2022-03-10
La guerra fa implodere anche il modello della globalizzazione
Non basta ridurre i consumi per uscire dalla crisi imminente. Prepariamoci a una scia di disoccupati e chiusure aziendali.Anche se gli esperti della televisione e numerosi opinionisti al cachemire ci vogliono spiegare che basta abbassare i termosifoni o tornare alle abitudini delle nonne, la realtà ci si aprirà davanti agli occhi e dimostrerà chiaramente che l’illusione delle sanzioni selettive e chirurgiche alla Russia è esattamente ciò che è: una bufala. L’economia del Vecchio continente è destinata a uno choc di enorme portata e lunga durata. È bene dirselo subito. Bruxelles probabilmente pensava di bloccare i fondi della Banca centrale russa e al tempo stesso continuare a trattare l’acquisto di gas senza che Mosca o altri trovassero vie di aggiramento. Invece la situazione con l’aumentare delle violazioni e dell’avanzare dell’armata russa è deteriorata anche sul fronte economico. Sono scattati i fermi doganali e la minaccia di ulteriori sanzioni da parte degli Usa, compresa la messa al bando del gas di Mosca, ha fatto scappare gli investitori e gli acquirenti di energia verso altri produttori e altri luoghi. Ne è seguita l’impennata stratosferica dei prezzi. Non solo dell’energia, ma anche del grano, per esempio. Insomma, si annusa l’andamento tipico dell’economia di guerra. In tutto ciò non è possibile immaginare di sostituire l’approvvigionamento da Mosca con altri venditori. Vale soprattutto per l’Italia. Raddoppiare il Tap significa mettere in piedi un cantiere che richiederà minimo 4 anni di lavoro. Le sette centrali di carbone se fossero accese domani fornirebbero il 4% del fabbisogno e - per capirsi - il gas russo ne fornisce il 40%. Inoltre per alimentare le centrali dovremmo acquistare carbone dalla Cina soltanto (visto che al momento il 78% di questo oro nero arriva appunto da Mosca). Senza contare che la Cina ha già la coda di acquirenti. La pandemia prima e la guerra poi hanno tolto il velo sugli inghippi della politica economica dell’Europa. Negli ultimi 20 anni ci siamo illusi che i servizi potessero stare in piedi grazie alle gambe dei cinesi, dei filippini e degli africani. Che da noi si fa solo produzione di lusso iper digitale mentre lo sforzo analogico poteva tranquillamente essere delocalizzato, allungando la catena della logistica ogni anno di più. In questo modo siamo arrivati a comprare un’auto tedesca fatta al 70% all’estero con componenti basiche quasi tutte importate. La globalizzazione spinta si basa su trasporti e shipping che prevedono ingranaggi sempre perfetti. Si bloccano 20 porti nel mondo? Tutto si ingolfa. È successo con gli scali cinesi fermi per via del Covid o semplicemente con la scusa del virus. A maggior ragione con la guerra in corso. La Russia, inoltre, fornisce il 14% dei marittimi. Adesso chi li sostituirà sulle navi con bandiera occidentale? Sono tutti interrogativi da porsi. Non solo prima di andare in guerra ma soprattutto per evitare di finire in una situazione di povertà. Si sta abbattendo sull’Europa e sull’Italia uno choc sul lato dell’offerta e proprio nel peggiore dei momenti. Cioè quando le banche centrali occidentali stanno avviando la normalizzazione delle politiche monetarie. Tradotto: o la Bce cambia idea sulla stretta e quindi causa crolli di Borsa e spostamenti della liquidità. Oppure l’inflazione schizzerà ancora di più, aprendo a fortissime perdite dei capitali reali e alla fame per il reddito fisso. Per tutti quei lavoratori dipendenti che vedranno le loro spese triplicarsi e lo stipendio rimanere immobile non sarà facile affrontare i prossimi mesi. Certo, l’inflazione alla fine pareggia le politiche monetarie, ma lascerà una lunga scia di disoccupati e di attività a gambe all’aria. Se la guerra durerà a lungo è il caso di prepararsi. Purtroppo per noi sarà più dura perché dovremo pure sorbirci la retorica socialdemocratica della decrescita felice, del consumare meno per fare un favore alle generazioni future e all’ambiente. Certo, l’ecologia è importante ma solo le nazioni ricche possono permettersela. Quella povere, no. E l’Italia deve capire da che parte stare. Aprire gli occhi e uscire dall’illusione di un’Europa di ricchezza. La guerra non può essere la scusa per coprire i buchi e gli errori. Debito pubblico alle stelle, welfare ormai insostenibile e una capacità di produrre Pil sempre più bassa. Quando i vertici Ue immaginano di mettere sul mercato eurobond per pagare gli extra costi energetici, rischiano di aggiungere benzina sul fuoco. Gli eurobond sono altre tasse e questo continente non è più in grado di sostenerle. L’Asia e gli Usa sono consapevoli della nostra debolezza e della vecchiaia dei nostri modelli. La spaccatura e il ritorno alle logiche della guerra fredda non cancelleranno i problemi. L’Italia però ha un solo e grande vantaggio. È una penisola da cui passano i dati di internet, le navi e numerose opportunità. Forse è il caso che cominci di più a guardare a Sud e cercare di riprendersi spazi e luoghi di crescita. Bisogna però essere sinceri e dire che tutto ciò avrà un enorme costo. Altro che abbassare di un grado i termosifoni.