2023-02-12
«Ho parlato dei danni del lockdown sui bimbi. Levi’s mi ha licenziato»
L’ex ginnasta e dirigente Jennifer Sey ha scritto un libro sulle grandi aziende Usa che censurano e usano l’ideologia Woke solo per fare soldi.Jennifer Sey, classe 1969, ha vissuto almeno tre vite. La prima l’ha vista eccellere nella ginnastica: campionessa americana nel 1986, sette volte nella nazionale statunitense. Un infortunio l’ha consegnata alla seconda esistenza, quella di manager di enorme successo. Prima ha preso due lauree a Stanford (Scienze politiche e Comunicazione), poi è stata assunta dalla Levi’s, dove ha lavorato dal 1999 al 2022, scalando la gerarchia fino a diventare brand president. In tutto ciò, ha trovato pure il tempo di mettere al mondo quattro figli. Infine, la terza vita: ora Jennifer è una attivista che si batte contro l’ideologia Woke e la psicosi sanitaria.«Ho lavorato alla Levi’s per 23 anni», ci racconta. «Sono diventata responsabile di tutto il marketing a livello mondiale, Italia compresa, e poi sono stata promossa e sono divenuta responsabile di tutti i prodotti che l’azienda manda in commercio. Ero molto apprezzata in azienda, e sono stata una delle poche donne ad arrivare ai vertici».Poi, però, è arrivato il Covid. E Jennifer ha cominciato a pensare e a esprimere in pubblico cose che - secondo i suoi superiori - avrebbe dovuto tenere per sé. «Ho parlato molto apertamente del fatto che i bambini sarebbero stati danneggiati dai lockdown. Non c’erano attività sportive, i campi gioco erano chiusi… Prima mi è stato detto, in poco parole, che avrei dovuto stare zitta. Quindi, mi è stato comunicato che non c’era più spazio per me in azienda».Jennifer Sey, donna in carriera e madre, aveva violato il tabù sanitario. Esponendosi contro le chiusure forzate è passata dalla parte dei cattivi. «Mi è stata offerta una buonuscita: un milione di dollari. Però avrei dovuto firmare un accordo che mi imponeva di stare zitta. Così ho rifiutato, e mi sono dimessa. Ho scritto un libro che racconta la verità sulla censura all’interno delle corporation americane».Il volume si intitola Levi’s Unbuttoned, e il sottotitolo è feroce: «Come la mafia Woke si è presa il mio lavoro ma mi ha dato una voce». Quella voce, oggi, Jennifer non la risparmia. «Facevo presente che i bambini avrebbero avuto molti problemi, a livello fisico e mentale. Cosa che poi si è dimostrata vera. Ma quando ho iniziato a parlarne, mi accusavano di essere razzista, mi dicevano che volevo far morire gli insegnati di Covid. Ho sperimentato degli insulti pubblici molto pesanti. C’erano colleghi che scrivevano alle risorse umane lamentando il fatto che mi esponessi su questi temi. Dicevano che ero razzista e che non mi interessava se i bambini di colore - che sono più presenti nelle scuole pubbliche - sarebbero morti. Erano tutte falsità: i miei figli sono andati alle scuole pubbliche. Tante persone la pensavano come me, ma avevano magari paura di perdere il lavoro, non se la sentivano di parlare. Io, invece, non ho voluto rimanere zitta e penso di aver rappresentato le donne che hanno perso il lavoro e i bambini che hanno subito le conseguenze di tutto questo. In realtà, ad attaccarmi è stata una minoranza, ma è stata estremamente aggressiva, voleva fare di tutto perché fossi cacciata. Ma non c’è mai stato un calo di vendite della Levi’s anche se i woke minacciavano boicottaggi».La lotta di Jennifer, che inizialmente riguardava il Covid, ben presto si è allargata. Il suo obiettivo è diventato l’intero movimento Woke, malattia senile del progressismo che si basa sull’ossessione per le politiche identitarie (razza, genere, orientamento sessuale eccetera). «Nel mio libro parlo di questa tendenza in voga nelle aziende: utilizzano l’ideologia Woke per i propri affari. Serve a fare leva sui consumatori della Generazione Z e sui Millennial che, spesso, sono anche attivisti, magari attivisti da tastiera. Il messaggio che mandano le aziende è: seguiamo i vostri valori, condividiamo quello che fate. In realtà, cercano di trarre profitto da queste idee, di fare soldi. Questa cultura Woke si basa su una bugia raccontata dalle corporation. Il vero obiettivo di ogni azienda è quello di fare soldi, non di ottenere la parità di genere o qualsiasi altro valore. Lo scopo è attirare nuovi clienti. E anche evitare le critiche della stampa, dato che queste campagne ormai piacciono a tutti… Faccio un piccolo esempio. Ricordate Ftx, la compagnia di criptovalute? Questa compagnia ha fatto suoi tutti i concetti della cultura Woke e la stampa l’ha celebrata anche se, in realtà, non faceva altro che mettere in atto pratiche fraudolente».Già: l’impegno superficiale e l’atteggiamento «inclusivo» di facciata portano molti vantaggi. Tra cui quello di essere coccolati dai giornali. O quello di riuscire a proporsi come guru. «Ci sono dirigenti d’azienda che vogliono essere celebrati come eroi e la stampa contribuisce ad accontentarli». Nel frattempo, l’ideologia Woke continua a costituire un enorme problema per la libertà di pensiero e di espressione, anche e soprattutto negli Stati Uniti. «La Woke mafia è un pericolo, richiede un conformismo totale. Se fai domande o se vai contro questa ideologia vieni attaccato e insultato. Tutte queste grandi aziende parlano di cultura inclusiva, ma in realtà non la praticano. Non c’è davvero spazio per la diversità di pensiero e di opinione. Sì, è davvero una minaccia per i valori americani ma, più in generale, per la libertà di parola, perché in una nazione in cui questa cultura domina non c’è spazio per il pensiero libero. È una sorta di regime autoritario».Un particolare curioso, in questa storia incredibile, è che Jennifer Sey, per la gran parte della sua vita, ha votato per i democratici. Ora, invece, si rende conto di come la sinistra liberal partecipi alla nuova oppressione. Un regime che lei non ha voglia di accettare. Nemmeno per un milione di dollari.
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