2023-06-01
l «pacco» del Mes torna in Aula. Forza Italia apre, Meloni al varco
Antonio Tajani cauto: «La ratifica sia parte di un ragionamento più ampio che comprenda pure il Patto di stabilità». Ma i conti sulle regole si faranno ben dopo il voto in Aula.Aiuto, torna il pacchetto. Gli appassionati della saga del Mes ricorderanno di quando Giuseppe Conte, nel corso di quel 2019 che lo rese premier di due diversi governi, fece bere a tutti la «logica di pacchetto», ovvero il sì alla riforma del Meccanismo europeo di stabilità di fatto senza esplicito assenso del Parlamento. Il leader grillino sostenne che l’assenso a una modifica contestata, che espone l’Italia a rischi notevoli, fosse parte di una raffinatissima trattativa che avrebbe portato, una volta sbloccato il «salva Stati», al completamento dello strumento di bilancio per la competitività e la convergenza nell’Eurozona (Bicc) e dell’unione bancaria con la garanzia dei depositi. Non c’è bisogno di dire che la «moneta» della firma del governo è stata pagata, mentre il «cammello» delle altre due sorprese promesse non si è visto negli ultimi quattro anni.Ora, appunto, torna il «pacchetto», perché c’è la prossima moneta da pagare. Come stranoto, l’Italia è il solo Paese che non abbia proceduto alla ratifica parlamentare della riforma del Mes sottoscritta da Giuseppi: passato il Covid e insediatosi il governo Meloni, le pressioni hanno subito un leggerissimo incremento (Fmi, Eurogruppo, direttore stesso del Mes, Monti, Prodi, Confindustria, eccetera) negli ultimi giorni, e c’è da credere che aumenteranno fino alla fatidica discussione d’Aula, da ipotizzare ai primi di luglio. A infiocchettare il «pacchetto» è stato il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, figura chiave non solo ovviamente per il ruolo nell’esecutivo e in Forza Italia, ma anche per il futuro assetto dell’asse Ppe-Ecr in virtù dei lunghi trascorsi ai vertici delle istituzioni europee. «Io sono sempre stato favorevole all'utilizzo del Mes», ha detto con un sensibile aggiustamento di rotta: «Abbiamo manifestato profonde critiche sul regolamento, perché non era sottoposto ai giusti controlli. La maggioranza unita voterà dopo un approfondimento, io ritengo si debba fare ogni sforzo per fare sì che il Mes non sia una questione isolata, ma parte di un pacchetto più ampio di politica finanziaria: bisogna andare avanti sull’unione bancaria, arrivare all’armonizzazione fiscale, vedere il Patto di stabilità come si conclude nel momento dell’accordo».Al netto della vaga eco contiana, la logica di Tajani è esplicita: possiamo dire di sì al Mes se il Patto di stabilità sterza a nostro favore. Esattamente come ai tempi di Conte, però, lo sfasamento temporale è evidente: se si voterà sul Mes tra un mese, certamente non potremo avere alcuna garanzia ferma sulle nuove regole di finanza pubblica, perché lì i giochi si faranno molto più tardi. Ancora una volta, avremmo pagato una moneta senza alcuna visione di cammello, neppure in ologramma. Le dichiarazioni fanno capire quanto il terreno per la maggioranza sia accidentato: al merito della questione in sé si sovrappone la possibilità - ghiotta per l’opposizione - di spaccare la compagine di centrodestra su un tema cruciale, e in particolare per Italia viva, di spaccare Forza Italia su questo argomento. Ovviamente il peso principale del dilemma resta sulle spalle di Giorgia Meloni, che dalle colonne di questa testata, nel dicembre 2020, spiegò che «la riforma del Mes era immotivata e irricevibile già prima della pandemia, quando il debito pubblico italiano si attestava attorno al 135%, ora che viaggia abbondantemente oltre il 160% approvare delle modifiche che rinforzano il ruolo del Mes come dispensatore di condizionalità, ne potenziano il ruolo nella valutazione della sostenibilità del debito pubblico e nella eventuale sua ristrutturazione è letteralmente folle». Il premier condivide oggi la logica di pacchetto 2.0? Le negoziazioni delicatissime su Pnrr e Patto di stabilità implicano una svolta sul fondo salva Stati, tale da spostare l’approccio in Aula di Fratelli d’Italia? Il ministro della Difesa Guido Crosetto , tra i pochi a sfilarsi dal clima plumbeo in cui il Parlamento approvò quasi alla cieca la prima ratifica dell’Esm (come si chiamava allora), nel 2019 rivendicò tale scelta dicendo: «Allora era pericoloso e invotabile, ora, con le modifiche proposte, diventa una provocazione, un insulto all’intelligenza dei Parlamenti». Da cofondatore di Fratelli d’Italia, indicherà la stessa direzione? Lo vedremo nelle prossime settimane; al momento Fdi si attesta sul no, e ancora più inscalfibile sembra la posizione leghista, che del resto ebbe proprio nel Mes uno dei punti di rottura più forti con il M5s ai tempi della maggioranza gialloblù. Oltre alle dichiarazioni di Tajani, che Forza Italia sia il partito più «aperto» lo mostra indirettamente il rassegnato editoriale apparso ieri sulla prima pagina del Giornale in cui si allude al male minore della ratifica con argomentazioni curiose: «Il problema non è il Mes, ma siamo noi». Nella sostanza, il suggerimento è in piena sintonia col «lodo Monti»: dire sì per quieto vivere ma non chiedere di accedere al fondo. Purtroppo per il Paese, però, i nostri problemi inizierebbero con la ratifica e non con la richiesta di utilizzo. La riforma infatti permetterebbe in sé di spaccare i Paesi in buoni e cattivi (con noi in serie B, con potenziali conseguenze gravissime sul debito pubblico) e di utilizzare i fondi (anche nostri) pure per banche estere in difficoltà (ipotesi in questo momento non del tutto irrealizzabile), senza che l’Italia abbia potere di veto sulle scelte a maggioranza qualificata. La mozione di maggioranza approvata il 30 novembre 2022 in cui il Parlamento indica di non procedere avendo piena contezza dei rischi vale ancora? C’è un mese per scoprirlo, e molto più tempo, nel caso, per pentirsene.