
La Francia impone la scuola obbligatoria già dai tre anni. In questo modo però i piccoli perdono una dimensione fondamentale per lo sviluppo: il gioco. Il governo francese guidato da Emmanuel Macron ha annunciato che, dal 2019, la scuola diventerà obbligatoria a partire dai tre anni. Ciò che era una consuetudine diventa norma di legge: i bambini dovranno frequentare la materna, che i genitori lo vogliano o no. Per molti si tratta di un grande progresso, di una misura di civiltà. Sicuramente, per padri e madri ingabbiati in vite frenetiche, costretti a passare ore e ore fuori di casa a causa del lavoro, consegnare i figli alle maestre già in tenerissima età è una bella soddisfazione. Per i piccini, però, non è detto che si tratti di una grande conquista, anzi. Sottostare a un programma ministeriale già a tre anni significa entrare in anticipo in un universo competitivo. La famiglia viene ulteriormente sgravata dalla responsabilità di educare i pargoli, alla scuola spetta il compito di gestirli fin da subito. Si compie un nuovo passo verso la direzione prestabilita: l'istituzione scolastica, oggi, è sempre più simile a una agenzia di formazione. Diventa un luogo in cui si acquisiscono competenze da sfruttare successivamente nel mondo del lavoro, non è più (soltanto) un ambiente in cui ci si costruisce come individui. In qualche modo, dunque, prima si entra nel sistema formativo prima si imbocca il sentiero prestabilito. Lo ha spiegato bene Peter Gray, psicologo del Boston college, in un saggio intitolato Lasciateli giocare (Einaudi): «Il sistema scolastico ha favorito l'affermazione nella società dell'idea che i bambini imparerebbero e progredirebbero innanzitutto svolgendo compiti assegnati e valutati dagli adulti, mentre le attività spontanee infantili sarebbero tempo perso». Motivo per cui, da qualche tempo, «anche i bimbi più piccoli vengono indirizzati lungo sentieri che, in seguito, li porteranno ad approntare un vero e proprio curriculum. Il gioco libero non conta perché è “solo un gioco"; non c'è nei moduli di iscrizione al college». Secondo Gray, «collegate a questa idea antiludica sono la sempre maggiore concentrazione sulle prestazioni, misurabili, dei bambini e l'interesse sempre minore per l'apprendimento autentico, difficilmente o addirittura non misurabile». Questo è il modello americano che Macron, tra gli altri, ha deciso di importare. In questo modo, però, i più piccoli perdono importantissimi pezzi di libertà. Un bambino di tre anni ha, prima di tutto, bisogno di giocare. Può sembrare una banalità, ma gli studiosi dell'infanzia, negli ultimi anni, insistono parecchio su questo punto. E il motivo è semplice: il gioco sta sparendo.Già i dati Istat pubblicati nel 2016 mostravano che le occasioni di attività ludica libera per i piccoli scarseggiano: meno di 2 bambini su 5 giocano nei giardini pubblici, solo 1 bambino su 4 lo fa nel cortile di casa e circa 1 su 20 gioca in strade poco trafficate. Nel resto d'Europa e del mondo non va affatto meglio.Direte: anche alla scuola materna si gioca. In realtà, però, ciò di cui hanno bisogno i bambini è quel che Howard Chudacoff ha definito «gioco non strutturato». La neuropsichiatra infantile Valentina Ivancich lo chiama «gioco brado». Si tratta, spiega, di «un tipo di gioco che non sia strutturato o organizzato in vista di un fine, come ad esempio il calcio, ma sia invece spontaneo. Il gioco brado non si svolge necessariamente in un parco giochi attrezzato, anzi si svolge bene in luoghi con molta selvaticità. Questo tipo di gioco libera l'immaginazione dei bambini e non ha un'eccessiva mediazione da parte di adulti. Il fatto che i bimbi lo pratichino sempre meno è un grosso problema. Non è soltanto questione di movimento, anche perché il gioco brado non è sempre una folla corsa. Quello che importa è il suo carattere di spontaneità, lo spazio che viene concesso all'invenzione. Potremmo dire che riguarda lo sviluppo psichico del bambino nel senso della globalità della psiche». Un'altra autorità in materia, il pedagogista francese Bernard Aucouturier, ha scritto un libro molto interessante, appena pubblicato in Italia da Raffaello Cortina. Si intitola Agire, giocare, pensare. Queste tre parole, spiega l'autore, rappresentano «una vera sfida per i bambini dei nostri tempi». «Sommersi dalle immagini virtuali che campeggiano nei videogiochi e sugli schermi dei computer», scrive Aucouturier, «i bambini ormai giocano soltanto attraverso di esse. E il corpo, che fine ha fatto? Tutti i riferimenti affettivi e cognitivi del bambino si formano a partire dalle interazioni con l'ambiente che coinvolgono la sua sensorialità visiva, uditiva, tattile, cinestesica, le emozioni e i fantasmi, interessandone l'intera dimensione psicomotoria. Ecco perché nessuno schermo, quand'anche fosse interattivo, potrà mai rimpiazzare il piacere di agire e giocare né potrà mai sostituire le interazioni sperimentate con gli adulti». Nulla può sostituire il gioco. E se si smette di giocare a tre anni, si potrebbe rimpiangerlo per tutta la vita.
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