2020-11-08
La campagna d’odio contro il «selvatico» che ha capito il modo di rimanere umani
Donald Trump ha fatto dei valori semplici della vita uno degli aspetti più importanti della sua personalità e anche della sua politica.Con questa sua seconda campagna elettorale Donald Trump ha fortemente accelerato la fine dell'epoca del politicamente corretto, della falsità obbligatoria e della proibizione di dire le cose come stanno. Una fase storica affondata innanzitutto dai suoi stessi avversari che per tutta la durata della sua presidenza e poi della campagna, non hanno mai smesso di attaccarlo (perfino quando era in ospedale per il Covid), dando prova non solo di sentimenti malvagi, ma di scoperto razzismo e trattando lui e i suoi seguaci come esseri inferiori e pericolosi. Malgrado questo sforzo, enorme e costosissimo, la vittoria democratica (se ci sarà) sarà molto risicata, mentre Trump ha preso 5,6 milioni di preferenze in più dei voti ottenuti nell'elezione scorsa. Il presidente miliardario che odia l'establishment si è assicurato una posizione particolare nella storia del nostro tempo con la questa campagna calata tra il suo popolo, gli operai, i manager e il midwest rinato, spesso con aziende tornate in Usa grazie alla sua politica commerciale e fiscale, senza sconti per chi impoveriva il Paese per arricchire sé stesso. Sarà difficile ormai scambiarlo per un avventuriero incompetente, un miliardario che gioca alla politica, un narcisista perso, pronto a inventarsi qualsiasi cosa pur di attirare l'attenzione su di sé. Certo molti di questi aspetti non mancano, ma sono governati da un impegno personale straordinariamente attento, una volontà di ferro, e una forza, fisica e psicologica (e - vien da pensare - forse anche morale) del tutto assente dai suoi predecessori alla presidenza Usa, dopo Ronald Reagan. Comunque finisca la competizione con Biden, destinata ormai a trasferirsi nelle aule di giustizia (come già accadde nel 2000 tra il democratico Al Gore e il repubblicano George W. Bush), Donald Trump ha già sconfitto lo straordinario sforzo dei democratici di farlo fuori con ogni mezzo, in una campagna d'odio razzista contro l'outsider, durata ininterrottamente già per tutta la sua presidenza, senza rinunciare a nessun strumento. Compresa l'impudenza di attribuire al presidente la responsabilità delle polizie locali che rispondono invece ai governatori, spesso democratici. Una delegittimazione feroce e violenta, che ha avuto un ruolo importante nei disordini degli ultimi mesi e rischia di segnare lo stesso futuro della democrazia americana. Tanto da provocare prese di distanza da parte di molti, come dimostrato anche dalle stesse elezioni e dall'altissima partecipazione al voto dei cittadini, preoccupati da quanto accade. Nel caso migliore per i democratici, la loro campagna avrà prodotto una presidenza azzoppata da rappresentanze parlamentari pressoché equivalenti, costrette a collaborare per forza. Ma in un Paese gravemente ferito, dove l'odio seminato a piene mani in un periodo di pandemia ha rimesso in circolazione i peggiori fantasmi, rianimati innanzitutto dal razzismo anti Trump e i suoi seguaci ed elettori.Il fatto è che The Donald, che già di suo è un tipo tutt'altro che banale, intercetta e come uno sciamano dei nostri tempi rappresenta anche un potente archetipo dell'inconscio collettivo (che è anche quello cui è dedicata questa rubrica). Si tratta del fascio di forze umane, istintuali e culturali insieme, più avversato in occidente nell'ultimo secolo: il «mondo selvatico«. Che non ha però nulla da spartire con la costruzione intellettualistica del «buon selvatico» di Jean Jacques Rousseau; non è «buono» per forza. Ma è umano, e non rischia di robotizzarsi come il docile e sdolcinato suddito della società «corretta» della tarda modernità. Ascolta la spinta profonda ad essere spontanei, vicini alla vita e alla natura e all'istinto, ma non è obbligatoriamente vegano. Propone un modo di vivere che dà spazio al bisogno di rimanere semplicemente umani, e difendere con forza questa condizione contro ogni sforzo di edulcorarla, devitalizzarla o addirittura metterla al bando e cacciarla al di fuori dalla società, che i nemici del selvatico vorrebbero governare e rinchiudere nel manierismo e tecnicismo settario del codice politicamente corretto. La presidenza Trump e in modo ancora più incisivo questa drammatica campagna presidenziale, con i suoi tre comizi al giorno in Stati diversi ancora fresco di Covid, e la passione per l'idea dell'«America great again», ha intercettato queste forze vitali, non solo politiche ma anche culturali, esistenziali. Aspirazioni a modi di vita anche diversi fra loro, comunque non raggelati dagli obiettivi freddi e mentalizzati della Silicon Valley, con il suo mondo chiuso fra i soldi e il potere. Più vicini invece anche ai grandi miti della storia americana, che le persone semplici, magari immigrate anch'esse dall'Europa, Africa o Asia, sentono più fortemente. L'amore per la terra certamente, ma anche per i piaceri della vita, gli affetti, la famiglia, il Signore: così importanti per questa nazione, dove il presidente eletto giura sulla Bibbia la fedeltà al proprio Paese. Non come da noi dove senatori da prima serata considerano Bibbia e Patria roba da «vita de merda».Trump il cattivo, il sanguinario, l'odiatore, ha fatto di questi valori semplici della vita umana uno degli aspetti più importanti della sua personalità e della sua politica. Durante la sua presidenza ha fatto del contrasto alla droga (sempre più di moda ovunque) cannabis compresa, un punto fermo. Prima della sua elezione tutto era pronto per la legalizzazione della marijuana in tutto il Paese: c'erano già le serre allestite con riscaldamento e luci continue per una produzione massiccia e rigogliosa, con grandi banche pronte a quotare tutto a Wall Street. The Donald non appoggiò nulla, che rimase nella libertà degli Stati. Grandi investitori restarono a bocca asciutta, e molti ragazzi riuscirono a star fuori dal triste percorso della dipendenza. Mentre Stati come il (pro Biden) Oregon, che per primo depenalizzò la cannabis in Usa fin dal 1973 sostenendo che avrebbe evitato la diffusione delle droghe pesanti (eroina, metamfetamina e oppiacei), si trova oggi a depenalizzare anche quelle, da cui moltissimi sono ormai diventati completamente dipendenti, partendo dalla «leggera» e innocua cannabis. Trump il cattivo, come è noto, cerca anche di aiutare le donne a fare a meno dell'aborto, se possibile, e far nascere i bambini: ma questo interesse non è «politicamente corretto», anzi c'è chi pensa che sia addirittura violento. Molti però, in Usa ma anche altrove, ne hanno abbastanza del politicamente corretto e nutrono nostalgie più basiche e selvatiche. Soprattutto umane. Per tutti loro, e tanti altri simili in giro per il mondo, sarà difficile rinunciare a Donald Trump.
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La consulenza super partes parla chiaro: il profilo genetico è compatibile con la linea paterna di Andrea Sempio. Un dato che restringe il cerchio, mette sotto pressione la difesa e apre un nuovo capitolo nell’indagine sul delitto Poggi.
La Casina delle Civette nel parco di Villa Torlonia a Roma. Nel riquadro, il principe Giovanni Torlonia (IStock)
Dalle sue finestre vedeva il Duce e la sua famiglia, il principe Giovanni Torlonia. Dal 1925 fu lui ad affittare il casino nobile (la villa padronale della nobile casata) per la cifra simbolica di una lira all’anno al capo del Governo, che ne fece la sua residenza romana. Il proprietario, uomo schivo e riservato ma amante delle arti, della cultura e dell’esoterismo, si era trasferito a poca distanza nel parco della villa, nella «Casina delle Civette». Nata nel 1840 come «capanna svizzera» sui modelli del Trianon e Rambouillet con tanto di stalla, fu trasformata in un capolavoro Art Nouveau dal principe Giovanni a partire dal 1908, su progetto dell’architetto Enrico Gennari. Pensata inizialmente come riproduzione di un villaggio medievale (tipico dell’eclettismo liberty di quegli anni) fu trasformata dal 1916 nella sua veste definitiva di «Casina delle civette». Il nome derivò dal tema ricorrente dell’animale notturno nelle splendide vetrate a piombo disegnate da uno dei maestri del liberty italiano, Duilio Cambellotti. Gli interni e gli arredi riprendevano il tema, includendo molti simboli esoterici. Una torretta nascondeva una minuscola stanza, detta «dei satiri», dove Torlonia amava ritirarsi in meditazione.
Mussolini e Giovanni Torlonia vissero fianco a fianco fino al 1938, alla morte di quest’ultimo all’età di 65 anni. Dopo la sua scomparsa, per la casina delle Civette, luogo magico appoggiato alla via Nomentana, finì la pace. E due anni dopo fu la guerra, con villa Torlonia nel mirino dei bombardieri (il Duce aveva fatto costruire rifugi antiaerei nei sotterranei della casa padronale) fino al 1943, quando l’illustre inquilino la lasciò per sempre. Ma l’arrivo degli Alleati a Roma nel giugno del 1944 non significò la salvezza per la Casina delle Civette, anzi fu il contrario. Villa Torlonia fu occupata dal comando americano, che utilizzò gli spazi verdi del parco come parcheggio e per il transito di mezzi pesanti, anche carri armati, di fatto devastandoli. La Casina di Giovanni Torlonia fu saccheggiata di molti dei preziosi arredi artistici e in seguito abbandonata. Gli americani lasceranno villa Torlonia soltanto nel 1947 ma per il parco e le strutture al suo interno iniziarono trent’anni di abbandono. Per Roma e per i suoi cittadini vedere crollare un capolavoro come la casina liberty generò scandalo e rabbia. Solo nel 1977 il Comune di Roma acquisì il parco e le strutture in esso contenute. Iniziò un lungo iter burocratico che avrebbe dovuto dare nuova vita alle magioni dei Torlonia, mentre la casina andava incontro rapidamente alla rovina. Il 12 maggio 1989 una bimba di 11 anni morì mentre giocava tra le rovine della Serra Moresca, altra struttura Liberty coeva della casina delle Civette all’interno del parco. Due anni più tardi, proprio quando sembrava che i fondi per fare della casina il museo del Liberty fossero sbloccati, la maledizione toccò la residenza di Giovanni Torlonia. Per cause non accertate, il 22 luglio 1991 un incendio, alimentato dalle sterpaglie cresciute per l’incuria, mandò definitivamente in fumo i progetti di restauro.
Ma la civetta seppe trasformarsi in fenice, rinascendo dalle ceneri che l’incendio aveva generato. Dopo 8 miliardi di finanziamenti, sotto la guida della Soprintendenza capitolina per i Beni culturali, iniziò la lunga e complessa opera di restauro, durata dal 1992 al 1997. Per la seconda vita della Casina delle Civette, oggi aperta al pubblico come parte dei Musei di Villa Torlonia.
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Oltre quaranta parlamentari, tra cui i deputati di Forza Italia Paolo Formentini e Antonio Giordano, sostengono l’iniziativa per rafforzare la diplomazia parlamentare sul corridoio India-Middle East-Europe. Trieste indicata come hub europeo, focus su commercio e cooperazione internazionale.
È stato ufficialmente lanciato al Parlamento italiano il gruppo di amicizia dedicato all’India-Middle East-Europe Economic Corridor (IMEC), sotto la guida di Paolo Formentini, vicepresidente della Commissione Affari esteri, e di Antonio Giordano. Oltre quaranta parlamentari hanno già aderito all’iniziativa, volta a rafforzare la diplomazia parlamentare in un progetto considerato strategico per consolidare i rapporti commerciali e politici tra India, Paesi del Golfo ed Europa. L’Italia figura tra i firmatari originari dell’IMEC, presentato ufficialmente al G20 ospitato dall’India nel settembre 2023 sotto la presidenza del Consiglio Giorgia Meloni.
Formentini e Giordano sono sostenitori di lunga data del corridoio IMEC. Sotto la presidenza di Formentini, la Commissione Esteri ha istituito una struttura permanente dedicata all’Indo-Pacifico, che ha prodotto raccomandazioni per l’orientamento della politica italiana nella regione, sottolineando la necessità di legami più stretti con l’India.
«La nascita di questo intergruppo IMEC dimostra l’efficacia della diplomazia parlamentare. È un terreno di incontro e coesione e, con una iniziativa internazionale come IMEC, assume un ruolo di primissimo piano. Da Presidente del gruppo interparlamentare di amicizia Italia-India non posso che confermare l’importanza di rafforzare i rapporti Roma-Nuova Delhi», ha dichiarato il senatore Giulio Terzi di Sant’Agata, presidente della Commissione Politiche dell’Unione europea.
Il senatore ha spiegato che il corridoio parte dall’India e attraversa il Golfo fino a entrare nel Mediterraneo attraverso Israele, potenziando le connessioni tra i Paesi coinvolti e favorendo economia, cooperazione scientifica e tecnologica e scambi culturali. Terzi ha richiamato la visione di Shinzo Abe sulla «confluenza dei due mari», oggi ampliata dalle interconnessioni della Global Gateway europea e dal Piano Mattei.
«Come parlamentari italiani sentiamo la responsabilità di sostenere questo percorso attraverso una diplomazia forte e credibile. L’attività del ministro degli Esteri Antonio Tajani, impegnato a Riad sul dossier IMEC e pronto a guidare una missione in India il 10 e 11 dicembre, conferma l’impegno dell’Italia, che intende accompagnare lo sviluppo del progetto con iniziative concrete, tra cui un grande evento a Trieste previsto per la primavera 2026», ha aggiunto Deborah Bergamini, responsabile relazioni internazionali di Forza Italia.
All’iniziativa hanno partecipato ambasciatori di India, Israele, Egitto e Cipro, insieme ai rappresentanti diplomatici di Germania, Francia, Stati Uniti e Giordania. L’ambasciatore cipriota ha confermato che durante la presidenza semestrale del suo Paese sarà dedicata particolare attenzione all’IMEC, considerato strategico per il rapporto con l’India e il Medio Oriente e fondamentale per l’Unione europea.
La presenza trasversale dei parlamentari testimonia un sostegno bipartisan al rapporto Italia-India. Tra i partecipanti anche la senatrice Tiziana Rojc del Partito democratico e il senatore Marco Dreosto della Lega. Trieste, grazie alla sua rete ferroviaria merci che collega dodici Paesi europei, è indicata come principale hub europeo del corridoio.
Il lancio del gruppo parlamentare segue l’incontro tra il presidente Meloni e il primo ministro Modi al G20 in Sudafrica, che ha consolidato il partenariato strategico, rilanciato gli investimenti bilaterali e discusso la cooperazione per la stabilità in Indo-Pacifico e Africa. A breve è prevista una nuova missione economica guidata dal vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Tajani.
«L’IMEC rappresenta un passaggio strategico per rafforzare il ruolo del Mediterraneo nelle grandi rotte globali, proponendosi come alternativa competitiva alla Belt and Road e alle rotte artiche. Attraverso la rete di connessioni, potrà garantire la centralità economica del nostro mare», hanno dichiarato Formentini e Giordano, auspicando che altri parlamenti possano costituire gruppi analoghi per sostenere il progetto.
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