2022-07-06
«La migliore cucina italiana di oggi? Purtroppo emigra»
La chef di 25 anni Eva Furletti,: «Le nostre materie prime sono più rispettate in Nuova Zelanda o negli Usa. E lì ti pagano per quel che vali».Dedicata a chi dice che non trova personale in cucina e in sala, dedicata ai critici gastronomici, all’Agenzia dell’Entrate, a chi fa i quattrini sulle spalle dei contadini, dedicata all’Italia che non sa fare l’Italia. Un’intervista può essere biografia e provocazione se a parlare è una ragazza che a 18 anni ha fatto fagotto, riempito col pane e formaggio di casa, il diploma dell’alberghiero di Tiene (uno dei migliori d’Italia) e, per dirla con Lucio Dalla, un grande sogno da realizzare. Lei è Eva Furletti, 25 anni da Riva del Garda, una passione profonda per la cucina; a vederla con la «parannanza», i capelli castani raccolti a «cipolla», il sorriso largo e gli occhi limpidi sembra Stephane Audran, l’indimenticabile Babette: stesso fuoco dentro, stesso desiderio. «La mia soddisfazione più grande è vedere la faccia del cliente che assaggia, si appaga, acquista serenità». Parliamo via Skype: qui è l’ora di cena, a San Diego al Piazza 1909 dove si fa cucina milanese e dove Eva sta portando avanti un progetto sulla cultura gastronomica italiana si è appena iniziato a montare la linea (si chiama così la preparazione dei piatti). Perché la California?«Ci sono di passaggio. Tutto è cominciato a Londra dopo il diploma. Volevo imparare bene l’inglese (ora lo sa anche troppo: parla quasi uno slang nda) e ho fatto la stagione estiva al Baglioni. Poi sono tornata a casa e mamma Lidia (Gomiero) la mia ispiratrice mi ha spinto a fare altri stage. Sono tornata in Inghilterra prima come capo partita, poi come pasticcera: i lievitati e la pasta fatta in casa sono stati i miei passepartout. Sono stata dagli stellati, ma non mi è piaciuto. Da Londra sono andata a Wellington, in nuova Zelanda, e lì c’è stata la prima rivelazione. Si può fare altissima cucina stando attaccati alla terra».In che senso?«Lavoravo con uno chef giovane e bravissimo Ci portavano i prodotti direttamente le fattorie e facevamo cucina anti spreco. Ho sperimentato sapori nuovi e avevo a disposizione frutta, verdura, carne freschissima che non dovevo sciupare. Il mio chef mi faceva provare il kimchi e io rispondevo con le tagliatelle. Ho proposto la cucina di casa supportata da questa qualità e con lo Shepperd siamo arrivati alle due stelle Michelin».Perché ripartire allora?«Per conoscere, la cucina è cultura ed esperienza. Così sono arrivata in Canada a Vancouver. Avrei fatto qualsiasi lavoro: ho accettato anche un ristorante vegano. Alla ventesima insalata ho detto basta. Sono andata a fare il pane. Dopo due mesi ho trovato un ragazzo canadese che aveva nonna italiana e stava aprendo il suo ristorante. Abbiamo messo insieme il nostro menù. Io ero orgogliosamente il suo secondo. Poi purtroppo il Covid, a Vancouver senza lavorare non si resiste più di un mese. E sono tornata a casa, a Riva».Felice di tornare?«Felice per la famiglia non per il lavoro. A Riva il turismo di massa ha ucciso ogni spinta alla qualità. Si fanno piatti ripetitivi al minor costo possibile. E gli stellati hanno un enorme difetto: non rispettano la materia prima. La devono per forza scomporre, di fatto la negano. La nostra cucina invece è fatta di sapori di terra, di lago, di mare. Mio papà mi ha sempre portata in campagna, uno dei miei tre fratelli ha aperto una cantina, tutti siamo aderenti alla cucina che valorizza al massimo i prodotti. Affermo in piena coscienza e con una certa esperienza che la migliore cucina italiana si fa fuori dall’Italia e la responsabilità è in gran parte dei proprietari dei ristoranti che vogliono risparmiare sul lavoro, sulle materie prime. Non nego che abbiamo costi fiscali e burocratici altissimi, ma se uno fa cucina italiana, quella delle nostre mamme e nonne ovviamente curata e interpretata al massimo livello tecnico, con gli ingredienti che ci sono anche se ha un ristorante mediocre dovrebbe fare la migliore cucina del mondo. Perché la nostra in potenza è la migliore cucina del mondo. A Riva mi hanno assunto come secondo, poi sono addirittura stata head chef (il capo), ma non mi potevo esprimere. Non dico che sia ovunque così. Alla Cantina di Toblino ho trovato una cucina vera, di qualità, sincera. Sono pochi però i ristoranti italiani che hanno ancora la passione del cibo, mentre gli stellati in genere cucinano per stupire. Ma lo stupore vero sta nei fagiolini, nelle uova, nelle trote che mi porta papà e che cucina mamma. Il mio ristoratore di Riva non capiva che bisogna investire in qualità. Così appena ho potuto sono ripartita».Stavolta tappa negli Stati Uniti giusto?«Di nuovo a Londra poi a Los Angeles. Ho conquistato spazio e valore personale facendo i canederli in Nuova Zelanda, i cannoli siciliani in California, le tagliatelle fresche in Canada. E non è vero che non si trovano gli ingredienti».In Italia si dice che i ragazzi non vogliono più lavorare nella ristorazione, perché?«Perché li pagano poco, li massacrano di lavoro e non imparano nulla. Mi sono sempre battuta per avere il giorno libero e non è stato mai facile. La cucina è passione e fatica, se sei vuoto dentro non puoi fare nulla di buono. All’estero è tutto diverso: ti pagano a ore e ti pagano tutte le ore, fai sempre e solo un turno o primo o secondo servizio (o pranzo o cena), hai due giorni liberi e più sei brava e più ti pagano. Sanno che la loro fortuna è nelle tue mani. E se chiedi di fare un corso, di andare a visitare un produttore ti mandano perché sanno che produrrai valore».In Italia le tivù hanno fatto diventare i cuochi delle star: possibile che ci sia tutta questa differenza?«In Italia il tuo valore di cuoca non è riconosciuto. All’estero non ho mai sofferto il fatto di essere donna, in Italia sì. Vogliono pagarti meno e, a tacer d’altro, più sei giovane più non ti considerano. All’estero invece ti fanno fare la prova, vedono cosa e come sai fare e contratti lo stipendio sulla tua abilità. E poi c’è il fattore istruzione: in Italia gli istituiti alberghieri sono stati abbandonati. Sono scuole di serie B con pochi soldi; invece dovrebbero essere istituti di altissima formazione con una selezione dura perché devono preparare persone che hanno in mano l’identità, la tradizione, la cultura e la qualità dell’Italia».Voglia di tornare?«Per mamma, papà, per i miei fratelli tanta, per il lavoro no. Sento che posso e devo ancora, uso un termine forte, evangelizzare il gusto con la migliore cucina esistente: l’autentica italiana. Tornerò quando con i miei fratelli che lavorano la terra potremo mettere su una cucina che racconta di noi attraverso i sapori. E potrò godermi ancora la faccia di un cliente che si abbandona soddisfatto al piacere del cibo».