
L'odissea di una giornalista Mediaset che ha tentato invano di segnalare il contagio sull'app voluta dal governo: nemmeno gli operatori sanitari sapevano che cosa fare.Ho scaricato la app Immuni quasi subito. L'ho fatto un po' per curiosità, un po' per dare il mio contributo: visto che per lavoro viaggio parecchio e incontro molta gente, ho pensato che potesse essere utile, per me e per gli altri. Per mesi l'ho aperta tutti i giorni, regolarmente, ma l'app non mi ha mai segnalato un incontro con qualche persona positiva. Fortunata? No, perché io i positivi li ho incontrati, eccome: per esempio, alla caserma Serena di Treviso, dove ad agosto si è sviluppato il focolaio più grande d'Italia con oltre 250 immigrati affetti dal Covid-19. Con loro ho parlato dalle finestre per capire quale fosse la situazione all'interno della struttura. E poi sono stata in piazze e locali. Insomma, di gente ne ho vista parecchia, ma la mia app Immuni continuava a rimanere muta. Evviva.Certo, qualche domanda me la sono posta. Se nessuno la scarica, come può funzionare bene? E siamo sicuri che i positivi al coronavirus abbiano segnalato correttamente la loro situazione sanitaria? Interrogativi che restano in sospeso quando tutto fila liscio. Ma quando ho fatto un tampone e mi sono ritrovata positiva, ho capito che forse in quell'app così sbandierata qualcosa davvero non va.Era la metà di agosto, avevo mal di gola, mi trovavo in Veneto e mi sentivo sicura che sarei stata assistita al meglio. Erano stati predisposti e intensificati numerosi punti dove poter eseguire i test naso faringei. Mi sono recata in uno di essi e la mattina dopo mi è arrivato puntuale il risultato, inaspettato: positiva. Nonostante i rigorosi controlli della mia azienda, nonostante un'attenzione maniacale nell'igiene, il nemico subdolo mi aveva contagiata. Subito si è messa in moto una macchina sanitaria perfetta. Mi hanno chiesto dove avrei passato la quarantena e mi hanno fatto contattare dall'azienda sanitaria. Insieme abbiamo ricostruito la mappa dei contatti recenti e da loro è partito l'avviso verso le altre strutture sanitarie territoriali delle persone che avevo incontrato. Hanno poi organizzato i tamponi per i miei familiari e ogni due giorni chiamavano tutti i componenti della mia famiglia per registrare i sintomi, fino a programmare gli ultimi tamponi di controllo per la fine della quarantena. Devo dire che non mi sono mai sentita abbandonata, anzi ho scoperto un'organizzazione sanitaria eccellente.L'odissea è cominciata quando mi sono ricordata di avere Immuni sul cellulare. Nel mio isolamento domiciliare, dopo qualche giorno, ho cercato di segnalare anche sulla app che ero entrata in contatto con il virus. Ho aperto l'applicazione, sono andata sulle impostazioni e ho cliccato sulla voce «Segnala positività». Si è generato un codice monouso, formato da lettere e numeri, che ho comunicato all'operatore sanitario, nel mio caso alla persona che ogni due giorni mi chiamava per sapere come stavo. L'app prevede che ogni segnalazione debba essere confermata per evitare falsi allarmi. Il primo operatore non ha saputo rispondermi. Dopo due giorni, ho chiesto a un'altra operatrice, la quale si è presa un appunto ma poi non mi ha più richiamata. Passavano i giorni, la mia quarantena stava per finire, ma nessuno sapeva dirmi nulla.Dopo 14 giorni sono finalmente uscita per fare gli ultimi tamponi e ho chiesto di persona alle infermiere e alle dottoresse che mi sottoponevano ai test come fare a confermare quel codice su Immuni. Ma nessuno l'aveva mai fatto prima. Così l'app bianca e viola, con l'omino che apre le braccia, è ancora sulla schermata del mio cellulare, lì in bella vista, muta. Ora non la apro più così spesso: a che serve, se io che sono risultata positiva non sono riuscita a farlo sapere?
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José Altafini (Ansa)
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