2020-10-28
La doppia vita di Saronio rapito e ucciso dai compagni dell’utopia rivoluzionaria
Un libro di Mario Calabresi racconta la storia e le contraddizioni di Carlo, uno dei ragazzi più ricchi di Milano, sequestrato nel 1975 dagli amici di Autop e morto il giorno stesso.Il «salice piangente» indossava sempre la camicia bianca e girava in Porsche. Gli amici lo chiamavano così perché Carlo Saronio era alto, magro, con le spalle curve e un'ombra di tristezza che gli attraversava il volto «anche quando sorrideva». Era uno dei venti ragazzi più ricchi di Milano, figlio di un industriale della chimica, palazzo in corso Venezia, precettori in casa, motoscafo Riva nella villa di Bogliasco, cottage sul lago di Como, due tenute da caccia in Lomellina, una in Kenia, palco alla Scala e fremiti da rivoluzione comunista in testa, negli anni Settanta dell'epidemia rossa che - a differenza del Covid - contagiava più facilmente i giovani. Niente di nuovo rispetto al brodo di coltura di quel minestrone indigesto (università okkupate, cellule clandestine, preti infatuati dalla teologia della liberazione, cattivi maestri laici, criminalità comune, pacifismo da P38, alibi delirante della Resistenza tradita) e alla successiva mattanza terrorista degli anni di piombo. Se non per un elemento di corto circuito: l'ingegner Saronio, 26 anni, il 15 aprile 1975 viene rapito dai suoi stessi complici di Autonomia operaia per finanziare le Brigate rosse. La richiesta di riscatto alla madre sarebbe di cinque miliardi di lire ma bisogna abbassare la quota fino a 470 milioni perché c'è un problema: la dose di toluolo per narcotizzare il sequestrato è esagerata e lui muore. Così la banda ingaggiata da Carlo Fioroni - mente politica del sequestro, sodale di Renato Curcio e Toni Negri che si incontravano nelle dimore di Saronio per pianificare la lotta armata - decide di occultare il cadavere in un canale vicino a Segrate e di proseguire le trattative ma di abbassare le pretese. Quel ragazzo valeva più da vivo.L'episodio è fulcro e anima del libro Quello che non ti dicono, di Mario Calabresi (editore Mondadori), al tempo stesso ricerca e ricostruzione, partito dall'incontro dell'autore con Marta, la figlia che non ha mai visto il padre perché nata otto mesi dopo la sua morte. La lettura è un tuffo in un mondo rimosso ma mai dimenticato. Parte della storia è dentro quel Municipio 1 di Milano, tifoso di Pd e ultrasinistra in nome di un progressismo ancora oggi acritico e autoreferenziale, che delega ai Carc e ai centri sociali la criminalizzazione di un'epidemia («Fontana assassino»). Una spremuta culturale di quegli anni affollati «di idiomi e di idioti, di guerrieri e di pazzi, anni di esercizi». Dei rivoluzionari in spider aveva già detto molto in rima Giorgio Gaber, pure con il punto esclamativo: «Non riesco più a smaltirvi, c'è troppo poco oblio. Anni affollati di gente che ha pensato a tutto senza mai pensare a un Dio». Per la verità, la Porsche azzurra regalatagli dalla famiglia, Carlo Saronio se l'era fatta rubare per finanziare le azioni da tupamaros di Fioroni e compagni. E l'aveva sostituita con un'Alfasud. Forse i suoi gesti erano mossi da una percentuale di idealismo, ma lui sapeva con chi si era messo. Dopo il ritrovamento del corpo senza vita di Giangiacomo Feltrinelli sotto il traliccio di Segrate (altro campione miliardario della rivoluzione in armi, voleva provocare un blackout a Milano ma non sapeva usare un timer), gli investigatori scoprirono che il pulmino Volkswagen usato per l'azione era stato assicurato da Fioroni. Saronio nascose in camera sua per giorni il ricercato. Mario Calabresi narra la doppia vita di un uomo timido che si vergognava di essere esageratamente ricco, e arriva a scoprire - momento emotivamente forte - che a seguire la pista Fioroni in quel 1972 di ferro e di fuoco era un giovane poliziotto che sarebbe stato ammazzato in maggio da Ovidio Bompressi su un'auto guidata da Leonardo Marino, per ordine di Adriano Sofri. Suo padre. Quello che non ti dicono è il silenzio durato 45 anni dentro il quale i misteri, le ombre, le tenerezze, le fotografie, le paure hanno accompagnato una mamma e una figlia, Silvia e Marta Saronio, vittime innocenti di una stagione belluina della nostra storia. Il libro illumina bene lo scenario ma quel velo di zucchero consolatorio che gli viene nevicato sopra lascia perplessi. Il Saronio che rifiuta le disuguaglianze, che la sera insegna agli operai di Quarto Oggiaro, che è pervaso dall'afflato di giustizia sociale e per questo fiancheggia la lotta armata, può aiutare una famiglia a recuperare una memoria pacificata. Ed è giusto. Ma non può bastare a spiegare uno dei periodi più feroci d'una democrazia ancora giovane come quella italiana, che per colpa di criminali e irresponsabili in quegli anni rischiò derive guevariste e autoritarie. Una delle frasi preferite dell'ex direttore de La Stampa e La Repubblica per spiegare un fatto nell'era del giornalismo digitale è: «Dobbiamo imparare a unire i puntini». Come in quel gioco della Settimana enigmistica, alla fine esce sempre un volto. I puntini rivelatori del libro sono quattro testimonianze sparse nelle 201 pagine. La prima è della sorella di Carlo, Maria. Il tentativo dell'autore di avvicinarla fallisce e il suo contributo è dentro un Sms: «Era un secondo Feltrinelli. Di sinistra ma proveniente da una buona famiglia, a cui è mancato il padre troppo presto per poterlo controllare e che è stato viziato oltremisura dalla madre». La seconda testimonianza è un whatsapp di Fioroni nel quale si legge: «Carlo era a pieno titolo inserito in un gruppo esecutivo di Autonomia organizzata, quello della rete di soccorso e sicurezza, ruolo che lo obbligava a vivere dentro una vita sdoppiata». La terza rivelazione è del nipote di Carlo, sacerdote che aveva cominciato a mitizzare il parente ma che cambia idea dopo aver parlato con Fioroni, riparato in Francia dopo il carcere. Quel colloquio gli ha insegnato che «bisogna imparare a scegliere bene gli amici e mi è servito a togliere lo zio Carlo dal piedistallo su cui l'avevo messo. Perché ha aiutato, protetto e finanziato questo venditore di fumo?».L'ultimo trattino, che mostra il volto di Saronio destinato a rimanere nella storia della grande tragedia che fu l'eversione rossa, lo disegna la sorella di Fioroni; lei parla senza mezzi termini di macerie. «Erano fuori di testa, parlavano di assaltare banche e rapire persone. Rimasi sconvolta e mi tirai fuori. Pensai anche di denunciare mio fratello, forse quel gesto che non ho fatto avrebbe evitato la morte di Carlo». Aleggia su tutto una frase che pronunciò Odoardo Ascari, grande avvocato, alpino che uscì vivo dalla sacca del Don, testimone della ferocia di quegli anni, legale di parte civile della famiglia Calabresi al processo per l'omicidio del papà dell'autore. «Non bisogna perdonare nessuno».
Il laboratorio della storica Moleria Locchi. Nel riquadro, Niccolò Ricci, ceo di Stefano Ricci
Il regista Stefano Sollima (Ansa)
Robert F.Kennedy Jr. durante l'udienza del 4 settembre al Senato degli Stati Uniti (Ansa)