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2022-02-20
Tensione massima a Kiev: uccisi due soldati ucraini. Esodo di civili dal Donbass
Ansa
Si è fatta altissima la tensione nel Donbass. Ieri, l’esercito ucraino ha reso noto che due dei suoi soldati sono rimasti uccisi nel corso di bombardamenti, condotti dai separatisti filorussi. Sempre l’esercito di Kiev ha riferito che, nelle prime dodici ore di sabato, i separatisti avrebbero violato il cessate il fuoco per 37 volte. Nel frattempo, si sono registrati flussi di profughi che dal Donbass si sono diretti in Russia: secondo quanto riferito dai media russi, si tratterebbe di oltre 10.000 persone. Il governo di Mosca si è detto «pronto ad accogliere i rifugiati» ed è in questo contesto che la regione russa di Rostov ha proclamato lo stato d’emergenza. Sempre a Rostov, secondo l’agenzia russa Tass, sarebbe scoppiato un mortaio ieri a un chilometro dal confine ucraino. In tutto questo, le due autoproclamate repubbliche di Lugansk e Donetsk hanno annunciato ieri una mobilitazione generale, mentre il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov ha detto al suo omologo francese, Jean-Yves Le Drian, che Kiev starebbe ammassando truppe a ridosso del Donbass.
Vista la pesante guerra di informazione in corso, è difficile dare un’interpretazione netta a quanto sta accadendo. Secondo i separatisti, l’evacuazione dei civili dalle due autoproclamate repubbliche sarebbe dovuta agli attacchi militari condotti dall’esercito ucraino. Una versione, questa, smentita da Kiev e da Washington, secondo cui l’evacuazione risulterebbe in realtà soltanto una messinscena con lo scopo di offrire a Mosca il pretesto per invadere il Donbass. In questo contesto, ieri la Cnn ha riferito che, in base a un’analisi dei metadati, i video in cui venerdì scorso i leader delle repubbliche di Lugansk e Donetsk annunciavano l’evacuazione risulterebbero essere stati registrati «giorni prima».
Nel mentre, si sono tenute ieri le esercitazioni russe, con lancio di missili balistici, supervisionate da Vladimir Putin e da Alexander Lukashenko. Due giorni fa, il leader del Cremlino aveva dichiarato che tali esercitazioni fossero puramente difensive: una spiegazione che non ha tuttavia convinto troppo il fronte occidentale. Del resto, che la tensione sia alta è testimoniato anche dal fatto che, sempre ieri, Francia, Austria e Germania hanno esortato i propri cittadini ad abbandonare immediatamente l’Ucraina, mentre le compagnie aeree Lufthansa e Austrian Airlines hanno interrotto i voli diretti a Kiev e Odessa. Non solo: la Nato ha infatti anche ritirato il proprio staff dalla capitale ucraina, mentre il capo del Pentagono, Lloyd Austin, ha detto che un’invasione russa potrebbe avvenire «in breve tempo». Tanto più che lo stato d’emergenza proclamato a Rostov potrebbe costituire un casus belli. Tutto questo, senza dimenticare un precedente sportivo un po’ inquietante. Oggi si concluderanno infatti le olimpiadi invernali di Pechino: ebbene, nel 2014, la crisi della Crimea ebbe luogo proprio mentre stavano volgendo al termine i giochi olimpici di Sochi. Tra l’altro, gli americani pensano che Putin possa sfruttare l’assenza del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, che si è recato ieri alla conferenza sulla sicurezza di Monaco.
L’incertezza continua a regnare sovrana. È fuori di dubbio che Putin abbia un solido interesse ad approfittare della debolezza delle relazioni transatlantiche (certificata dalla crisi afgana), per tentare un colpo di mano nel Donbass o a Odessa. Ma è anche vero che un’eventuale offensiva rischierebbe di procurargli contraccolpi in termini di popolarità interna e di relazioni internazionali. Un’invasione (ridotta o su vasta scala) porterebbe infatti il leader russo a una crisi difficilmente reversibile con l’Occidente, spingendolo progressivamente a diventare il «junior partner» di Xi Jinping e a guastare i suoi (già non sempre idilliaci) rapporti con la Turchia. Putin, che deve barcamenarsi tra le fazioni anti-occidentali e filo-occidentali all’interno dell’establishment russo, si trova quindi a dover affrontare un dilemma strategico significativo.
Dall’altra parte, c’è chi suggerisce che Biden avrebbe interesse a soffiare sul fuoco della crisi ucraina, con l’obiettivo di dividere la Russia dall’Europa a suon di pesanti sanzioni. Va tuttavia sottolineato che, soprattutto in conseguenza del disastro afgano di agosto, l’attuale presidente statunitense stia rischiando moltissimo dalla crisi in corso: sia in termini di credibilità internazionale che di popolarità interna. Lo stesso spettro politico americano è diviso tra chi esorta l’inquilino della Casa Bianca a tirare il freno a mano e chi lo critica per essersi finora rivelato troppo blando e prevedibile: alcuni settori non gli perdonano, in particolare, di avere in parte replicato la fallimentare strategia adottata da Obama nella crisi della Crimea otto anni fa. Tra l’altro è assai improbabile che il dossier ucraino possa aiutare il presidente a stornare l’attenzione dalle sue (numerose) difficoltà interne. Bisognerebbe quindi essere cauti prima di dire che la Casa Bianca stia cercando di provocare la Russia, perché una simile tesi non tiene probabilmente in debito conto l’aggrovigliata situazione politica in seno agli Stati Uniti. Insomma, Biden e Putin rischiano entrambi parecchio da questa crisi. Solo dalla sua conclusione potremo realmente capire chi avrà vinto e chi avrà perso. Ma intanto la guerra di nervi si sta facendo sempre più pericolosa.
Zelensky chiede agli Usa sanzioni immediate
Un incontro con Vladimir Putin. È questo quanto auspicato ieri, durante la conferenza sulla sicurezza a Monaco, dal presidente ucraino, Volodymyr Zelensky. «Non so cosa voglia il presidente russo. Per questo motivo, propongo di incontrarci», ha detto. «Sono il presidente», ha anche affermato nel suo discorso, «è importante che tutti i nostri partner e amici non siano d’accordo su nulla alle nostre spalle». «Non siamo nel panico», ha proseguito, «Siamo molto coerenti sul fatto che non stiamo rispondendo a nessuna provocazione».
Il leader ucraino ha anche definito il suo Paese come uno «scudo» per l’Europa. «Per otto anni, l’Ucraina ha tenuto a bada uno dei più grandi eserciti del mondo», ha affermato. Ricordiamo che, nei giorni scorsi, un incontro tra Putin e Zelensky era stato invocato anche da Mario Draghi, che si recherà la settimana prossima in missione diplomatica a Mosca.
A livello generale, la tensione resta comunque palpabile. «C’è ancora una possibilità per evitare inutili spargimenti di sangue, ma richiederà una schiacciante dimostrazione di solidarietà occidentale al di là di qualsiasi cosa abbiamo visto nella storia recente», ha dichiarato ieri il premier britannico, Boris Johnson. In tutto questo, parlando alla conferenza di Monaco, il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha puntato il dito contro l’asse sino-russo. «Per la prima volta ora vediamo Pechino unirsi a Mosca chiedendo alla Nato di smettere di ammettere nuovi membri», ha detto. «È un tentativo di controllare il destino delle nazioni libere, di riscrivere il regolamento internazionale e di imporre i propri modelli di governo autoritari», ha proseguito. Ricordiamo che, a inizio febbraio, Vladimir Putin e Xi Jinping si sono incontrati a Pechino, per consolidare l’asse tra Russia e Cina. Nell’occasione, il presidente russo ha appoggiato le rivendicazioni cinesi su Taiwan, mentre il leader della Repubblica popolare si è detto contrario all’espansione della Nato a Est.
A intervenire è stata anche la vicepresidente americana, Kamala Harris, che ha cercato di compattare il fronte euro-atlantico. «Abbiamo preparato misure economiche che saranno rapide, severe e unite», ha affermato. «Prenderemo di mira le istituzioni finanziarie e i settori chiave della Russia. Prenderemo anche di mira coloro che sono complici e coloro che aiutano e favoriscono questa invasione non provocata». La Harris ha avuto inoltre un colloquio con Zelensky, in cui la vicepresidente americana, si legge in una nota, «ha sottolineato l’impegno degli Stati Uniti nei confronti della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina».
Non sono tuttavia mancate delle polemiche. In particolare, il presidente ucraino ha chiesto che le sanzioni antirusse vengano rese note subito, senza attendere il verificarsi di un’eventuale invasione da parte di Mosca. «Non abbiamo bisogno delle vostre sanzioni dopo il bombardamento e dopo che il nostro Paese sarà stato colpito o dopo che non avremo confini, o dopo che non avremo un’economia. Perché allora dovremmo aver bisogno di quelle sanzioni?», ha detto Zelensky.
Nel frattempo, in una telefonata con l’omologo francese Jean-Yves Le Drian, il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov aveva invece criticato l’Occidente per non aver preso in considerazione le richieste di Mosca in materia di sicurezza. La Russia ha tra l’altro incassato anche il sostegno di Cuba nell’attuale crisi ucraina.
«È ingenuo credere che soddisfare alcune delle richieste della Russia porterà a una convivenza pacifica», ha dal canto suo dichiarato ieri a Monaco il premier polacco Mateusz Morawiecki.
Nei giorni scorsi, Varsavia aveva del resto a più riprese paventato il rischio che un’invasione russa possa determinare un’ondata migratoria diretta verso l’Unione europea. Un campanello d’allarme è stato suonato anche dal ministro degli Esteri britannico, Liz Truss.
«Lo scenario peggiore potrebbe verificarsi già la prossima settimana. La realtà è che la Russia vuole riportare indietro l’orologio», ha detto. «Solo nell’ultima settimana, abbiamo assistito a un raddoppio della disinformazione e abbiamo assistito a operazioni false flag nella regione del Donbass».
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Esplosioni al confine. Migliaia di evacuati verso Rostov. Vladimir Putin ai test dei missili nucleari con Alexander Lukashenko. Germania e Francia ai connazionali: «Lasciate il Paese».Il presidente ucraino auspica un incontro con l’omologo russo e polemizza: «Ci proteggeremo con o senza partner».Lo speciale contiene due articoli.Si è fatta altissima la tensione nel Donbass. Ieri, l’esercito ucraino ha reso noto che due dei suoi soldati sono rimasti uccisi nel corso di bombardamenti, condotti dai separatisti filorussi. Sempre l’esercito di Kiev ha riferito che, nelle prime dodici ore di sabato, i separatisti avrebbero violato il cessate il fuoco per 37 volte. Nel frattempo, si sono registrati flussi di profughi che dal Donbass si sono diretti in Russia: secondo quanto riferito dai media russi, si tratterebbe di oltre 10.000 persone. Il governo di Mosca si è detto «pronto ad accogliere i rifugiati» ed è in questo contesto che la regione russa di Rostov ha proclamato lo stato d’emergenza. Sempre a Rostov, secondo l’agenzia russa Tass, sarebbe scoppiato un mortaio ieri a un chilometro dal confine ucraino. In tutto questo, le due autoproclamate repubbliche di Lugansk e Donetsk hanno annunciato ieri una mobilitazione generale, mentre il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov ha detto al suo omologo francese, Jean-Yves Le Drian, che Kiev starebbe ammassando truppe a ridosso del Donbass. Vista la pesante guerra di informazione in corso, è difficile dare un’interpretazione netta a quanto sta accadendo. Secondo i separatisti, l’evacuazione dei civili dalle due autoproclamate repubbliche sarebbe dovuta agli attacchi militari condotti dall’esercito ucraino. Una versione, questa, smentita da Kiev e da Washington, secondo cui l’evacuazione risulterebbe in realtà soltanto una messinscena con lo scopo di offrire a Mosca il pretesto per invadere il Donbass. In questo contesto, ieri la Cnn ha riferito che, in base a un’analisi dei metadati, i video in cui venerdì scorso i leader delle repubbliche di Lugansk e Donetsk annunciavano l’evacuazione risulterebbero essere stati registrati «giorni prima». Nel mentre, si sono tenute ieri le esercitazioni russe, con lancio di missili balistici, supervisionate da Vladimir Putin e da Alexander Lukashenko. Due giorni fa, il leader del Cremlino aveva dichiarato che tali esercitazioni fossero puramente difensive: una spiegazione che non ha tuttavia convinto troppo il fronte occidentale. Del resto, che la tensione sia alta è testimoniato anche dal fatto che, sempre ieri, Francia, Austria e Germania hanno esortato i propri cittadini ad abbandonare immediatamente l’Ucraina, mentre le compagnie aeree Lufthansa e Austrian Airlines hanno interrotto i voli diretti a Kiev e Odessa. Non solo: la Nato ha infatti anche ritirato il proprio staff dalla capitale ucraina, mentre il capo del Pentagono, Lloyd Austin, ha detto che un’invasione russa potrebbe avvenire «in breve tempo». Tanto più che lo stato d’emergenza proclamato a Rostov potrebbe costituire un casus belli. Tutto questo, senza dimenticare un precedente sportivo un po’ inquietante. Oggi si concluderanno infatti le olimpiadi invernali di Pechino: ebbene, nel 2014, la crisi della Crimea ebbe luogo proprio mentre stavano volgendo al termine i giochi olimpici di Sochi. Tra l’altro, gli americani pensano che Putin possa sfruttare l’assenza del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, che si è recato ieri alla conferenza sulla sicurezza di Monaco. L’incertezza continua a regnare sovrana. È fuori di dubbio che Putin abbia un solido interesse ad approfittare della debolezza delle relazioni transatlantiche (certificata dalla crisi afgana), per tentare un colpo di mano nel Donbass o a Odessa. Ma è anche vero che un’eventuale offensiva rischierebbe di procurargli contraccolpi in termini di popolarità interna e di relazioni internazionali. Un’invasione (ridotta o su vasta scala) porterebbe infatti il leader russo a una crisi difficilmente reversibile con l’Occidente, spingendolo progressivamente a diventare il «junior partner» di Xi Jinping e a guastare i suoi (già non sempre idilliaci) rapporti con la Turchia. Putin, che deve barcamenarsi tra le fazioni anti-occidentali e filo-occidentali all’interno dell’establishment russo, si trova quindi a dover affrontare un dilemma strategico significativo. Dall’altra parte, c’è chi suggerisce che Biden avrebbe interesse a soffiare sul fuoco della crisi ucraina, con l’obiettivo di dividere la Russia dall’Europa a suon di pesanti sanzioni. Va tuttavia sottolineato che, soprattutto in conseguenza del disastro afgano di agosto, l’attuale presidente statunitense stia rischiando moltissimo dalla crisi in corso: sia in termini di credibilità internazionale che di popolarità interna. Lo stesso spettro politico americano è diviso tra chi esorta l’inquilino della Casa Bianca a tirare il freno a mano e chi lo critica per essersi finora rivelato troppo blando e prevedibile: alcuni settori non gli perdonano, in particolare, di avere in parte replicato la fallimentare strategia adottata da Obama nella crisi della Crimea otto anni fa. Tra l’altro è assai improbabile che il dossier ucraino possa aiutare il presidente a stornare l’attenzione dalle sue (numerose) difficoltà interne. Bisognerebbe quindi essere cauti prima di dire che la Casa Bianca stia cercando di provocare la Russia, perché una simile tesi non tiene probabilmente in debito conto l’aggrovigliata situazione politica in seno agli Stati Uniti. Insomma, Biden e Putin rischiano entrambi parecchio da questa crisi. Solo dalla sua conclusione potremo realmente capire chi avrà vinto e chi avrà perso. 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Per questo motivo, propongo di incontrarci», ha detto. «Sono il presidente», ha anche affermato nel suo discorso, «è importante che tutti i nostri partner e amici non siano d’accordo su nulla alle nostre spalle». «Non siamo nel panico», ha proseguito, «Siamo molto coerenti sul fatto che non stiamo rispondendo a nessuna provocazione». Il leader ucraino ha anche definito il suo Paese come uno «scudo» per l’Europa. «Per otto anni, l’Ucraina ha tenuto a bada uno dei più grandi eserciti del mondo», ha affermato. Ricordiamo che, nei giorni scorsi, un incontro tra Putin e Zelensky era stato invocato anche da Mario Draghi, che si recherà la settimana prossima in missione diplomatica a Mosca. A livello generale, la tensione resta comunque palpabile. «C’è ancora una possibilità per evitare inutili spargimenti di sangue, ma richiederà una schiacciante dimostrazione di solidarietà occidentale al di là di qualsiasi cosa abbiamo visto nella storia recente», ha dichiarato ieri il premier britannico, Boris Johnson. In tutto questo, parlando alla conferenza di Monaco, il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha puntato il dito contro l’asse sino-russo. «Per la prima volta ora vediamo Pechino unirsi a Mosca chiedendo alla Nato di smettere di ammettere nuovi membri», ha detto. «È un tentativo di controllare il destino delle nazioni libere, di riscrivere il regolamento internazionale e di imporre i propri modelli di governo autoritari», ha proseguito. Ricordiamo che, a inizio febbraio, Vladimir Putin e Xi Jinping si sono incontrati a Pechino, per consolidare l’asse tra Russia e Cina. Nell’occasione, il presidente russo ha appoggiato le rivendicazioni cinesi su Taiwan, mentre il leader della Repubblica popolare si è detto contrario all’espansione della Nato a Est. A intervenire è stata anche la vicepresidente americana, Kamala Harris, che ha cercato di compattare il fronte euro-atlantico. «Abbiamo preparato misure economiche che saranno rapide, severe e unite», ha affermato. «Prenderemo di mira le istituzioni finanziarie e i settori chiave della Russia. Prenderemo anche di mira coloro che sono complici e coloro che aiutano e favoriscono questa invasione non provocata». La Harris ha avuto inoltre un colloquio con Zelensky, in cui la vicepresidente americana, si legge in una nota, «ha sottolineato l’impegno degli Stati Uniti nei confronti della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina». Non sono tuttavia mancate delle polemiche. In particolare, il presidente ucraino ha chiesto che le sanzioni antirusse vengano rese note subito, senza attendere il verificarsi di un’eventuale invasione da parte di Mosca. «Non abbiamo bisogno delle vostre sanzioni dopo il bombardamento e dopo che il nostro Paese sarà stato colpito o dopo che non avremo confini, o dopo che non avremo un’economia. Perché allora dovremmo aver bisogno di quelle sanzioni?», ha detto Zelensky. Nel frattempo, in una telefonata con l’omologo francese Jean-Yves Le Drian, il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov aveva invece criticato l’Occidente per non aver preso in considerazione le richieste di Mosca in materia di sicurezza. La Russia ha tra l’altro incassato anche il sostegno di Cuba nell’attuale crisi ucraina. «È ingenuo credere che soddisfare alcune delle richieste della Russia porterà a una convivenza pacifica», ha dal canto suo dichiarato ieri a Monaco il premier polacco Mateusz Morawiecki. Nei giorni scorsi, Varsavia aveva del resto a più riprese paventato il rischio che un’invasione russa possa determinare un’ondata migratoria diretta verso l’Unione europea. Un campanello d’allarme è stato suonato anche dal ministro degli Esteri britannico, Liz Truss. «Lo scenario peggiore potrebbe verificarsi già la prossima settimana. La realtà è che la Russia vuole riportare indietro l’orologio», ha detto. «Solo nell’ultima settimana, abbiamo assistito a un raddoppio della disinformazione e abbiamo assistito a operazioni false flag nella regione del Donbass».
Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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La reazione di tanti è però ambigua, come è nella natura degli italiani, scaltri e navigati, e di chi ha uso di mondo. Bello in via di principio ma in pratica come si fa? Tecnicamente si può davvero lasciare loro lo smartphone ma col «parental control» che inibisce alcuni social, o ci saranno sotterfugi, scappatoie, nasceranno simil-social selvatici e dunque ancora più pericolosi, e saremo punto e daccapo? Giusto il provvedimento, bravi gli australiani ma come li tieni poi i ragazzi e le loro reazioni? E se poi scappa il suicidio, l’atto disperato, o il parricidio, il matricidio, del ragazzo imbestialito e privato del suo super-Io in display; se i ragazzi che sono fragili vengono traumatizzati dal divieto, i governi, le autorità non cominceranno a fare retromarcia, a inventarsi improbabili soluzioni graduali, a cominciare coi primi distinguo che poi vanificano il provvedimento? E poi, botta finale: è facile concepire queste norme restrittive quando non si hanno ragazzini in casa, o pretendere di educare gli educatori quando si è ben lontani da quelle gabbie feroci che sono le aule scolastiche! Provate a mettervi nei nostri panni prima di fare i Catoni da remoto!
Avete ragione su tutto, ma alla fine se volete tentare di guidare un po’ il futuro, se volete aiutare davvero i ragazzi, se volete dare e non solo subire la direzione del mondo, dovete provare a non assecondarli, a non rifugiarvi dietro il comodo fatalismo dei processi irreversibili, e dunque il fatalismo dei sì, perché sono assai più facili dei no. Ma qualcosa bisogna fare per impedire l’istupidimento in tenera età e in via di formazione degli uomini di domani. Abbiamo una responsabilità civile e sociale, morale e culturale, abbiamo dei doveri, non possiamo rassegnarci al feticcio del fatto compiuto. Abbiamo criticato per anni il pigro conformismo delle società arcaiche che ripetevano i luoghi comuni e le pratiche di vita semplicemente perché «si è fatto sempre così». E ora dovremmo adottare il conformismo altrettanto pigro, e spesso nocivo, delle società moderne e postmoderne con la scusa che «lo fanno tutti oggi, e non si può tornare indietro». Di questa decisione australiana io condivido lo spirito e la legge; ho solo un’inevitabile allergia per i divieti, ma in questi casi va superata, e un’altrettanto comprensibile diffidenza sull’efficacia e la durata del provvedimento, perché anche in Australia, perfino in Australia, si troveranno alla fine i modi per aggirare il divieto o per sostituire gli accessi con altri. Figuratevi da noi, a Furbilandia. Ma sono due perplessità ineliminabili che non rendono vano il provvedimento che resta invece necessario; semmai andrebbe solo perfezionato.
Il problema è la dipendenza dai social, e la trasformazione degli accessi in eccessi: troppe ore sui social, e questo vale anche per gli adulti e per i vecchi, un po’ come già succedeva con la televisione sempre accesa ma con un grado virale di attenzione e di interattività che rende lo smartphone più nocivo del già noto istupidimento da overdose televisiva.
Si perde la realtà, la vita vera, le relazioni e le amicizie, le esperienze della vita, l’esercizio dell’intelligenza applicata ai fatti e ai rapporti umani, si sterilizzano i sentimenti, si favorisce l’allergia alle letture e alle altre forme socio-culturali. È un mondo piccolo, assai più piccolo di quello descritto così vivacemente da Giovannino Guareschi, che era però pieno di umanità, di natura, di forti passioni e di un rapporto duro e verace con la vita, senza mediazioni e fughe; ma anche con il Padreterno e con i misteri della fede. Quel mondo iscatolato in una teca di vetro di nove per sedici centimetri è davvero piccolo anche se ha l’apparenza di portarti in giro per il mondo, e in tutti i tempi. Sono ipnotizzati dallo Strumento, che diventa il tabernacolo e la fonte di ogni luce e di ogni sapere, di ogni relazione e di ogni rivelazione; bisogna spezzare l’incantesimo, bisogna riprendere a vivere e bisogna saper farne a meno, per alcune ore del giorno.
La stupida Europa che bandisce culti, culture e coltivazioni per imporre norme, algoritmi ed espianti, dovrebbe per una volta esercitarsi in una direttiva veramente educativa: impegnarsi a far passare la legge australiana anche da noi, magari più circostanziata e contestualizzata. L’Europa può farlo, perché non risponde a nessun demos sovrano, a nessuna elezione; i governi nazionali temono troppo l’impopolarità, le opposizioni e la ritorsione dei ragazzi e dei loro famigliari in loro soccorso o perché li preferiscono ipnotizzati sul video così non richiedono attenzioni e premure e non fanno danni. Invece bisogna pur giocare la partita con la tecnologia, favorendo ciò che giova e scoraggiando ciò che nuoce, con occhio limpido e mente lucida, senza terrore e senza euforia.
Mi auguro anzi che qualcuno in grado di mutare i destini dei popoli, possa concepire una visione strategica complessiva in cui saper dosare in via preliminare libertà e limiti, benefici e sacrifici, piaceri e doveri, che poi ciascuno strada facendo gestirà per conto suo. E se qualcuno dirà che questo è un compito da Stato etico, risponderemo che l’assenza di limiti e di interesse per il bene comune, rende gli Stati inutili o dannosi, perché al servizio dei guastatori e dei peggiori o vigliaccamente neutri rispetto a ciò che fa bene e ciò che fa male. È difficile trovare un punto di equilibrio tra diritti e doveri, tra libertà e responsabilità, ma se gli Stati si arrendono a priori, si rivelano solo inutili e ingombranti carcasse. Per evitare lo Stato etico fondano lo Stato ebete, facile preda dei peggiori.
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