True
2025-03-24
Isolati e violenti L’adolescenza horror dell’era digitale
(Netflix)
«Ma lui era in camera sua, vero? Pensavamo che fosse al sicuro no? Che male poteva fare lì dentro?». Le lacrime colano sui volti scavati dei genitori di Jamie, tredicenne inglese accusato di avere ucciso Katie, una sua compagna di scuola. Questa è una delle scene più potenti di Adolescence, serie fenomeno di Netflix creata da Jack Thorne e Stephen Graham (quest’ultimo interpreta anche il padre del ragazzino). È il termine di un lunghissimo piano sequenza di quattro puntate, tecnica cinematografica che da sola basta a fare esplodere l’angoscia. Gli spettatori seguono i protagonisti in una infinita corsa alla ricerca del senso: davvero Jamie ha ucciso? Perché lo avrebbe fatto? Quali segreti agitano la scuola frequentata da questi adolescenti silenziosi e pallidi? Il dramma è che, alla fine di tutto, il senso non si trova, non appare. I due genitori del presunto assassino si siedono sfibrati nella loro stanza e si processano, si chiedono se abbiano sbagliato, e dove. Ma non c’è risposta: rimane solo il rapido susseguirsi degli eventi - una cascata, una frana - in un mondo che appare, appunto, insensato.
«Era nella sua camera, pensavamo che fosse al sicuro». Ma è proprio dalla camera, dallo schermo del computer di Jamie che origina il male. È nei cristalli liquidi degli smartphone degli studenti suoi coetanei che si diffonde la pestilenza culminata in omicidio. Gli studenti non parlano ma chattano, si fanno foto, pubblicano, costruiscono i loro paradisi e soprattutto inferni su misura. Le ragazzine - scafate, più vicine a parvenze d’adulti - non si fanno scrupoli a bullizzare i maschi. E questi talvolta si rinchiudono nelle loro bolle, nelle loro stanze reali e virtuali. Alcuni ottengono la lettera scarlatta di Incel, celibi involontari, considerati troppo brutti per piacere alle donne, incapaci di creare e gestire una relazione, privi di legami veri e profondi, spesso sepolti nelle loro tane.
Emergono da queste tenebre le figure tipiche della decadenza: la femmina fatale, percepita quale minaccia dal maschio fragile e spaesato. E tutt’intorno una terra desolata, in cui la violenza repressa esplode, l’odio aleggia ovunque. La forza maschile che si tenta di occultare marcisce e si fa velenosa, ottunde le menti. L’odio febbrile invade le vene, si scatena contro le ragazzine che paiono inaccessibili: l’80% delle donne desidera il 20% degli uomini, massima fatale, e mortifera.
No, nella camera questi ragazzi non sono al sicuro anche se i loro genitori lo pensano. Lì dentro, nel chiuso delle mura, stanno gli schermi, e dentro gli schermi sono sepolti mostri. Adolescence va vista mentre si legge Amygdalatropolis, allucinante romanzo di BR Yeager, autore americano. Lì il protagonista si chiama semplicemente /1404er/, è il giovane uomo utente di un forum online in cui tutti hanno lo stesso nome e si fanno orda impersonale. Come ben sintetizza la nota delle edizioni Nero che pubblicano il libro in Italia, /1404er/ «abita un mondo digitale ermetico popolato da altre entità senza forma che condividono con lui lo stesso nome. Le sue interazioni ruotano esclusivamente attorno alla condivisione e alla discussione (e a volte alla creazione) dei contenuti più volgari, violenti, ripugnanti e indifendibili che si trovano nelle zone d’ombra extra-legali del cosiddetto dark web». Di nuovo gli Incel, di nuovo i reclusi che esalano odio, disperante metafora di una modernità che rifiuta la virilità, la demonizza, la dipinge come tossica e malata e in effetti riesce poi a renderla tale. Jamie ha tredici anni, /1404er/ è più grande e ha persino un lavoro che gli consente di seppellirsi vivo in casa, in realtà terrorizzato dall’esterno. Sono uno l’estremo dell’altro. I genitori sono letteralmente tagliati fuori.
Gli adulti di Adolescence non hanno le chiavi per entrare nell’isola che non c’è digitale in cui si aggirano i loro figli sperduti. In Amygdalatropolis i genitori sono costretti fuori dalla porta, alternano rabbia impotente a sottomissione compiacente. Sembrano colpevoli, ma non lo sono del tutto. Sono vittime anche loro di una realtà sfuggente e troppo patologica per essere ricostruita. Un paradiso artificiale per ragazzini abituati alla violenza (mediata per lo più) e incapaci di tutto tranne che di sopraffare il più debole. Questi genitori tentano di capire, di interessarsi, di essere presenti, accudenti. Ma comunque falliscono: i frutti delle loro attenzioni sono marci. E allora si interrogano, si processano, cercano un senso. Talvolta si piegano e poi si spezzano. La drammatica consapevolezza rimane, in ogni caso: nella terra desolata non c’è senso alla vita, e dunque non c’è redenzione possibile, se non quando è troppo tardi.
C’è però una via di uscita, dopo tutto. In Adolescence, l’indicazione sta forse in due momenti molto commoventi della serie. Intanto nella relazione che il poliziotto che indaga sull’omicidio scolastico inizia faticosamente a costruire con il figlio. Un rapporto non tra amici, non tra pari. Ma fisico, concreto, fatto di comunanza e di azioni che si svolgono nel mondo esterno, reale. Ad esempio un pranzo a base di patatine fritte da condividere. Una piccola gita in automobile. Lampi minimi di speranza, e chissà se bastano davvero. Però sono qualcosa. Il secondo momento, fondamentale, è quello in cui tanto il presunto assassino quanto i suoi genitori prendono atto dei propri errori: si aprono e confessano prima di tutto a sé stessi la propria fallibilità. Ecco allora che l’avvicinamento all’altro e, insieme, l’assunzione di responsabilità individuale possono diventare il fulcro del cambiamento. O per lo meno una speranza. Sono, queste, le fondamenta della virilità positiva, della forza buona capace di salvare, la quale di certo non appartiene ai maschi rabbiosi che si agitano online.
In qualche modo, Adolescence è il contrario de La strada di Cormac McCarthy e ne costituisce in qualche modo l’antidoto. Anche lì ci sono un padre, un figlio e un mondo desolato, devastato dalla catastrofe. I due sono incerti, spaventati. Ma avanzano comunque, si sostengono a vicenda e stanno vicini, animati da una speranza che viene da una forza trascendente. Dalla convinzione, forse folle, di essere i portatori del fuoco, coloro che devono resistere e comportarsi diversamente dagli altri poiché si riconoscono in un codice superiore. Codice che i più hanno dimenticato, certo, ma che non per questo è meno valido. Mentre tutto affonda, in un mondo distrutto, non resta che soccombere o portare il fuoco.
«I genitori di oggi sbagliano ad accudire troppo i loro figli»
Daniele Novara, tra i più noti pedagogisti italiani, è fondatore e direttore del centro psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti di Piacenza. Il suo nuovo libro, appena uscito per Rizzoli, si intitola Mollami! Educare i figli adolescenti e trovare la giusta distanza per farli crescere.
Per anni ci siamo ripetuti che si dovevano curare i figli, che bisognava stare vicino a loro. Lei ora parla di mollare. A che distanza bisogna stare dai figli allora?
«In questi decenni di narcisismo dilagante dove i figli sono stati portati come l’argenteria di casa, si è dimenticato che per educarli devi stare nel tuo spazio, lo spazio della titolarità educativa, genitoriale. Non puoi essere un amico né tantomeno un amicone con gli adolescenti. Non si può arrivare a certi vertici iperbolici di confidenza».
Ad esempio?
«Beh, nei bagni delle famiglie italiane si è creata una specie di campo nudisti dove tutti vanno e vengono con la massima naturalezza… Bisogna recuperare l’organizzazione che da un punto di vista educativo permette di costruire le buone abitudini e che con gli adolescenti consente anche di garantire quella libertà che fa la differenza. Gli adolescenti non sono più bambini: il bambino ti sta appresso come un cagnolino, vuole sempre la tua attenzione, ti dice “Mamma cosa facciamo? Mamma mi sto annoiando”…».
E il ragazzo?
«Il ragazzo se ne frega, ti dice “mollami”, cerca di far perdere le sue tracce, lascia la camera in condizioni drammatiche, puzza in modo che tu sia lontano. È da decenni che ci sentiamo ripetere queste formule vuotissime dal punto di vista scientifico per cui bisogna “stare vicino”. Ma che interesse di vicinanza può avere un quindicenne? Ha bisogno dei suoi spazi, non deve sempre sentire il fiato sul collo della mamma: questi sono degli equivoci che stiamo pagando molto cari».
Il rischio però è che lo spazio diventi troppo, e che gli adolescenti ne abusino. Ad esempio isolandosi davanti agli schermi.
«Bisogna ricordare che l’alternativa all’invadenza videodigitale non sono i genitori amici, i genitori animatori, i genitori psicoterapeuti, ma è il gruppo dei coetanei, il gruppo degli adolescenti. Noi abbiamo adesso bambini di dieci anni che sono tornati a fare la festa di compleanno con i nonni: è assurdo. La festa di compleanno si fa con gli amici, i compagni di classe, si invita tutta la classe, si fa una bella confusione, si crea una bella combriccola… L’adolescente finisce con l’isolarsi perché non ha il gruppo, non ha la compagnia, non perché il genitore non gli sta vicino. Questo è un equivoco davvero increscioso, ma molti genitori purtroppo - in qualche modo anche sostenuti da una certa opinione pubblica - preferiscono il ragazzino di 15 anni ritirato in camera sui videogiochi piuttosto di quello che si costruisce un suo gruppo, una sua compagnia. Ma dico senza mezzi termini, da tecnico, che qualsiasi compagnia, anche la più scalcinata, è meglio che restare in camera davanti a uno schermo».
Possiamo dire che ci sia un eccesso di cura nelle famiglie di oggi?
«Non è una opinione mia o di qualche collega pedagogista: è un dato sociologico, sono state fatte ricerche tra i genitori degli anni Sessanta e i genitori del nostro tempo, dimostrando che in tutta l’area occidentale, non solo in Italia, l’accudimento materno è raddoppiato passando da un’ora a due ore al giorno, e l’accudimento, chiamiamolo così, paterno, è addirittura quadruplicato passando da 15 minuti a 59 minuti al giorno. Questi sono dati: non dobbiamo continuare a discutere su questa stupidaggine secondo cui i genitori non sarebbero sufficientemente presenti nella vita dei figli. Al contrario sono troppo presenti e così si stressano, si stressano a tal punto che è partito anche il calo demografico, che non mostra segnali di cedimento».
Che c’entra il calo demografico?
«Il calo demografico dal mio punto di vista è una conseguenza dei miti che si sono addensati sulle teste dei poveri genitori, portati a credere che esista un’incombenza sbagliata, assoluta, che non corrisponde alle esigenze dei bambini, né tantomeno a quelle di ragazzi e ragazze».
Insomma si pensa che un figlio richieda un’attenzione costante, un impegno snervante, cosa che può dissuadere dal mettere al mondo nuovi bambini. Mi pare di capire che secondo lei abbiamo bisogno di una pedagogia della libertà: dobbiamo lasciare i ragazzi più liberi in modo che diventino anche più responsabili.
«Esatto. Non parlo di lasciarli in uno stato selvaggio (anche se i bambini sono un po’ tutti selvaggi). Parlo di un posizionamento educativo che non sia quello della super protezione. Quello di educativo ha davvero pochissimo. Come diceva la Montessori, se il bambino sa già fare una cosa ma la fai tu per comodità, non soltanto sbagli ma crei le condizioni per cui si ammala. Pensiamo al vestire: è logico che un bambino a 5 o 6 anni sia in grado di vestirsi da solo, ma se tu come genitore - per mancanza di tempo - lo vesti perché sei di fretta, chi ne subisce le conseguenze è appunto il piccolo che non può agire la sua autonomia. Il libro che ho scritto è ricco di tecniche. Tra queste, la tecnica del paletto è la più efficace. Si tratta di definire uno spazio di limitazione dentro cui i ragazzi e le ragazze possono avere libertà. Un orario di rientro, la paghetta settimanale, un momento in cui lo smartphone viene depositato prima di andare a dormire…».
Insomma dei confini. Magari ampi, ma che però siano molto chiari, e su cui tenere il punto.
«Esatto. Ad esempio il classico orario di rientro, riguardo al quale ovviamente qualsiasi genitore italiano mantiene una certa elasticità, anche perché è normale con gli adolescenti che hanno un senso della trasgressione innato. Ma sull’orario di rientro non si può fare una discussione: bisogna mettere un limite per forza. Quello che conta è l’atteggiamento pedagogico, che deve essere sempre rispettoso della libertà dei figli come dell’autonomia dei bambini. Servono i paletti, non gli spiegoni… I genitori italiani sono innamorati degli spiegoni psicologistici: “Adesso ti spiego i danni che eventualmente potresti subire in relazione a questa tua ossessione per gli smartphone…”. Tu gli fai lo spiegone, lui continua a usare lo smartphone e non cambia niente. Nel gioco di squadra tra i genitori e i figli si devono mettere dei limiti e dentro questi limiti si deve concedere tutta la libertà che un ragazzo o una ragazza necessariamente vuole avere».
«Evitare il dolore mina l’autostima»
Álvaro Bilbao è neuropsicologo e psicoterapeuta, formatosi al Johns Hopkins Hospital, al Kennedy Krieger Institute di Baltimora e al Royal Hospital for Neurodisability di Londra. Insegna in varie università spagnole e ha pubblicato un bestseller intitolato Il cervello del bambino spiegato ai genitori, pubblicato in Italia da Salani. Per lo stesso editore esce ora Come funziona il cervello di un adolescente. Ed è proprio sull’adolescenza che gli abbiamo chiesto alcune riflessioni.
Cosa succede nel cervello umano quando si entra nell’adolescenza?
«L’adolescenza è una fase di grandi cambiamenti a livello cerebrale. All’inizio dell’adolescenza, durante la pubertà, non ci sono molte modifiche strutturali, ma l’aumento di testosterone ed estrogeni impregna il cervello, modificandone il funzionamento e facendo sì che i ragazzi e le ragazze (di 11 o 12 anni) diventino più nervosi, irritabili e distanti. Sentono che qualcosa sta accadendo dentro di loro, ma non sanno cosa. Un po’ più tardi, il cervello entra in un processo di riorganizzazione, in cui alcune connessioni neuronali si rafforzano mentre altre vengono eliminate per rendere il pensiero più efficiente. In questa fase, l’amigdala, che regola le emozioni, è molto attiva, mentre la corteccia prefrontale, responsabile dell’autocontrollo e del processo decisionale, è ancora in fase di sviluppo. Questo spiega perché gli adolescenti possono essere impulsivi, emotivi e, talvolta, prendere decisioni rischiose. Inoltre, il sistema di ricompensa del cervello è particolarmente sensibile, il che li porta a cercare emozioni intense e la validazione sociale».
Oggi sembra che l’ansia sia uno dei problemi più diffusi tra gli adolescenti occidentali. Secondo lei, perché?
«L’adolescenza è sempre stata una fase in cui possono emergere disturbi mentali come la schizofrenia, il disturbo bipolare o l’ansia. Tuttavia, è vero che oggi assistiamo a un aumento della prevalenza dell’ansia (e di altri disturbi legati alla paura, come il disturbo ossessivo-compulsivo e le fobie) tra gli adolescenti per diverse ragioni. Dopo la pandemia da Covid-19, si pensava che questo incremento fosse dovuto principalmente agli effetti del confinamento. Tuttavia, oggi sappiamo che questa tendenza era già iniziata prima e continua a crescere. Crediamo che sia più legata ad altri fattori. Innanzitutto, viviamo in una società iperconnessa, dove il confronto sui social media può generare insicurezza e pressione costante. Inoltre, i ritmi di vita sono cambiati: i bambini hanno meno tempo per il gioco libero e più pressioni accademiche ed extracurriculari, il che genera stress. Sappiamo da molti anni che lo stress cronico (anche se lieve) porta all’ansia e che l’ansia prolungata nel tempo può sfociare nella depressione. Un altro fattore è la tendenza alla iperprotezione da parte di alcuni genitori, che impedisce agli adolescenti di sviluppare strumenti per affrontare la frustrazione e l’incertezza. Tutto questo, combinato con una maggiore esposizione a informazioni negative e ai cambiamenti ormonali tipici di questa età, contribuisce all’aumento dell’ansia».
Come si può combattere questa ansia?
«Dalla mia esperienza clinica, ci sono tre aspetti fondamentali per ridurre l’ansia negli adolescenti».
Il primo?
«Osservare i fattori scatenanti e fermarsi. Nella maggior parte dei casi, i ragazzi e le ragazze che soffrono di ansia hanno un eccesso di compiti, attività, tempo davanti agli schermi e interazioni sociali. Troppa pressione. La cosa curiosa è che molti genitori cercano una soluzione psicologica o farmacologica che permetta ai figli di mantenere lo stesso ritmo frenetico, invece di fermarsi a riflettere se valga la pena ridurre le pressioni e insegnare all’adolescente a mettere dei limiti allo stress».
Il secondo aspetto?
«Insegnare competenze. In alcuni casi, l’ansia nasce quando l’adolescente non ha le competenze per relazionarsi con gli altri o non sa dire di no. Il modo migliore per aumentare la fiducia non è proteggere eccessivamente i figli con affetto o farmaci, ma insegnare loro competenze che li rendano più forti, un processo che spesso affrontiamo in terapia».
E l’ultimo?
«Sviluppare strategie di coping. L’attività fisica, per esempio, aiuta a regolare lo stress e migliorare l’umore. È anche importante promuovere il contatto faccia a faccia con gli amici e il tempo libero senza schermi. In famiglia, si può lavorare per validare le emozioni dei ragazzi senza iperproteggerli, fornendo strumenti per gestire la frustrazione invece di evitarla. Tecniche come la respirazione profonda e la meditazione possono essere utili, così come favorire abitudini di sonno sane, dato che il riposo ha un impatto diretto sulla regolazione emotiva».
Secondo alcuni, i genitori di oggi sono troppo presenti e tendono a proteggere eccessivamente i figli. È vero? Qual è, secondo lei, la giusta misura?
«La risposta alla prima domanda è facile. Sì, negli ultimi anni si è osservata una tendenza all’iperprotezione. Numerosi studi dell’Università di Gunma, in Giappone, indicano da tempo un aumento della protezione eccessiva nelle società sviluppate. Molti genitori, con le migliori intenzioni, cercano di evitare che i figli soffrano, ma in questo modo possono impedirgli di sviluppare la resilienza necessaria per affrontare le difficoltà. Quando incontro genitori iperprotettivi, spesso dico loro che non possono costruire la loro autostima come adulti e come genitori a spese dell’autostima dei loro figli. I ragazzi devono affrontare i loro problemi».
Veniamo allora alla seconda parte: dove si trova il giusto equilibrio?
«Non è semplice stabilirlo, ma ci sono tre principi che possono aiutare: 1) Non aiutare tuo figlio o tua figlia se non te lo sta chiedendo. 2) Se chiede aiuto, fermati un momento e valuta se realmente non è in grado di fare qualcosa da solo o almeno se ha provato abbastanza. 3) Se un adolescente smette di comunicare, diventa aggressivo in casa, reagisce male ai limiti imposti sulle tecnologie o non ha amici al di fuori del mondo virtuale, è importante intervenire. A volte, i ragazzi e le ragazze non sanno chiedere aiuto perché non si rendono conto di essere intrappolati in una spirale di dipendenza dagli schermi o di disturbi dell’umore. Credo che sia difficile stabilire con certezza la linea che separa la protezione dall’iperprotezione, ma lavorare quotidianamente per avere una buona connessione e una comunicazione aperta con i propri figli è essenziale e può aiutarci a comprendere meglio il loro stato d’animo».
Continua a leggere
Riduci
Una serie Netflix fa luce su crudeltà e solitudine dei ragazzi. La cameretta non li salva da un mondo privo di punti fermi.«I genitori di oggi sbagliano ad accudire troppo i loro figli». Il pedagogista Daniele Novara: «L’eccesso di protezione stressa gli stessi papà e mamma. E spiega il calo demografico. A un quindicenne serve un gruppo di coetanei con cui passare il tempo: è questa l’alternativa ai videogiochi».«Evitare il dolore mina l’autostima». Lo psicoterapeuta Álvaro Bilbao: «Non si deve aiutare un giovane se lui non ce lo chiede o non si è sforzato di risolvere il problema da solo. Spesso si esagera con i compiti e le attività».Lo speciale comprende tre articoli. «Ma lui era in camera sua, vero? Pensavamo che fosse al sicuro no? Che male poteva fare lì dentro?». Le lacrime colano sui volti scavati dei genitori di Jamie, tredicenne inglese accusato di avere ucciso Katie, una sua compagna di scuola. Questa è una delle scene più potenti di Adolescence, serie fenomeno di Netflix creata da Jack Thorne e Stephen Graham (quest’ultimo interpreta anche il padre del ragazzino). È il termine di un lunghissimo piano sequenza di quattro puntate, tecnica cinematografica che da sola basta a fare esplodere l’angoscia. Gli spettatori seguono i protagonisti in una infinita corsa alla ricerca del senso: davvero Jamie ha ucciso? Perché lo avrebbe fatto? Quali segreti agitano la scuola frequentata da questi adolescenti silenziosi e pallidi? Il dramma è che, alla fine di tutto, il senso non si trova, non appare. I due genitori del presunto assassino si siedono sfibrati nella loro stanza e si processano, si chiedono se abbiano sbagliato, e dove. Ma non c’è risposta: rimane solo il rapido susseguirsi degli eventi - una cascata, una frana - in un mondo che appare, appunto, insensato. «Era nella sua camera, pensavamo che fosse al sicuro». Ma è proprio dalla camera, dallo schermo del computer di Jamie che origina il male. È nei cristalli liquidi degli smartphone degli studenti suoi coetanei che si diffonde la pestilenza culminata in omicidio. Gli studenti non parlano ma chattano, si fanno foto, pubblicano, costruiscono i loro paradisi e soprattutto inferni su misura. Le ragazzine - scafate, più vicine a parvenze d’adulti - non si fanno scrupoli a bullizzare i maschi. E questi talvolta si rinchiudono nelle loro bolle, nelle loro stanze reali e virtuali. Alcuni ottengono la lettera scarlatta di Incel, celibi involontari, considerati troppo brutti per piacere alle donne, incapaci di creare e gestire una relazione, privi di legami veri e profondi, spesso sepolti nelle loro tane. Emergono da queste tenebre le figure tipiche della decadenza: la femmina fatale, percepita quale minaccia dal maschio fragile e spaesato. E tutt’intorno una terra desolata, in cui la violenza repressa esplode, l’odio aleggia ovunque. La forza maschile che si tenta di occultare marcisce e si fa velenosa, ottunde le menti. L’odio febbrile invade le vene, si scatena contro le ragazzine che paiono inaccessibili: l’80% delle donne desidera il 20% degli uomini, massima fatale, e mortifera. No, nella camera questi ragazzi non sono al sicuro anche se i loro genitori lo pensano. Lì dentro, nel chiuso delle mura, stanno gli schermi, e dentro gli schermi sono sepolti mostri. Adolescence va vista mentre si legge Amygdalatropolis, allucinante romanzo di BR Yeager, autore americano. Lì il protagonista si chiama semplicemente /1404er/, è il giovane uomo utente di un forum online in cui tutti hanno lo stesso nome e si fanno orda impersonale. Come ben sintetizza la nota delle edizioni Nero che pubblicano il libro in Italia, /1404er/ «abita un mondo digitale ermetico popolato da altre entità senza forma che condividono con lui lo stesso nome. Le sue interazioni ruotano esclusivamente attorno alla condivisione e alla discussione (e a volte alla creazione) dei contenuti più volgari, violenti, ripugnanti e indifendibili che si trovano nelle zone d’ombra extra-legali del cosiddetto dark web». Di nuovo gli Incel, di nuovo i reclusi che esalano odio, disperante metafora di una modernità che rifiuta la virilità, la demonizza, la dipinge come tossica e malata e in effetti riesce poi a renderla tale. Jamie ha tredici anni, /1404er/ è più grande e ha persino un lavoro che gli consente di seppellirsi vivo in casa, in realtà terrorizzato dall’esterno. Sono uno l’estremo dell’altro. I genitori sono letteralmente tagliati fuori. Gli adulti di Adolescence non hanno le chiavi per entrare nell’isola che non c’è digitale in cui si aggirano i loro figli sperduti. In Amygdalatropolis i genitori sono costretti fuori dalla porta, alternano rabbia impotente a sottomissione compiacente. Sembrano colpevoli, ma non lo sono del tutto. Sono vittime anche loro di una realtà sfuggente e troppo patologica per essere ricostruita. Un paradiso artificiale per ragazzini abituati alla violenza (mediata per lo più) e incapaci di tutto tranne che di sopraffare il più debole. Questi genitori tentano di capire, di interessarsi, di essere presenti, accudenti. Ma comunque falliscono: i frutti delle loro attenzioni sono marci. E allora si interrogano, si processano, cercano un senso. Talvolta si piegano e poi si spezzano. La drammatica consapevolezza rimane, in ogni caso: nella terra desolata non c’è senso alla vita, e dunque non c’è redenzione possibile, se non quando è troppo tardi. C’è però una via di uscita, dopo tutto. In Adolescence, l’indicazione sta forse in due momenti molto commoventi della serie. Intanto nella relazione che il poliziotto che indaga sull’omicidio scolastico inizia faticosamente a costruire con il figlio. Un rapporto non tra amici, non tra pari. Ma fisico, concreto, fatto di comunanza e di azioni che si svolgono nel mondo esterno, reale. Ad esempio un pranzo a base di patatine fritte da condividere. Una piccola gita in automobile. Lampi minimi di speranza, e chissà se bastano davvero. Però sono qualcosa. Il secondo momento, fondamentale, è quello in cui tanto il presunto assassino quanto i suoi genitori prendono atto dei propri errori: si aprono e confessano prima di tutto a sé stessi la propria fallibilità. Ecco allora che l’avvicinamento all’altro e, insieme, l’assunzione di responsabilità individuale possono diventare il fulcro del cambiamento. O per lo meno una speranza. Sono, queste, le fondamenta della virilità positiva, della forza buona capace di salvare, la quale di certo non appartiene ai maschi rabbiosi che si agitano online. In qualche modo, Adolescence è il contrario de La strada di Cormac McCarthy e ne costituisce in qualche modo l’antidoto. Anche lì ci sono un padre, un figlio e un mondo desolato, devastato dalla catastrofe. I due sono incerti, spaventati. Ma avanzano comunque, si sostengono a vicenda e stanno vicini, animati da una speranza che viene da una forza trascendente. Dalla convinzione, forse folle, di essere i portatori del fuoco, coloro che devono resistere e comportarsi diversamente dagli altri poiché si riconoscono in un codice superiore. Codice che i più hanno dimenticato, certo, ma che non per questo è meno valido. Mentre tutto affonda, in un mondo distrutto, non resta che soccombere o portare il fuoco.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/isolati-e-violenti-ladolescenza-horror-dellera-digitale-2671385692.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-genitori-di-oggi-sbagliano-ad-accudire-troppo-i-loro-figli" data-post-id="2671385692" data-published-at="1742768459" data-use-pagination="False"> «I genitori di oggi sbagliano ad accudire troppo i loro figli» Daniele Novara, tra i più noti pedagogisti italiani, è fondatore e direttore del centro psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti di Piacenza. Il suo nuovo libro, appena uscito per Rizzoli, si intitola Mollami! Educare i figli adolescenti e trovare la giusta distanza per farli crescere. Per anni ci siamo ripetuti che si dovevano curare i figli, che bisognava stare vicino a loro. Lei ora parla di mollare. A che distanza bisogna stare dai figli allora? «In questi decenni di narcisismo dilagante dove i figli sono stati portati come l’argenteria di casa, si è dimenticato che per educarli devi stare nel tuo spazio, lo spazio della titolarità educativa, genitoriale. Non puoi essere un amico né tantomeno un amicone con gli adolescenti. Non si può arrivare a certi vertici iperbolici di confidenza». Ad esempio? «Beh, nei bagni delle famiglie italiane si è creata una specie di campo nudisti dove tutti vanno e vengono con la massima naturalezza… Bisogna recuperare l’organizzazione che da un punto di vista educativo permette di costruire le buone abitudini e che con gli adolescenti consente anche di garantire quella libertà che fa la differenza. Gli adolescenti non sono più bambini: il bambino ti sta appresso come un cagnolino, vuole sempre la tua attenzione, ti dice “Mamma cosa facciamo? Mamma mi sto annoiando”…». E il ragazzo? «Il ragazzo se ne frega, ti dice “mollami”, cerca di far perdere le sue tracce, lascia la camera in condizioni drammatiche, puzza in modo che tu sia lontano. È da decenni che ci sentiamo ripetere queste formule vuotissime dal punto di vista scientifico per cui bisogna “stare vicino”. Ma che interesse di vicinanza può avere un quindicenne? Ha bisogno dei suoi spazi, non deve sempre sentire il fiato sul collo della mamma: questi sono degli equivoci che stiamo pagando molto cari». Il rischio però è che lo spazio diventi troppo, e che gli adolescenti ne abusino. Ad esempio isolandosi davanti agli schermi. «Bisogna ricordare che l’alternativa all’invadenza videodigitale non sono i genitori amici, i genitori animatori, i genitori psicoterapeuti, ma è il gruppo dei coetanei, il gruppo degli adolescenti. Noi abbiamo adesso bambini di dieci anni che sono tornati a fare la festa di compleanno con i nonni: è assurdo. La festa di compleanno si fa con gli amici, i compagni di classe, si invita tutta la classe, si fa una bella confusione, si crea una bella combriccola… L’adolescente finisce con l’isolarsi perché non ha il gruppo, non ha la compagnia, non perché il genitore non gli sta vicino. Questo è un equivoco davvero increscioso, ma molti genitori purtroppo - in qualche modo anche sostenuti da una certa opinione pubblica - preferiscono il ragazzino di 15 anni ritirato in camera sui videogiochi piuttosto di quello che si costruisce un suo gruppo, una sua compagnia. Ma dico senza mezzi termini, da tecnico, che qualsiasi compagnia, anche la più scalcinata, è meglio che restare in camera davanti a uno schermo». Possiamo dire che ci sia un eccesso di cura nelle famiglie di oggi? «Non è una opinione mia o di qualche collega pedagogista: è un dato sociologico, sono state fatte ricerche tra i genitori degli anni Sessanta e i genitori del nostro tempo, dimostrando che in tutta l’area occidentale, non solo in Italia, l’accudimento materno è raddoppiato passando da un’ora a due ore al giorno, e l’accudimento, chiamiamolo così, paterno, è addirittura quadruplicato passando da 15 minuti a 59 minuti al giorno. Questi sono dati: non dobbiamo continuare a discutere su questa stupidaggine secondo cui i genitori non sarebbero sufficientemente presenti nella vita dei figli. Al contrario sono troppo presenti e così si stressano, si stressano a tal punto che è partito anche il calo demografico, che non mostra segnali di cedimento». Che c’entra il calo demografico? «Il calo demografico dal mio punto di vista è una conseguenza dei miti che si sono addensati sulle teste dei poveri genitori, portati a credere che esista un’incombenza sbagliata, assoluta, che non corrisponde alle esigenze dei bambini, né tantomeno a quelle di ragazzi e ragazze». Insomma si pensa che un figlio richieda un’attenzione costante, un impegno snervante, cosa che può dissuadere dal mettere al mondo nuovi bambini. Mi pare di capire che secondo lei abbiamo bisogno di una pedagogia della libertà: dobbiamo lasciare i ragazzi più liberi in modo che diventino anche più responsabili. «Esatto. Non parlo di lasciarli in uno stato selvaggio (anche se i bambini sono un po’ tutti selvaggi). Parlo di un posizionamento educativo che non sia quello della super protezione. Quello di educativo ha davvero pochissimo. Come diceva la Montessori, se il bambino sa già fare una cosa ma la fai tu per comodità, non soltanto sbagli ma crei le condizioni per cui si ammala. Pensiamo al vestire: è logico che un bambino a 5 o 6 anni sia in grado di vestirsi da solo, ma se tu come genitore - per mancanza di tempo - lo vesti perché sei di fretta, chi ne subisce le conseguenze è appunto il piccolo che non può agire la sua autonomia. Il libro che ho scritto è ricco di tecniche. Tra queste, la tecnica del paletto è la più efficace. Si tratta di definire uno spazio di limitazione dentro cui i ragazzi e le ragazze possono avere libertà. Un orario di rientro, la paghetta settimanale, un momento in cui lo smartphone viene depositato prima di andare a dormire…». Insomma dei confini. Magari ampi, ma che però siano molto chiari, e su cui tenere il punto. «Esatto. Ad esempio il classico orario di rientro, riguardo al quale ovviamente qualsiasi genitore italiano mantiene una certa elasticità, anche perché è normale con gli adolescenti che hanno un senso della trasgressione innato. Ma sull’orario di rientro non si può fare una discussione: bisogna mettere un limite per forza. Quello che conta è l’atteggiamento pedagogico, che deve essere sempre rispettoso della libertà dei figli come dell’autonomia dei bambini. Servono i paletti, non gli spiegoni… I genitori italiani sono innamorati degli spiegoni psicologistici: “Adesso ti spiego i danni che eventualmente potresti subire in relazione a questa tua ossessione per gli smartphone…”. Tu gli fai lo spiegone, lui continua a usare lo smartphone e non cambia niente. Nel gioco di squadra tra i genitori e i figli si devono mettere dei limiti e dentro questi limiti si deve concedere tutta la libertà che un ragazzo o una ragazza necessariamente vuole avere». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/isolati-e-violenti-ladolescenza-horror-dellera-digitale-2671385692.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="evitare-il-dolore-mina-lautostima" data-post-id="2671385692" data-published-at="1742768459" data-use-pagination="False"> «Evitare il dolore mina l’autostima» Álvaro Bilbao è neuropsicologo e psicoterapeuta, formatosi al Johns Hopkins Hospital, al Kennedy Krieger Institute di Baltimora e al Royal Hospital for Neurodisability di Londra. Insegna in varie università spagnole e ha pubblicato un bestseller intitolato Il cervello del bambino spiegato ai genitori, pubblicato in Italia da Salani. Per lo stesso editore esce ora Come funziona il cervello di un adolescente. Ed è proprio sull’adolescenza che gli abbiamo chiesto alcune riflessioni. Cosa succede nel cervello umano quando si entra nell’adolescenza? «L’adolescenza è una fase di grandi cambiamenti a livello cerebrale. All’inizio dell’adolescenza, durante la pubertà, non ci sono molte modifiche strutturali, ma l’aumento di testosterone ed estrogeni impregna il cervello, modificandone il funzionamento e facendo sì che i ragazzi e le ragazze (di 11 o 12 anni) diventino più nervosi, irritabili e distanti. Sentono che qualcosa sta accadendo dentro di loro, ma non sanno cosa. Un po’ più tardi, il cervello entra in un processo di riorganizzazione, in cui alcune connessioni neuronali si rafforzano mentre altre vengono eliminate per rendere il pensiero più efficiente. In questa fase, l’amigdala, che regola le emozioni, è molto attiva, mentre la corteccia prefrontale, responsabile dell’autocontrollo e del processo decisionale, è ancora in fase di sviluppo. Questo spiega perché gli adolescenti possono essere impulsivi, emotivi e, talvolta, prendere decisioni rischiose. Inoltre, il sistema di ricompensa del cervello è particolarmente sensibile, il che li porta a cercare emozioni intense e la validazione sociale». Oggi sembra che l’ansia sia uno dei problemi più diffusi tra gli adolescenti occidentali. Secondo lei, perché? «L’adolescenza è sempre stata una fase in cui possono emergere disturbi mentali come la schizofrenia, il disturbo bipolare o l’ansia. Tuttavia, è vero che oggi assistiamo a un aumento della prevalenza dell’ansia (e di altri disturbi legati alla paura, come il disturbo ossessivo-compulsivo e le fobie) tra gli adolescenti per diverse ragioni. Dopo la pandemia da Covid-19, si pensava che questo incremento fosse dovuto principalmente agli effetti del confinamento. Tuttavia, oggi sappiamo che questa tendenza era già iniziata prima e continua a crescere. Crediamo che sia più legata ad altri fattori. Innanzitutto, viviamo in una società iperconnessa, dove il confronto sui social media può generare insicurezza e pressione costante. Inoltre, i ritmi di vita sono cambiati: i bambini hanno meno tempo per il gioco libero e più pressioni accademiche ed extracurriculari, il che genera stress. Sappiamo da molti anni che lo stress cronico (anche se lieve) porta all’ansia e che l’ansia prolungata nel tempo può sfociare nella depressione. Un altro fattore è la tendenza alla iperprotezione da parte di alcuni genitori, che impedisce agli adolescenti di sviluppare strumenti per affrontare la frustrazione e l’incertezza. Tutto questo, combinato con una maggiore esposizione a informazioni negative e ai cambiamenti ormonali tipici di questa età, contribuisce all’aumento dell’ansia». Come si può combattere questa ansia? «Dalla mia esperienza clinica, ci sono tre aspetti fondamentali per ridurre l’ansia negli adolescenti». Il primo? «Osservare i fattori scatenanti e fermarsi. Nella maggior parte dei casi, i ragazzi e le ragazze che soffrono di ansia hanno un eccesso di compiti, attività, tempo davanti agli schermi e interazioni sociali. Troppa pressione. La cosa curiosa è che molti genitori cercano una soluzione psicologica o farmacologica che permetta ai figli di mantenere lo stesso ritmo frenetico, invece di fermarsi a riflettere se valga la pena ridurre le pressioni e insegnare all’adolescente a mettere dei limiti allo stress». Il secondo aspetto? «Insegnare competenze. In alcuni casi, l’ansia nasce quando l’adolescente non ha le competenze per relazionarsi con gli altri o non sa dire di no. Il modo migliore per aumentare la fiducia non è proteggere eccessivamente i figli con affetto o farmaci, ma insegnare loro competenze che li rendano più forti, un processo che spesso affrontiamo in terapia». E l’ultimo? «Sviluppare strategie di coping. L’attività fisica, per esempio, aiuta a regolare lo stress e migliorare l’umore. È anche importante promuovere il contatto faccia a faccia con gli amici e il tempo libero senza schermi. In famiglia, si può lavorare per validare le emozioni dei ragazzi senza iperproteggerli, fornendo strumenti per gestire la frustrazione invece di evitarla. Tecniche come la respirazione profonda e la meditazione possono essere utili, così come favorire abitudini di sonno sane, dato che il riposo ha un impatto diretto sulla regolazione emotiva». Secondo alcuni, i genitori di oggi sono troppo presenti e tendono a proteggere eccessivamente i figli. È vero? Qual è, secondo lei, la giusta misura? «La risposta alla prima domanda è facile. Sì, negli ultimi anni si è osservata una tendenza all’iperprotezione. Numerosi studi dell’Università di Gunma, in Giappone, indicano da tempo un aumento della protezione eccessiva nelle società sviluppate. Molti genitori, con le migliori intenzioni, cercano di evitare che i figli soffrano, ma in questo modo possono impedirgli di sviluppare la resilienza necessaria per affrontare le difficoltà. Quando incontro genitori iperprotettivi, spesso dico loro che non possono costruire la loro autostima come adulti e come genitori a spese dell’autostima dei loro figli. I ragazzi devono affrontare i loro problemi». Veniamo allora alla seconda parte: dove si trova il giusto equilibrio? «Non è semplice stabilirlo, ma ci sono tre principi che possono aiutare: 1) Non aiutare tuo figlio o tua figlia se non te lo sta chiedendo. 2) Se chiede aiuto, fermati un momento e valuta se realmente non è in grado di fare qualcosa da solo o almeno se ha provato abbastanza. 3) Se un adolescente smette di comunicare, diventa aggressivo in casa, reagisce male ai limiti imposti sulle tecnologie o non ha amici al di fuori del mondo virtuale, è importante intervenire. A volte, i ragazzi e le ragazze non sanno chiedere aiuto perché non si rendono conto di essere intrappolati in una spirale di dipendenza dagli schermi o di disturbi dell’umore. Credo che sia difficile stabilire con certezza la linea che separa la protezione dall’iperprotezione, ma lavorare quotidianamente per avere una buona connessione e una comunicazione aperta con i propri figli è essenziale e può aiutarci a comprendere meglio il loro stato d’animo».
Maurizio Landini (Ansa)
Nessun sindacalista lo ammetterà mai, ma c’è un dato che più di ogni altro fa da spartiacque tra uno sciopero riuscito e un flop. Una percentuale minima al di sotto della quale è davvero difficile cantare vittoria: l’adesione almeno degli iscritti. Insomma, se sostieni, come fa ripetutamente Maurizio Landini di essere il portavoce di un sedicente malcontento montante che sarebbe addirittura maggioranza nel Paese e ti intesti una battaglia in solitaria lasciando alle spalle Cisl e Uil e poi non ti seguono neanche i tuoi, c’è un problema.
E il problema, numeri alla mano, esiste. Ed è pure grosso. Basta vedere le percentuali dei lavoratori che hanno deciso di spalleggiare l’ennesima rivolta politica e tutta improntata ad attaccare il governo Meloni del leader della Cgil. Innanzitutto nel pubblico impiego. Tra gli statali (scuola, sanità, dipendenti di ministeri, enti locali ecc.) ci sono circa 2,7 milioni di dipendenti contrattualizzati. E tra questi il 12% ha in tasca la tessera della Cgil. Bene, a fine giornata i dati ufficiali parlavano di circa il 4,4% complessivo di adesione all’ennesimo logoro show di Landini. Messa in soldoni: ormai anche la Cgil si è stancata del suo segretario che combatte una battaglia personale e quasi sempre sulle spalle dei lavoratori.
Che in corso d’Italia monti il malcontento, La Verità lo evidenzia da un po’ di tempo, ma il dato degli impiegati dello Stato è particolarmente significativo. Perché è intorno agli statali che l’ex leader della Fiom ha combattuto e poi perso la sua battaglia più significativa. Per mesi e mesi, infatti, spalleggiato dalla Uil e dall’ex alleato Pierpaolo Bombardieri, Landini ha bloccato il rinnovo dei contratti della Pa.
Circa 20 miliardi, già stanziati dal governo, fermi. E aumenti tra i 150 e i 170 euro lordi al mese, con istituti di favore come la settimana cortissima e il ticket anche in smart working, preclusi ai lavoratori per l’opposizione a prescindere del compagno Maurizio. Certo, lui l’ha spiegata come una lotta di giustizia sociale che aveva l’obiettivo di recuperare tutta l’inflazione del periodo (2022-2024). Ma si trattava di un bluff. Perché la Cgil con governi di un colore diverso ha rinnovato contratti decisamente meno convenienti e che comunque non coprivano il carovita.
Insomma, quella sugli accordi della pubblica amministrazione è diventata l’ultima frontiera dell’opposizione a prescindere. E su quella battaglia Landini si è schiantato. Prima nel merito, perché alla fine la Uil l’ha mollato e i contratti sono stati firmati. E poi sul campo: perché se almeno la metà degli iscritti diserta sciopero (e siamo benevoli), vuol dire che i tuoi stanno bocciando una linea che porta nelle piazza, sulle barricate e sui giornali, ma lascia i lavoratori con le tasche sempre più vuote.
«Il dato», spiega alla Verità il ministro della Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo, «certifica l’ennesimo flop degli scioperi generali, un fallimento che finisce tutto sulle spalle della Cgil che nel pubblico impiego può contare su circa 300.000 iscritti. Pur ammettendo che tutti gli aderenti siano tesserati di Landini e che le proiezioni del pomeriggio vengano confermate, la bocciatura interna per la linea del segretario sarebbe evidente. E, del resto, questo disagio era palese anche sul tavolo delle trattative per il rinnovo del contratto. È arrivato il momento che anche all’interno del sindacato si apra una riflessione sincera».
E se tra gli statali la sconfitta è stata cocente, non meglio è andata nel privato. Dove, però, i dati sono più frammentati. Secondo le rilevazioni degli altri sindacati, ci sono alcune situazioni clamorose e altri meno, ma sempre di batoste si tratta.
Appartengono al primo caso le adesioni ferme a quota 1% nei cantieri delle grandi opere: dal Brennero fino al Terzo valico e alla Tav. Si risale al 5% negli stabilimenti di produzione e lavorazione di cemento, legno e laterizi, ma in generale la partecipazione nell’edilizia è stata bassissima.
Come nell’agroalimentare, dove, se si fa eccezioni per la rossa Emilia-Romagna (ai reparti produttivi della Granarolo si è arrivati a sfiorare il 50%), i risultati nelle piccole e medie imprese sono quasi tutti sotto il 5%. La media tra le aziende elettriche è del 5%, nelle Poste siamo fermi al 2,5% e nelle banche si sfiora l’1%. Leggermente meglio nel terziario e nel commercio (dove viene toccato il 10%), così come si contano sulle punte delle dita i siti delle realtà industriali in doppia cifra (Ex Ilva a Novi, Marcegaglia di Dusino San Michele in Piemonte e alcuni siti di Leonardo).
Insomma, al balletto delle cifre nelle manifestazioni siamo abituati e che ci siano delle enormi differenze numeriche tra promotori dello sciopero e controparte sta nelle regole del gioco, eppure si fa davvero fatica a capire da dove il sindacato rosso abbia tirato fuori il dato del 68% delle adesioni. Se 7 lavoratori su 10 si fermano, l’Italia si blocca. Non solo i trasporti, ma tutto il sistema finisce in una sorta di pericoloso stand by collettivo. Nulla a che vedere con quello che è successo sul territorio che ieri ha subito qualche prevedibile disagio da effetto-annuncio, ma poco più. Ma, del resto, nel Paese immaginario che sta raccontando Landini può succedere questo e altro.
Landini straparla di regime e agita lo sciopero infinito
«Fanno bene ad avere qualche timore, avere qualche paura, perché non ci fermano. Non so come dirlo, non ci fermano e, siccome siamo convinti di rappresentare la maggioranza del Paese, andremo avanti fino a quando questa battaglia l’abbiamo vinta». È stato questo il grido di battaglia, ieri, del segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, a Firenze dove ha partecipato al corteo nel giorno dello sciopero generale contro la legge di bilancio, salari bassi, precarietà e caro-vita.
Una protesta «per cambiare la manovra 2026, considerata del tutto inadeguata a risolvere i problemi del Paese, malgrado le modifiche appena approvate, per sostenere investimenti in sanità, istruzione, servizi pubblici e politiche industriali, per fermare l’innalzamento dell’età pensionabile, per contrastare la precarietà». Insomma, i temi sul tavolo di ogni governo degli ultimi 30 anni, basti pensare alla sanità da sempre gestita dalla sinistra da Rosy Bondi in poi, ma che, per Landini e sinistra, sembrano esplosi con l’arrivo del governo Meloni. E, ignorando totalmente i dati dell’occupazione che cresce in maniera costante, arriva a sostenere che «La precarietà non è un problema dei giovani: se vogliamo combattere e contrastare la precarietà, sono quelli che non sono precari che, innanzitutto, si devono battere e scioperare per cancellare la precarietà. Questa è la solidarietà, questo è il sindacato».
«Quando ho lavorato», ha ricordato Landini, «io la precarietà non l’ho conosciuta. E vorrei che fosse chiaro, non è merito mio, eh, io non avevo fatto niente, ero andato semplicemente a lavorare. Ma mi sono trovato dei diritti, perché quelli prima di me, che quei diritti lì non ce ne avevano, si erano battuti per ottenerli. Non per loro, ma per tutti. Tre mesi dopo che ero assunto come apprendista, ho potuto operare e partecipare a una manifestazione senza essere licenziato. Non m’hanno fatto prove del carrello», ha detto riferendosi ai tre lavoratori della catena Pam allontanati dopo un controllo a sorpresa che ha simulato un furto. «Dobbiamo far parlare il Paese reale, perché dobbiamo raccontare quel che succede: qui siamo, ormai, a un regime, ci raccontano un Paese che non c’è, ci raccontano una quantità di balle, che tutto va bene, tutto sta funzionando. Non è così».
Il leader della Cgil ha, poi, sottolineato che oggi c’è «un obiettivo esplicito della politica e del governo: mettere in discussione l’esistenza stessa del sindacato confederale come soggetto che ha diritto di negoziare alla pari col governo». Al segretario che un anno fa voleva «rivoltare il Paese come un guanto», lo sciopero politico di ieri gli è comunque costato la mancata unità sindacale con Cisl, Uil e Ugl ormai fuori sintonia. Landini ha chiarito che «il diritto di sciopero è un diritto costituzionale e non accetteremo alcun tentativo di metterlo in discussione o di limitarlo. Oggi siamo in piazza non contro altri lavoratori o altri sindacati, ma per estendere questi diritti a tutti. Quando un governo prova a delegittimare chi protesta o a ridurre gli spazi di partecipazione democratica, significa che non vuole ascoltare il disagio reale che attraversa il Paese. Lo sciopero è per cambiare politiche sbagliate. E la grande partecipazione che vediamo oggi dimostra che c’è un Paese che chiede un cambio di rotta».
«Il Paese non è più disponibile a un’altra legge di bilancio di austerità e di tagli», ha affermato il leader di Avs, Nicola Fratoianni, presente alla manifestazione con Angelo Bonelli. Sul palco in piazza del Carmine ha trovato posto anche la protesta dei giornalisti de La Stampa e Repubblica, in sciopero dopo l’annuncio di Exor della cessione del gruppo editoriale Gedi al magnate greco Theodore Kyriakou. Mai così in prima fila nella solidarietà ad altre crisi di giornali meno «amici», Landini ha spiegato il perché: «Pensiamo che quello che sta succedendo sia un tentativo esplicito di mettere in discussione la libertà di stampa e la possibilità concreta di proseguire e di fare serie politiche industriali. Mi sembra evidente quello che sta succedendo: abbiamo imprese e imprenditori che, dopo aver fatto i profitti, chiudono le imprese, se ne vogliono andare dal nostro Paese per usare i soldi e quella ricchezza che è stata prodotta da chi lavora, da altre parti. Ecco, quelli che fanno i patrioti dove sono? Stanno difendendo chi? Difendono quelli che pagano le tasse che tengono in piedi questo Paese o difendono quelli che chiudono le aziende che investono da un’altra parte?». C’è voluta la vendita di Repubblica perché Landini attaccasse Elkann visto che dalla nascita di Stellantis, nel gennaio 2021, l’azienda ha licenziato solo in Italia attraverso esodi incentivati 7.500 lavoratori. Del restom lo ha detto chiaramente Carlo Calenda di Azione: «Da quando la Repubblica è stata comprata da Elkann, Fiom e Cgil hanno smesso di dare battaglia che prima facevano con Sergio Marchionne quando la produzione aumentava, adesso che è crollata non li senti più dire nulla».
Intanto ieri Landini non ha nascosto la sua soddisfazione per la risposta allo sciopero, «le piazze si sono riempite e le fabbriche svuotate», rinfocolando la polemica a distanza con il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, che aveva definito «irresponsabile» bloccare il Paese. «Noi stiamo facendo il nostro mestiere, quello che non fa Salvini», la replica del segretario della Cgil. Il vicepremier leghista ieri ha visitato la centrale operativa delle Ferrovie dello Stato per verificare le ricadute dello sciopero, ed ha definito «incoraggianti» i dati sull’adesione, «con disagi limitati» dovuti soprattutto all’effetto «annuncio».
Continua a leggere
Riduci
John Elkann (Getty Images)
Eppure, mentre assiste impassibile alla disfatta dell’industria automobilistica italiana, la sinistra si agita per la vendita di Gedi, ovvero di ciò che resta del gruppo editoriale che un tempo faceva capo alla famiglia De Benedetti. Nel corso degli anni, dopo aver comprato dai figli dell’Ingegnere decine di testate, tra cui Repubblica, l’Espresso e un pacchetto di giornali locali, Elkann ha provveduto a smembrare e cedere quasi tutto. Venduto lo storico settimanale che all’inizio dava il nome al gruppo e il cui titolo era quotato in Borsa. Via il Secolo XIX, quotidiano con forti radici in tutta la Liguria. Passati di mano il Tirreno a Livorno, la Nuova Sardegna a Sassari, il Piccolo a Udine, il Messaggero Veneto a Pordenone. Mollati a imprenditori locali la Gazzetta di Mantova e pure quella di Reggio Emilia e Modena, la Nuova Ferrara, la Provincia Pavese, il Mattino di Padova, la Tribuna di Treviso, la Nuova di Venezia e perfino la Sentinella del Canavese, tra Ivrea e Val d’Aosta. Insomma, un impero di carta fatto a pezzi minuti, che alla fine è rimasto con sole due testate, ovvero Repubblica (con propaggini come Huffington Post, Limes e National Geographic) e La Stampa, oltre a tre radio, la più importante delle quali è Radio Deejay. I giornali ancora nelle mani del nipote dell’Avvocato sono un buco nero, anzi rosso, di perdite. Dopo svalutazioni da centinaia di milioni, continuano a perdere soldi, oltre che copie. Le sole soddisfazioni arrivano dalle emittenti: per il resto solo dolori e niente gioie.
Si sapeva che Elkann volesse disfarsi di tutto, anche perché vorrebbe disfarsi pure degli stabilimenti e trasferirsi felice a Parigi o in America, dove peraltro studiano i figli. Si sapeva anche che il suo interesse nei confronti dei giornali fosse pari a zero. La Stampa se l’era ritrovata sulle spalle insieme con una montagna di miliardi, ma l’amore per la testata non era proprio fortissimo. Repubblica e il resto se li era comprati all’improvviso dai De Benedetti per fare quello che De Benedetti, Carlo, aveva fatto per anni benissimo, ossia accreditarsi con la politica. I giornali della sinistra dovevano coprire la ritirata dall’Italia, l’addio all’industria automobilistica. E forse sono serviti a limitare le polemiche, visto che Landini a lungo ha concesso interviste a Repubblica e Stampa senza mai lamentarsi troppo di quello che stava accadendo nelle fabbriche del gruppo.
Certo, fa un po’ impressione vedere la Bibbia di generazioni di compagni, che dopo aver soppiantato perfino l’Unità viene venduta come se fosse una Magneti Marelli qualsiasi. Una cessione nel cinquantesimo esatto della fondazione, per di più a un imprenditore straniero che pare essere in affari con quel «principe rinascimentale» (copyright Renzi) di Bin Salman, uno che i giornalisti di solito li fa a pezzi. Ma soprattutto, una vendita contro cui sindacato e sinistra chiedono l’intervento di quella Giorgia Meloni che fino a ieri era considerata una minaccia per la libertà di stampa. Tuttavia, impressiona di più la levata di scudi della sinistra per una Casta di colleghi che a lungo ha guardato con sufficienza il mondo, ritenendosi intoccabile. Poi qualcuno si chiede perché gli operai non votino più né il Pd né i cespugli che gli ruotano attorno, mentre alla Cgil siano rimasti solo i pensionati.
Continua a leggere
Riduci
Elsa Fornero (Ansa)
Bisogna avvertire i giovani italiani: guardatevi dalle previsioni di questa signora. È Elsa Fornero, che ha una specie di ossessione per Matteo Salvini - le rimprovera una riforma delle pensioni tanto austera quanto inefficace - ma assi considerata da Mario Monti. Fu ministro del Lavoro in quel governo che tra 2011 e 2013 ha segnato tutti i record negativi degli ultimi trenta anni. È rimasta nell’immaginario di molti perché, mentre di fatto aboliva le pensioni, si è commossa. Sottofondo musicale: il coccodrillo come fa, pensando alle lacrime. La pensionata Elsa Fornero, già docente d’economia in quel di Torino, benissimo introdotta nei salotti pingui della «rive gauche» del Po, è il grillo parlante de La 7. Tutti i talk della Cairo production - portafoglio a destra e audience a sinistra - la venerano come l’oracolo di Delfi.
Ma anche alla Stampa non scherzano. Ieri le hanno offerto una pagina intera per dire: «Serve un piano che salvi il nostro Paese dal declino, la situazione è drammatica: c’è un grande paradosso perché, se i giovani sono meno, dovremmo investire su di loro perché si occuperanno degli anziani». E come si fa a investire su questi giovani che lei, con la sua riforma che ha alzato l’età pensionabile, ha lasciato per strada? Nell’unico modo che Elsa Fornero conosce: tartassare gli italiani. Nel foglio torinese dismesso da John Elkann remunerato sulla via del Partenone, si esercitano pensose signore dei numeri che mai se la pigliano però col padrone di Stellantis. Giorni fa la professoressa Veronica De Romanis, coniugata Bini Smaghi cioè Société générale e soprannominata madame Mes, ha sostenuto che l’Ue è meglio degli Usa, fornendo un profluvio di cifre. Se n’è scodata una: il Pil degli americani è 75.000 dollari pro capite a parità di potere di acquisto, quello degli europei è 38.000 dollari. Vedete un po’ voi.
Ma anche Elsa Fornero con i numeri s’impappina. In presa diretta, nostra signora della previdenza sgrana un rosario di nefandezze imputabili al centrodestra: i giovani hanno lavoro precario e malpagato, c’è un abbandono scolastico intollerabile (anche perché paghiamo poco gli insegnanti) e per occuparsi davvero del Paese serve una sorta di Pnrr dedicato ai giovani, per spingere la natalità, con una classe politica che non guardi all’oggi, ma sia proiettata nel medio termine. L’intervistatrice Sara Tirrito, adorante, osa domandarle: ma come si fa? Ecco dal campionario di Elsa delle lacrime e sangue uscire le tasse: 3,1 miliardi si trovano con nuove imposte sugli affitti, 3,5 miliardi di maggiori entrate vengono trasformando la flat tax per i giovani che svolgono lavoro autonomo in tassazione progressiva, altri miliardi vengono rimodulando (al rialzo) l’Iva sugli acquisti on-line. E poi tassa di successione per finanziare un piano scuola, per consentire ai giovani di trovare lavoro non precario e ben pagato.
La professoressa non si accorge delle sue contraddizioni. Dice: i giovani devono badare agli anziani che, però, devono pagare in anticipo la tassa di successione; i ragazzi vanno impiegati in lavori ad alta qualificazione così non emigrano, ma lei vuole stangarli subito con l’imposta progressiva togliendo la flat tax. Aggiunge che che devono farsi una vita autonoma, ma con le tasse sugli affitti manda le locazioni fuori mercato. Però se queste contraddizioni si sciorinano sospirando o quasi piangendo - «aiutiamoli quando sono giovani ad avere una vita degna di questo nome» - fa tutto un altro effetto. Perdonerà la professoressa Elsa Fornero, ma tornano in mente alcuni dati. La pressione fiscale con il governo Monti ha toccato in Italia il record assoluto arrivando al 45,1% del Pil in media grazie all’introduzione dell’Imu prima casa, alla Tobin tax che, però, il governo Meloni ritocca inspiegabilmente al rialzo, al quasi raddoppio dell’imposta sulle transazioni finanziare e all’aumento di tutte le addizionali Irpef.
Come ricompensa agli italiani, Mario Monti aveva offerto il record di aumento del debito pubblico, arrivato a 2.040 miliardi, a botte di 7,5 miliardi al mese: tra il 2011 e il 2012 si sono accumulati 129 miliardi di passivo aggiuntivo. Pensando ai giovani, con Elsa Fornero ministro del Lavoro il tasso di disoccupazione dei 15-24enni è salito dal 27,4% al 33,9%, con un picco del 48% per le giovani donne del Mezzogiorno. Il tasso di disoccupazione complessiva, con un Pil crollato del 2,6%, col governo Monti è cresciuto del 40%, cioè di oltre 750.000 unità. Sono credenziali perfette per dare buoni consigli.
Giusto per memoria visto che siamo al disastro: col governo di Giorgia Meloni lo spread - dato di ieri - è a 68 punti base (meglio della Francia, ma non ditelo alla De Romanis) e ai minimi da 2008, il rating dell’Italia è stato alzato in positivo dopo un quarto di secolo, il tasso di occupazione a novembre è del 62,7% con 75.000 occupati in più ed è il record. Gli stipendi nel 2024 e nei primi nove mesi del 2025 sono cresciuti più dell’inflazione (3,5% di media contro 1,8% di aumento del costo della vita). Meglio questi tassi delle tasse, non trova? Ma non si preoccupi, Fornero: qualcuno che l’ascolta se evoca il disastro lo trova. Di solito sta in fondo a sinistra.
Continua a leggere
Riduci
Ansa
Nel centro di Milano il mattone vale oro. Tra Brera, via Anfiteatro e via della Zecca le quotazioni superano stabilmente i 15.000 euro al metro quadro. Nei casi più ambiti, per nuove costruzioni o interventi di pregio, si arriva a 20.000 euro. È qui che si concentrano gli affari immobiliari più redditizi della città. Ed è qui che, secondo la Procura, per anni ha preso forma un meccanismo parallelo capace di orientare pratiche e interpretazioni urbanistiche.
Il sequestro di via Anfiteatro va letto in questa chiave, non come un singolo abuso, ma come la spia di un sistema. Un circuito informale che avrebbe coinvolto dirigenti comunali, funzionari, progettisti e organismi tecnici.
Un assetto che, scrive il gip Mattia Fiorentini, avrebbe consentito di aggirare le regole del centro storico senza modificarle apertamente.
Le carte descrivono una rete di relazioni consolidate. Al centro compare Giovanni Oggioni, storico dirigente dell’edilizia comunale, protagonista anche del passaggio dal vecchio Prg al Pgt tra il 2010 e il 2012. Attorno a lui si muovono Marco Emilio Maria Cerri, progettista di riferimento per grandi operazioni immobiliari, Andrea Viaroli, funzionario del Sue, e Carla Barone, dirigente dello stesso settore. Per il giudice non si tratta di coincidenze. Ma dell’esistenza di un ufficio parallelo, capace di incidere sugli iter amministrativi.
Lo snodo è la determina dirigenziale 65 del 2018, adottata durante la giunta Sala. Un atto tecnico, mai discusso in Giunta o in Consiglio, ma centrale. Secondo il decreto di sequestro, quella determina consente di sostituire il piano attuativo con una semplice Scia anche nel centro storico. Un passaggio che riduce i controlli e accorcia i tempi. Proprio nelle aree dove le tutele dovrebbero essere massime.
Il piano attuativo non è una formalità. Serve a valutare l’impatto complessivo degli interventi: volumi, altezze, distanze, standard, servizi, carico urbanistico. Evitarlo significa rendere più agevoli operazioni più grandi e più redditizie. Accade nelle zone B2 e B12, nate per il recupero dell’esistente e la tutela del tessuto storico, non per l’aumento delle volumetrie.
Tra i documenti interni e riservati conservati da Oggioni compaiono anche materiali relativi alla torre di via Stresa, un’altra operazione immobiliare riconducibile alla famiglia Rusconi, già coinvolta nel progetto di via Anfiteatro. Un collegamento che, per gli inquirenti, conferma la ricorrenza degli stessi operatori e delle stesse prassi.
Secondo il gip, parte di questi file sarebbe stata occultata. Dopo il 7 novembre 2024, quando Oggioni riceve la notifica del sequestro dei dispositivi elettronici, alcuni documenti vengono cancellati. Il decreto parla apertamente di depistaggio. Un passaggio che sposta il baricentro dell’indagine: non solo irregolarità urbanistiche, ma interferenze sul corretto svolgimento delle indagini.
Il perimetro non si ferma a via Anfiteatro. Le indagini toccano anche via Zecca Vecchia e in un’informativa compare anche per Largo Claudio Treves, sempre nel quartiere Brera. Qui il progetto promosso da Stella R.E., dopo l’acquisto dell’immobile comunale nel 2021, prevede un nuovo edificio residenziale di nove piani. L’operazione si inserisce in uno dei filoni centrali dell’indagine della Procura, quello sulla dismissione del patrimonio pubblico nel centro storico. Lo stesso immobile è stato ceduto dal Comune all’asta per una cifra che tocca i 50 milioni di euro. Nelle carte il progetto viene discusso anche da Giuseppe Marinoni e Giancarlo Tancredi: l’ex assessore spera non ci siano intoppi.
Continua a leggere
Riduci