiglie preoccupate per il futuro. Marzio Carrara ha ricevuto numerosi accertamenti dalla guardia di finanza, svolti con minuziosa attenzione: nessuna contestazione. Non è indagato, non è stato convocato come persona informata dei fatti. Però è finito nel tritacarne. «Questa faccenda mi ha insegnato a non avere mai più a che fare con i partiti politici, neppure per lavoro. Impieghi mezzo secolo a costruirti una solida reputazione e ti viene demolita in un mese».
Ansa
Cinque giorni di sciopero con la città bloccata dai sindacalisti. «È stata, però, una mobilitazione di lotta necessaria, non solo per la difesa di più di 1.000 posti di lavoro ma anche per tutta Genova. Abbiamo strappato un’importante continuità produttiva per lo stabilimento di Cornigliano, almeno fino a febbraio Cornigliano non chiude e con esso continua a vivere la città e il quartiere». Lancio di fumogeni e uova contro gli agenti, mezzi di lavoro contro le reti di protezione, stazione di Brignole occupata oltre agli insulti sessiti al premier Giorgia Meloni per la Cgil sono stati «disagi», non certo una guerriglia urbana molto vicina a una rivolta sociale.
Inoltre, nessun accenno alle polemiche e alla degenerazione scaturita venerdì scorso quando una parte della Fiom e alcuni esponenti politici hanno indetto uno sciopero territoriale a cui la Uilm non ha aderito. «Noi partecipiamo agli scioperi proclamati dalle organizzazioni sindacali legittimate, non da partiti politici o da singoli esponenti», aveva spiegato il segretario generale Uilm, Rocco Palombella, riferendosi alla proclamazione attribuita all’ex dirigente Fiom, Franco Grondona. Comunque, pur non partecipando all’assemblea dei lavoratori delegati e sindacalisti, si erano avvicinati ai cancelli dello stabilimento e lì «sono stati presi a calci e pugni da individui con la felpa Fiom. Un’azione premeditata di Lotta continua», aveva commentato Antonio Apa, segretario generale della Uil Liguria. «Un attacco squadrista», aveva rincarato la dose il segretario generale della Uil Liguria, Riccardo Serri.
A rimetterci, il segretario generale della Uilm Genova, Luigi Pinasco, raggiunto da alcuni cazzotti e da una testata, mentre il segretario organizzativo Claudio Cabras aveva ricevuto colpi al petto e a una gamba. Entrambi, finiti al pronto soccorso, hanno poi presentato denuncia in questura. E benché il leader nazionale della Uil, Pierpaolo Bombardieri, abbia parlato di «episodio squadrista che rischia di portare a derive vicine al terrorismo», dai colleghi di Cgil e Cisl non è arrivata alcuna condanna. Anzi, in una nota congiunta del leader Maurizio Landini e del segretario generale della Fiom, Michele De Palma, si legge: «Il forte clima di tensione al presidio sindacale non può essere in alcun modo strumentalizzato né, tanto meno, irresponsabilmente associato al terrorismo. La Fiom e la Cgil si sono sempre battuti contro il terrorismo e per affermare la democrazia, anche a costo della perdita della vita come accaduto proprio all’ex Ilva di Genova al nostro delegato Guido Rossa. Restiamo impegnati a ripristinare un clima di confronto costruttivo e di rispetto delle differenze per dare una positiva soluzione alla vertenza ex Ilva, in sintonia con le legittime aspettative di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori rese manifeste dallo sciopero dei metalmeccanici tenutosi a Genova».
Quasi fosse responsabilità dei sindacalisti Uil, il segretario Landini ha minimizzato l’episodio così come continua a non voler vedere il distacco con la Uil, prima sempre al fianco della Cgil per scioperare e, soprattutto, attaccare il governo. Un fatto grave che non ha meritato parole di solidarietà. Fim e Fiom si scusano con i genovesi per i pesanti disagi provocati per la loro mobilitazione sul futuro dell’ex Ilva ligure ben sapendo che nell’ex Ilva di Taranto è proprio la Uilm il primo sindacato.
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La scritta apparsa a Marina di Pietrasanta (Ansa)
La polizia del commissariato di Forte dei Marmi ha avviato gli accertamenti per individuare i responsabili e sta verificando la presenza di telecamere nella zona che possano aver ripreso l’autore o gli autori del gesto. Non il primo ai danni del presidente del Consiglio, ma sicuramente annoverabile tra i più violenti.
Risale ad appena pochi mesi fa l’altra scritta che aveva suscitato parecchia indignazione: «Meloni come Kirk». Una frase per augurare al premier la fine dell’attivista americano Charlie Kirk, morto ammazzato durante un comizio a causa di una pallottola. Un gesto d’odio che evidentemente alimenta altro odio. La frase di Marina di Pietrasanta potrebbe essere una risposta a un’altra frase, pronunciata da Giorgia Meloni lo scorso 25 settembre in occasione di Fenix, la festa di Gioventù nazionale, partendo da una considerazione proprio sui post contro Charlie Kirk: «Non abbiamo avuto paura delle Brigate rosse, non ne abbiamo oggi». Fdi ha diffuso una nota dove si parla di «minacce al presidente Meloni, firmate dall’estremismo rosso: l’ennesima prova di un clima d’odio che qualcuno continua a tollerare». Nel testo si ribadisce che «la violenza si argina isolando i facinorosi, non strizzando loro l’occhio. La condanna unanime resta, per certa sinistra, ancora un esercizio difficile. Non ci intimidiscono. Non ci hanno mai intimidito». Anche la Lega ha espresso immediatamente la sua solidarietà al presidente del Consiglio. «Una frase aberrante, una minaccia di morte tutt’altro che velata. Auspichiamo una condanna unanime e bipartisan. Un clima d’odio inaccettabile che non può essere minimizzato», ha commentato Andrea Crippa, deputato toscano del Carroccio.
«Un gesto vile che conferma un clima di odio politico sempre più preoccupante. Da tempo denuncio questa deriva: nessun confronto può giustificare incitamenti alla violenza», commenta il ministro della Difesa, Guido Crosetto. Parole di vicinanza e di condanna anche da parte del ministro della Salute, Orazio Schillaci, e dal ministro della Cultura, Alessandro Giuli: «Un gesto intimidatorio inaccettabile».
«Ha ragione il ministro Crosetto: c’è il rischio di trovarsi da un giorno all’altro con le Brigate rosse 4.0 se si continuerà a minimizzare l’offensiva di violenza dell’estrema sinistra», sostiene il capo dei senatori di Forza Italia, Maurizio Gasparri. «Piena solidarietà al Presidente del consiglio Giorgia Meloni per la scritta minacciosa», commenta Paolo Barelli (Fi): «È indispensabile uno stop immediato a questo clima avvelenato: serve una condanna unanime e trasversale, e occorre abbassare i toni per riportare il dibattito pubblico entro i confini del rispetto».
Per Maurizio Lupi, presidente di Noi Moderati, si tratta di un fatto «gravissimo che va condannato senza ambiguità: evocare le Brigate rosse significa richiamare una stagione buia che l’Italia non vuole e non deve rivivere». Solidarietà anche da Maria Stella Gelmini .
Durissima la presa di posizione dell’Osservatorio nazionale Anni di Piombo per la verità storica, che parla di «atto infame» e di un gesto che «evoca la stagione del terrorismo e delle esecuzioni politiche».
Giornaliste italiane esprime «la più ferma condanna» per il gesto invitando «tutti i colleghi giornalisti, i media, le forze politiche, i rappresentanti della società civile a condannare e non far calare il silenzio su un episodio che colpisce le nostre istituzioni. Contribuire, ciascuno nel proprio ambito, alla costruzione di un clima pubblico rispettoso, lontano da logiche che alimentano tensioni e contrapposizioni assolute è una responsabilità che coinvolge tutti». Da Pd, Avs e M5s silenzio assoluto.
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Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa dell'8 dicembre con Carlo Cambi
È stata confermata in appello la condanna di primo grado pronunciata nei confronti di Mario Roggero (Ansa)
Nel 2015 Roggero subì una rapina devastante. «Naso, tre costole, operato alla spalla destra il mese dopo, oltre 6 mesi di terapia molto dolorosa», racconta ora davanti alle telecamere del programma condotto da Mario Giordano su Rete 4. «Mi hanno aggredito con una tale aggressività che non ho potuto fare niente. Erano due picchiatori e mi hanno sopraffatto completamente». È il passaggio che demolisce la lettura della Corte, secondo cui nel 2021 Roggero avrebbe «agito con la stessa modalità del 2015». Il gioielliere commenta: «Penoso. Ma stiamo scherzando?». Nel 2015 fu massacrato da due individui che continuarono a picchiarlo quando era a terra. «Chiunque ha visto il video di quella rapina», aggiunge Roggero, «è rimasto profondamente impressionato». E infatti le immagini mandate in onda mostrano un’aggressione brutale, con l’uomo inerme a terra e sangue ovunque. Una scena che per Roggero è trauma puro. Ma per i giudici non è ammissibile che un uomo massacrato nel 2015, che vive un dramma simile nel 2021, abbia reazioni difensive. Il salto di cornice che Roggero mette in evidenza è questo: nel 2015 non si difende, viene pestato, finisce in ospedale. Risultato: innocente, vittima. Nel 2021 reagisce, neutralizza chi minaccia con la pistola e fugge. Risultato: imputato, condannato, trattato da aggressore. Roggero fotografa senza filosofia: «Le vere vittime siamo noi».
Lui lo dice in modo semplice: «Con la pistola in alto non avrei sparato, ma quando lui me la punta in faccia, me la punta in fronte, che faccio?». L’ultimo passaggio delle sue parole è dedicato alla Suprema corte. Sembra un atto di fede laica: «Per la Cassazione», dice Roggero, «si presuppone e si spera che abbiano buon senso i giudici». Per comprendere il percorso dei giudici d’Appello, bisognerà attendere le motivazioni. Già in primo grado, però, era emersa una doppia narrazione: con Roggero nel ruolo di vittima durante la rapina e di aggressore fuori dal negozio. La moglie ha riferito che uno dei rapinatori, «soggetti con plurimi precedenti penali per reati contro il patrimonio» riconoscono i giudici, dopo averla colpita al volto le puntava il coltello al collo e minacciava di uccidere tutti. Alla figlia erano stati legati i polsi dietro la schiena. Roggero ha riferito che il rapinatore gli ha puntato la pistola in faccia, urlando «ti ammazzo». Entrano, lo afferrano, lo spingono verso il registratore di cassa. Lo portano nella zona ripresa dalle telecamere e, mentre afferra il rotolo dei gioielli, l’altro continua a strattonarlo. Poi lo spostano nell’ufficio in cui c’è la cassaforte. Lui ha ancora l’arma puntata alla testa. La scena non dura pochi secondi. Va avanti finché il gioielliere, approfittando di un attimo di distrazione, riesce a schiacciare il pulsante dell’allarme antirapina. Uno dei malviventi se ne accorge e torna verso la cassa. Roggero sente di nuovo la moglie urlare. Riesce a prendere la sua pistola e a spostarsi nel retro. Un gesto istintivo, dettato, dirà in aula, dalla convinzione che la moglie fosse stata presa in ostaggio. I giudici evidenziano anche che la famiglia «è stata sicuramente vittima di una rapina connotata da uso di armi e anche dai citati atti di violenza fisica; condotte che hanno sicuramente generato una forte e comprensibile paura nelle vittime». Fuori c’era un’auto parcheggiata. Ed è a questo punto che la Corte introduce un teorema: quando i rapinatori escono dal negozio, con armi e refurtiva, il pericolo svanisce. Quando si tratta di qualificare la reazione di Roggero all’esterno, i rapinatori diventano di colpo soggetti in fuga, innocui e vulnerabili. Per i giudici, «ha deliberatamente deciso di affrontare i rapinatori con il precipuo fine di assicurarli, lui, alla giustizia, o meglio alla sua giustizia privata, con immediata “esecuzione” della pena nei confronti dei colpevoli». La prova? Da ricercare, secondo i giudici, in alcune interviste, non perfettamente allineate alla ricostruzione giudiziaria, rilasciate dal gioielliere a giornali e tv dopo i fatti. L’azione, in primo grado, è stata giudicata punibile con 17 anni di carcere. Ora lo sconto di pena: 14 anni e 9 mesi (più 3 milioni di euro richiesti dalle parti offese). «Praticamente un ergastolo per una persona di 72 anni», aveva detto Roggero in udienza. E a Fuori dal coro ha aggiunto: «C’è qualcosa che non quadra».
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