2019-11-22
John Dos Passos, cantore del popolo dimenticato quando mollò la sinistra
Esce la trilogia capolavoro dello scrittore americano. Grande almeno quanto Ernest Hemingway, ma oscurato perché indagò sugli stalinisti in Spagna e, dopo anni di militanza, assunse posizioni più conservatrici.Fin da subito, la sua prosa è una cavalcata epica, un tambureggiare di zoccoli nella prateria, l'avanzare imperioso di un treno merci lungo una grande arteria commerciale americana. Dicevano che fosse troppo sperimentale, ma talvolta sembra Walt Whitman: «Usa è una fetta di continente. Usa è un gruppo di finanziarie, un'unione di sindacati, un corpo di leggi rilegate in pelle, una rete radiofonica, una catena di cinema itineranti, una colonna di quotazioni azionarie cancellata e riscritta su una lavagna da un ragazzo della Western Union, una biblioteca pubblica piena di vecchi quotidiani e libri di storia con l'orecchia per tenere il segno e frasi di protesta scribacchiate sui margini a matita». Dà le vertigini, a tratti, la scrittura di John Dos Passos, ma è quello che fanno i grandi. Ancora: «Usa sono le lettere alla fine di un indirizzo quando si è lontani da casa. Ma soprattutto Usa è la voce del popolo». E in effetti la voce del popolo americano impregna i romanzi di Dos Passos. In particolare la trilogia Usa, che comprende Il 42º parallelo, Millenovecentodiciannove e Un mucchio di quattrini. Mondadori ne ha finalmente mandato in libreria una edizione completa a cura di Cinzia Scarpino e Sara Sullam, impreziosita dalle traduzioni di Cesare Pavese (del primo e del terzo capitolo). E mentre la si sfoglia si sente il rumoreggiare della strade, la folla brulica tra le righe, salgono persino i profumi e i miasmi delle città e di quel popolo che a John Dos Passos (1896-1970) stavano tanto a cuore. Di fronte a tanta lussureggiante letteratura viene da chiedersi come mai questo romanziere sia così poco conosciuto e studiato dalle nostre parti (e non solo). Si può collocarlo a buon diritto sullo scaffale dei giganti, senz'altro di fianco a Ernest Hemingway, forse persino al fianco di William Faulkner (che gli conferì un premio prestigiosi profondendosi in lodi). Eppure Dos Passos se ne sta lì in disparte, quasi fosse un minore, o un trastullo da specialisti. Beh, una ragione certamente c'è, ed è in gran parte politica. Vero, la critica americana a un certo punto cominciò a snobbarlo, più o meno verso gli anni Quaranta, e solo negli anni Novanta l'interesse nei suoi confronti è rifiorito Oltreoceano. Ma non si tratta soltanto degli umori ballerini dei letterati. C'è anche, dicevamo, una motivazione ideologica. Perché Dos Passos è stato un «traditore della causa». Fino ai primi anni Trenta del Novecento, infatti, il romanziere americano è stato a tutti gli effetti un «radical». Un autore di estrema sinistra che ha corteggiato a lungo il marxismo, arrivando ai limiti dell'ortodossia. Nel 1924, a Parigi, fece amicizia con Sergej Ejsenstejn, con cui si intratteneva in lunghe discussioni sulle tecniche di montaggio. Il sovietico le utilizzava nei film, John nei romanzi, in parte anticipando la tecnica del cut-up di William Burroughs. È grazie a queste innovazioni stilistiche che Dos Passos risulta incredibilmente attuale. Nel 1927 firmò un vibrante pamphlet su Sacco e Vanzetti, svelando una vena anarcoide che successivamente pagherà cara. Nel 1928 visitò l'Unione Sovietica, ne ritornò con una buona impressione, e ne scrisse sulla rivista comunista New Massess. La lotta di classe, non è un mistero, emerge prepotente dai primi due romanzi della trilogia Usa, ma già nel terzo tutto cambia, e in profondità. John si allontanò dal marxismo sempre più velocemente, fino a rinnegarlo del tutto, passando sul fronte opposto. Da radicale di sinistra, Dos Passos divenne un libertario sostenitore di Goldwater e di Nixon. Gli ex compagni di lotta non gliel'hanno mai perdonata. Il suo primo vero romanzo anticomunista - Le avventure di un giovane uomo, del 1939 - viene stroncato con ferocia. Da quel momento il genio celebrato per tutti gli anni Trenta, l'amico di Francis Scott Fitzgerald e Ernest Hemingway, il talento prodigioso lodato pure da Jean-Paul Sartre che si è guadagnato copertine di Time torna a essere un illustre sconosciuto. Le avventure di un giovane uomo da noi è praticamente ignoto, sebbene ne esista una traduzione degli anni Ottanta. In quel libro, però, ci sono tutte le ragioni che spinsero Dos Passos il più lontano possibile dai comunisti. Il protagonista, Glenn Spotswood, è un «comunista disilluso» (così l'ha definito Granville Hicks, pure lui marxista convertito all'anticomunismo). Parte per la guerra di Spagna carico di illusioni, ma in terra iberica viene arrestato dalla Gpu (la polizia segreta sovietica) e condotto alla morte. Fu la Spagna, in effetti, a provocare la fatale rottura nel cuore di John. L'aveva frequentata a lungo, in gioventù, conosceva la lingua e la cultura. E, soprattutto, conosceva un brillante intellettuale di sinistra di nome José Robles Pazos. Erano grandi amici, si frequentarono parecchio anche quando José si trasferì negli Stati Uniti per insegnare all'Università. La storia di Pazos l'ha ricostruita con dovizia di particolari Ignacio Martínez de Pisón in un libro bello e agghiacciante pubblicato da Guanda nel 2006: Morte di un traduttore. José aveva tradotto in spagnolo le opere di Dos Passos, e dopo quasi vent'anni di amicizia i due avevano in programma di ritrovarsi Spagna nel 1936, durante la guerra civile. Dos Passos, ancora fervente militante, aveva costituito con l'allora grande amico Ernest Hemingway, Lilian Hellman e Archibald MacLeish una società chiamata Contemporary Historians, che avrebbe dovuto produrre un documentario intitolato Terra di Spagna per la regia dell'olandese Joris Ivens. Quest'ultimo era un comunista di ferro, e a dire il vero tutti i protagonisti dell'impresa simpatizzavano per la falce e il martello, compreso Hemingway. L'unico su cui c'erano dei dubbi era proprio Dos Passos, sospettato di eresia trotskista. José Robles Pazos avrebbe dovuto fare da interprete e da guida ai baldanzosi intellettuali americani, ma non potè fare proprio nulla. Una notte del 1936 sparì dalla sua casa di Valencia. Fu prelevato da agenti sovietici della Nkvd, imprigionato e, poco tempo dopo, passato per le armi. Ammazzato dai suoi stessi compagni, accusato di intelligenza con il nemico fascista. Il motivo che portò all'eliminazione fisica rimane tutt'ora oscuro, ma Dos Passos, per tutto il suo soggiorno spagnolo, non si diede pace. Appena appresa la notizia della morte, si mise a indagare, e benché amici e conoscenti avessero creato il vuoto attorno a lui, riuscì a scoprire che a trucidare il suo amico erano stati proprio i comunisti russi. Fu la fine della sua fede rossa, e anche la fine dell'amicizia con Hemingway. Leggenda vuole che i due avessero litigato per una scempiaggine. Dos Passos, nella sua autobiografia Tempi migliori, preferisce alimentare la buffa storiella piuttosto che svelare la tragica verità. Sarebbe andata così: John si recò a visitare Ernest, già famosissimo e tronfio. All'ingresso della dimora di Hemingway trovò un arrogante busto dello scrittore, e per ridere lo sfrutto per appoggiarvi il cappello: «Mi lanciò un'occhiataccia e tolse il cappello dalla testa del busto. Fu imbronciato per tutto il giorno. Nessuno di noi ne fece parola. Ma dopo questo episodio le cose fra di noi non andarono più nello stesso modo di prima». I biografi raccontano una storia ben differente. Dos Passos perse ogni amore verso Hemingway in Spagna. Mentre John era distrutto dall'assassinio del suo amico e cercava verità, Ernest gli intimò di non piagnucolare troppo, e - forse anche per ragioni ideologico - non lo supportò nella ricerca. Addio all'amico, addio ai comunisti. Dos Passos iniziò a firmare articoli sempre più critici. Attaccò l'Urss e Stalin, se la prese con i comunisti americani e pure con i laburisti inglesi. I suoi ex compagni di New Massess scrissero che, come Céline, «odia i comunisti perché organicamente sembra odiare l'intera razza umana». I rossi lo bastonavano, i liberal come Gore Vidal pure. I critici presero a ignorarlo e stroncarlo. E intanto John continuava a scrivere, e a commentare le opere di libertari come Thomas Jefferson e Thomas Paine. E mentre gli intellettuali progressisti americani ed europei lo ignoravano, un libro di Dos Passos - Millenovecentodiciannove, secondo capitolo della trilogia Usa - finì nelle mani di uno scrittore russo che i sovietici avevano recluso alla Lubjanka. Il russo s'innamorò di quel romanzo, e ne fu profondamente influenzato. Anche lui, del resto, amava molto il popolo: si chiamava Aleksandr Solzhenitsyn.
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