
L'equipaggio di Mediterranea va, inutilmente, alla ricerca di clandestini da imbarcare. I guardacoste italiani e libici fanno da sé. Michela Murgia però darebbe il premio al vascello.Sono in mare da poche ore, ma hanno già ottenuto una nomination al premio Nobel, quelli di Mediterranea, l'Ong che piace alla gente che piace. La sparata arriva dalla scrittrice Michela Murgia che, intervistata da Radio 24, ha commentato i Nobel per la pace, prima lamentandosi delle troppe premiazioni «preventive» del passato (ma il nome dell'incoronato «sulla fiducia» per eccellenza, Barack Obama, non è stato fatto, non sta bene), salvo poi sbilanciarsi sulla possibilità di dare la prossima onorificenza alla nave dei Vip.Ma sì, la cosa ha una sua logica: se Mimmo Lucano è un resistente contro il nuovo regime, l'equivalente di Rosa Parks, di Giacomo Matteotti, dei membri della Rosa bianca, se il decreto sicurezza è la riedizione delle leggi razziali del 1938, cosa impedisce di pensare che Mediterranea abbia già salvato il mondo? Cronache dalla sinistra del 2018: l'iperbole empatica scavalca la logica, l'indignazione soffoca il senso del ridicolo. Intanto, nel mondo vero, il bilancio dell'avventura di Mediterranea è al momento più modesto. Venerdì pomeriggio, per esempio, un gommone in difficoltà è stato salvato a un'ottantina di miglia dalla Libia. Non dalla Ong italiana, attenzione, ma dalla Guardia costiera libica, che ha fatto tutto da sola senza l'aiuto degli italici Nobel in pectore. Sul sito di Mediterranea, infatti, leggiamo dell'avvistamento del gommone in difficoltà a 78 miglia dalla Libia, con a bordo tra le 20 e le 40 persone, secondo diverse fonti. «Come prevede la procedura, da bordo si è immediatamente provveduto a contattare Mrcc Italia comunicando anche che ci stavamo dirigendo verso la zona individuata. Da Roma ci è stato risposto che il coordinamento dell'intervento era già stato assunto dalla cosiddetta Guarda costiera libica e che, in caso di bisogno, saremmo stati contattati da loro. Abbiamo provato quindi a metterci in comunicazione coi libici ma non hanno mai risposto alle chiamate». Dall'Italia hanno risposto loro «vi faremo sapere», dalla Libia non hanno neanche risposto. Ma loro, non paghi di essere stati rimbalzati da chiunque, nel Mediterraneo, hanno «deciso comunque di andare a verificare la situazione sul posto, facendo rotta sulla zona insieme alla nave Astral di Proactiva Open Arms, dopo avere avvertito Roma». Lì hanno scoperto che «le persone che erano a bordo sono state tutte presumibilmente ricondotte forzatamente sulle coste libiche». Anzi, non hanno scoperto un bel niente, dato che l'avverbio «presumibilmente» non sembra dare troppe certezze. Eppure loro se la cantano e se la suonano: «Monitoraggio, racconto, denuncia: questi i principali obiettivi di Mediterranea. Grazie alla nostra operazione di monitoraggio, al nostro essere in mare, possiamo raccontare che stanotte, come da mesi avviene in conseguenza degli accordi tra l'Italia e la Libia, altre persone naufraghe non sono state portate in un porto sicuro come prevedrebbero invece tutte le norme giuridiche, oltre che morali, che pongono la tutela dei diritti fondamentali sopra ogni cosa». Mentre Mediterranea si appresta a mettere in bacheca, oltre al Nobel, anche il premio Pulitzer per gli incredibili scoop «presumibilmente» portati a casa, le perplessità degli addetti ai lavori sulla passerella dei vip umanitari sono sempre più forti. Perché un conto è farsi un selfie con la maglietta rossa, che fa chic ma non impegna, e un conto è stare in mezzo al mare, presumere di potersi coordinare con entità governative e magari pure intervenire nelle situazioni di emergenza. Se i migranti si potessero stipare tutti nelle buone intenzioni, allora staremmo a cavallo. Pare, però, che non sia così. Dopo aver espresso i suoi dubbi su Twitter, il ricercatore Matteo Villa, dell'Ispi, ha elencato al Foglio tutto quello che secondo lui non va in questa missione. «Politicizzare i salvataggi in mare rischia di non portare benefici, soprattutto nel lungo periodo», ha detto, aggiungendo che «sotto diversi punti di vista, sia logistici sia politici, la missione è pronta a trasformarsi in un disastro a causa della notevole approssimazione con cui è organizzata». Il ricercatore afferma che «in caso di identificazione di un barcone in emergenza non è chiaro come si comporterà Mare Jonio. Sulla base di quanto avviene già adesso, è probabile che contatterà il comando Mrcc di Roma che coordina le operazioni di salvataggio e che, a sua volta, contatterà le autorità libiche. Nel caso di intervento delle motovedette di Tripoli potrebbe succedere di tutto: il rimorchiatore come intende agire? Interverrà? Segnalerà l'emergenza e basta?». Dubbi e perplessità che, tuttavia, hanno il non trascurabile difetto di fare riferimento a quella dimensione reazionaria e populista chiamata realtà. La quale, ormai lo si è capito, poco o nulla ha a che fare con questa tragicomica edizione itinerante dell'Isola dei famosi.
Il principe saudita Mohammad bin Salman Al Sa'ud e il presidente americano Donald Trump (Getty)
Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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Lockheed F-35 «Lightning II» in costruzione a Fort Worth, Texas (Ansa)
- Il tycoon apre alla vendita dei «supercaccia» ai sauditi. Ma l’accordo commerciale aumenterebbe troppo la forza militare di Riad. Che già flirta con la Cina (interessata alla tecnologia). Tel Aviv: non ci hanno informato. In gioco il nuovo assetto del Medio Oriente.
- Il viceministro agli Affari esteri arabo: «Noi un ponte per le trattative internazionali».
Lo speciale contiene due articoli.
Roberto Cingolani, ad e direttore generale di Leonardo (Imagoeconomica)
Nasce una società con Edge Group: l’ambizione è diventare un polo centrale dell’area.
2025-11-20
Dimmi La Verità | Flaminia Camilletti: «Garofani dovrebbe dimettersi dopo lo scandalo del Quirinale»
Ecco #DimmiLaVerità del 20 novembre 2025. Con la nostra Flaminia Camilletti riflettiamo sul fatto che Francesco Saverio Garofani dovrebbe dimettersi dopo lo scandalo del Quirinale.






