2022-07-19
La lezione del massacro di Sand Creek. Un infame non inficia una buona causa
L’esecuzione di indiani inermi porta in sé un paradosso. Il militare che lo ordinò era uomo di chiesa e convinto anti schiavista. Ciò suggerisce di dare giudizi morali sui singoli atti: la complessità dell’abisso umano è troppa.Il trattato di Fort Laramie, stretto nel 1851 fra gli Stati Uniti e sette nazioni indiane, inclusi i Cheyenne e gli Arapaho, assegnava alle ultime due tribù un vasto territorio compreso fra gli odierni Wyoming, Colorado, Nebraska e Kansas. Con la scoperta dell’oro nelle Montagne Rocciose, i bianchi cominciarono però a invadere questo territorio e si arrivò nel 1861 al trattato di Fort Wise, che riconosceva agli indiani solo un tredicesimo dell’area precedente. Come era comprensibile, molti giovani guerrieri ritennero il nuovo trattato un tradimento e da una parte e dall’altra si assistette a una recrudescenza delle ostilità. Tale è il contesto in cui, il 29 novembre 1864, un reggimento di cavalleria di 675 uomini, al comando del colonnello John Milton Chivington, attaccò un villaggio indiano situato presso il fiume Sandy Creek, in Colorado. Quel sito era stato raccomandato agli indiani dalle stesse truppe americane per la loro sicurezza e, allo scopo di segnalare le sue intenzioni pacifiche, il capo del villaggio Black Kettle vi faceva sventolare sopra una bandiera americana e una bandiera bianca. Nel villaggio c’erano solo uomini o troppo vecchi o troppo giovani per combattere o andare a caccia; il resto, la grande maggioranza, erano donne e bambini. Alcuni ufficiali si rifiutarono di attaccare (uno di loro, il capitano Silas Soule, che testimoniò contro Chivington, fu successivamente ucciso a Denver); ma il grosso eseguì gli ordini con grande determinazione e, apparentemente, con grande entusiasmo. Gli ordini erano di ammazzare il più indiani possibile. Secondo quanto affermarono numerose persone (tutte bianche) nell’inchiesta svolta in seguito, corpi furono mutilati prima e dopo morti, una donna incinta giaceva squarciata con il feto che le fuoriusciva dal ventre, a neonati si era spaccato il cervello, un bambino di forse tre anni era stato oggetto di una specie di tiro al bersaglio (solo il terzo tiratore lo aveva centrato) e i «vincitori» si erano allontanati fregiandosi di scalpi, nasi, orecchie e genitali dei «vinti» (con gli scroti si sarebbero fatti borse per il tabacco). Sebbene possa sembrare strano, non è del massacro di Sand Creek che voglio parlare. Ho dovuto darne una sommaria descrizione per introdurre il tema principale, che riguarda il suo responsabile John Chivington. Non in quanto fosse, nella descrizione fornita da Kit Carson, uno sporco cane (senza offesa per i cani, immagino), e neanche perché la giustizia militare americana, pur emettendo una severa censura della sua azione («prese di sorpresa e assassinò, a sangue freddo, uomini, donne e bambini ignari a Sand Creek, che avevano ogni ragione per credere di essere sotto la protezione delle autorità degli Stati Uniti»), non gli comminò alcuna pena, e il peggio che gli toccò fu il rapido svanire delle sue ambizioni politiche. Il motivo per cui Chivington mi interessa, e per cui ho dovuto parlare delle atrocità da lui compiute, ha a che vedere con quanto d’altro fece. Nato in Ohio nel 1821, Chivington divenne un ministro metodista nel 1844, servì in tale ruolo per una decina di anni in Illinois e nel 1853 partecipò a una missione metodista in Kansas. Lì però le sue esplicite dichiarazioni contro il permanere della schiavitù lo misero in pericolo e gli venne consigliato di spostarsi in Nebraska. Trasferitosi poi in Colorado nel 1860, fu ancora impegnato nel suo ministero religioso fino al 1862, quando, iniziata ormai la Guerra civile, entrò nelle forze armate. La vita sarebbe molto più semplice se il macellaio che perpetrò una delle stragi più sanguinarie e disgustose della storia americana fosse anche stato per altri versi un criminale, un negriero o un depravato. Siccome la vita non è semplice, abbiamo invece a che fare con un uomo di fede e un fervente abolizionista. Il che suggerisce un paio di riflessioni. In primo luogo, l’oggetto del giudizio morale dovrebbe sempre essere non una persona, ma un atto. Le persone sono abissi misteriosi, insondabili e incomprensibili anche a sé stessi; gli atti possono essere valutati, sia pure con tutte le incertezze del caso, raffrontandoli con criteri di equità e di giustizia. L’atto di pronunciarsi pubblicamente a favore dell’abolizione della schiavitù è giusto; l’atto di trucidare indigeni inermi è orribilmente ingiusto. Questo chiunque può dirlo; come entrambi gli atti siano opera di un medesimo individuo è materia per poeti e romanzieri, e per il dibattito interno di quell’individuo. In secondo luogo, gli atti nefandi di una persona non inficiano le cause che la persona eventualmente sostiene. Che l’abolizionista Chivington abbia ordinato il massacro di Sand Creek non parla contro l’abolizionismo, né invita a escogitare una posizione «né a favore né contro» l’abolizionismo. Analogamente, che una serie di persone considerate di sinistra si siano negli ultimi tempi comportate come farabutti non invita a proclamarsi «né di destra né di sinistra»: la difesa degli oppressi e la lotta contro il privilegio non vengono inficiate dall’esistenza dei nostri vari colonnelli Chivington.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)