2020-08-02
        La natura va esplorata con rispetto. Non è la preda dei cacciatori di selfie
    
 
Negli ultimi anni si è accesa una sorta di corsa alla stima dell'albero più vecchio della Penisola. Non c'è però bisogno di compilare abnormi gallerie fotografiche, per di più di qualità assai dubbia, sui social network.Nel corso degli ultimi anni si è accesa una sorta di bislacca corsa alla stima dell'albero più vecchio d'Italia e d'Europa. Equipe universitarie, arboricoltori professionisti e appassionati cercatori di grandi e vetusti alberi hanno rilanciato età sempre più manifestamente esplosive, intanto quel che conta è fare notizia, vedere il proprio nome rilanciato. E questa è una delle non poche occasioni nelle quali si rimpiange un mondo senza tutta l'attuale esposizione mediatica, dove per essere un vero esploratore non bastavano sei mesi di selfie fra le montagne e sotto le cascate pubblicati su un social qualsiasi. Parlavano semmai i fatti, i viaggi, i rischi perché no corsi, anche se poi siamo pronti a criticare tutti quelli che hanno perso la vita scalando il Cervino a mani nude, perché in fondo in fondo se la sono andata a cercare.Ho vissuto da cercatore di alberi per anni, ossessionato dall'accumulo di documentazione, dal bisogno quasi di poter/dover dire: ho visto tutti gli alberi monumentali censiti in Piemonte e in Toscana, ho visitato trenta grandi alberi della Sardegna, tutti i grandi ficus secolari di Palermo, i grandi ulivi delle masserie del Salento o i maggiori platani del Nord est. Elenchi su elenchi: quali i più alti alberi d'Italia, quali i più larghi alberi d'Italia, quali i più vecchi alberi d'Italia. Una malattia purtroppo che circola parecchio e anzi, pare ammorbare il visitatore domenicale. D'altronde in queste nostre confuse stagioni il paesaggio si è popolato di repliche di cercatori di alberi, di alter ego di Charles Darwin, citazionismi obbligati di Henry David Thoreau, Walt Whitman, Mario Rigoni Stern, Hermann Hesse o John Muir. Avete presente le infinite repliche di Elvis Presley? Memphis e Las Vegas ne sono infestate, eppure sono persone come noi, che si alzano la mattina, che fanno colazione, che hanno figli da portare a scuola, che vanno a fare la spesa, che pagano le bollette in posta, ma per vivere vestono gli improbabili e astronautici abiti vistosi, indossano gli occhialoni alla Elvis, cantano col vocione profondo alla Elvis, sventolano ciuffi teatrali alla Elvis. Lo ricordate il ritmo incalzante della canzone Calling Elvis dei Dire Straits? Ricordo ancora quando uscì, col video su Mtv, correva l'anno 1991, proprio in questo periodo, un'epoca fa. Oggi nei boschi quanto nelle accademie, nelle redazioni delle case editrici quanto in quelle dei giornali circolano innumerevoli incarnazioni - o piuttosto mesmerizzazioni - dell'homo silvaticus, colui che come nessun altro sa sentire la vera natura. Ecco perché si parla di natura così spesso, ecco perché le librerie sono inondate di titoli a tema. E come sappiamo anche l'editoria specialistica, dedicata agli alberi e agli alberi monumentali è oramai densissima, folta, una vera foresta di carta. Chi ne scrive ne è corresponsabile.Ora, adeguatamente ogni persona è libera di gestire il tempo che ha a disposizione come vuole, proibizioni da Covid a parte. Decidere di andare coi figli a visitare un grande albero ogni domenica non è certamente da biasimare, tutt'altro. Non c'è però bisogno di compilare abnormi gallerie fotografiche, fra l'altro di scatti assai modesti, o di confezionare l'ennesimo nuovo libro sui grandi alberi della Val di Fiemme o della città di Roma. Andare, scoprire, meravigliarsi, vivere nella propria minuta soggettività questa esperienza dovrebbe essere più che sufficiente. È poi questo che ciascuno di noi percepisce: l'emozione, la riflessione, la suggestione che questi tronchi torniti e butterati e cavi sanno nutrire. Spesso torno a visitare alberi, boschi, giardini storici, senza un taccuino, senza la macchina fotografica, con l'atteggiamento del voyeur assoluto, solo per gustare il momento.Ed è proprio con questo spirito che mi permetto di consigliare al turista che andrà questa estate in terra di Sardegna, di mettere in programma una visita agli olivastri millenari di Luras, piccolo Comune della Gallura, in provincia di Sassari, a poca distanza da Tempio Pausania. La regione è fra le più ricche di grandi alberi, come ho avuto modo di ripetere tante volte: dalle sequoie del Monte Limbara ai boschi di tasso di Sos Nibberos, dai ginepri e eucalipto della costa sabbiosa che circonda Arborea al tasso forse millenario di Bolotana, dai lecci di seicento anni della riserva di Montes, oltre Orgosolo, ai pini piantati da Garibaldi all'isola di Caprera; e ancora dall'ulivo di 8-900 anni Sa Reina, alle porte di Villamassargia ai ficus di Cagliari. Gli alberi più vetusti sono considerati i due ulivi selvatici o olivastri (Olea oleaster o Olea europaea sylvestris) di località Santu Baltolu, a una dozzina di chilometri dal centro di Luras. Qui, da alcuni anni, un'associazione di giovani guide finanziata dal Comune vi attende, c'è da pagare un obolo simbolico per l'accesso, che garantisce più che altro una cura minima del luogo e una presenza umana, onde evitare eventuali deprecabili danni. Al centro del pianoro noterete la massa globulare del primo grande olivastro, il vegliardo, quel manifesto del tempo scolpito che sarebbe stato stimato fra i 3.000 e i 4.000 anni di età. Ma ne avesse, realmente, anche soltanto 2.000, 2 e qualche secolo, che differenza potrebbe fare? Noi ci avviciniamo, scrutiamo sotto la chioma e iniziamo a notare la corpulenza del largo tronco, e due dinosauriche radici a fior di terra che corrono parallele come i binari di un tram che ci viene incontro. Rami incurvati a destra e sinistra. Questo è, insieme al celebre Castagno di Cento Cavalli che sorge alle pendici dell'Etna, l'albero considerato il più annoso d'Italia. La matematica d'altronde non mente: il tronco, misurato a petto d'uomo, sfiora gli 11 metri e 50 cm. Oltre, un sentiero conduce ad un secondo olivastro, stimato fra i 1.000 e i 1.500 anni, quindi un ragazzetto, rispetto al precedente. Ma camminarci sotto è entusiasmante, poiché la larga e folta chioma ha scolpito nell'aria una giostra circolare che possiamo percorrere coi nostri piedi. Fissando questi due giganti la fantasia va a nozze. Dove sono gli occhi? Dove sono le mani? Come scrisse il poeta Roberto Amato «O albero mio / com'è difficile farti le mani e i piedi. / Gli occhi / poi / sono quasi impossibili». Scelta musica del giorno: enorme nostalgia, venata di gioia, di spensieratezza, quando iniziano le voci accoglienti di Minuano, canzone d'apertura di uno degli ellepi più belli, riusciti, e amati del lungo percorso musicale di Pat Metheny, Still life (talking). Inutile tentare di spiegarla, la musica di Pat Metheny va ascoltata e magari fischiettata.
        Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
    
        Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
    
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico. 
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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        Viktor Orbán durante la visita a Roma dove ha incontrato Giorgia Meloni (Ansa)
    
        Francesca Albanese (Ansa)