2025-08-28
Massimo Clerici: «Così aiutano i tossicodipendenti a continuare a farsi del male»
Un tossico si cucina il crack (iStock). Nel riquadro, lo psichiatra Massimo Clerici
Lo psichiatra: «Senza controllo il pericolo è di favorire pure comportamenti aggressivi».A Bologna la giunta comunale guidata da Matteo Lepore ha maturato l’idea di distribuire pipe da crack ai tossicodipendenti, nell’ottica di una politica di riduzione del danno (il costo dell’operazione per l’acquisto di 300 pipe si aggira intorno ai 3.500 euro). Comprensibilmente la cosa fa discutere e molti esprimono. scetticismo. La Verità ha intervistato il dottor Massimo Clerici, psichiatra, vicepresidente della Società italiana di psichiatria e docente universitario presso l’ateneo Bicocca di Milano, che da 45 anni si occupa di tossicodipendenze. Dottor Clerici, partiamo dal cuore della questione: che cos’è la riduzione del danno?«Nasce negli anni Settanta come strategia sanitaria rivolta a individui che non aderivano ai trattamenti tradizionali. L’idea era di monitorarli e accompagnarli nel tempo, riducendo i rischi immediati e magari favorendo in seguito un recupero. Si applica soprattutto al trattamento degli oppiacei, per prevenire overdose e malattie infettive come quelle Hiv-correlate ed epatiti legate allo scambio di siringhe. In questo ambito ha una logica medica precisa».Capisco. Ha certamente dei risvolti morali, perché si forniscono le siringhe agli eroinomani, ma sotto il profilo sanitario funziona: previene la diffusione di malattie gravi dovuta allo scambio di aghi tra persone infette. E con il crack? Ha senso questa politica?«Penso di no. L’uso del crack è tra i più pericolosi in assoluto: la sostanza, se inalata o assunta per via endovenosa, arriva al cervello in modo rapidissimo, colpisce i circuiti cognitivi, della capacità di comprendere e, conseguentemente, di decidere, induce forte impulsività. Non esistono strumenti come metadone o buprenorfina per oppiacei che permettano un controllo o uno svezzamento graduale. Al contrario, il crack abitua il cervello a uno stimolo potentissimo da cui non c’è via d’uscita. Distribuire strumenti per assumerlo non riduce i rischi, li amplifica».In che modo?«Perché si favorisce un comportamento che aumenta discontrollo, impulsività e aggressività. A differenza dell’eroina, che dopo il flash iniziale tende a sedare, il crack e la cocaina sono stimolanti: spingono all’azione, non al sonno. Gli studi mostrano che chi li usa diventa meno consapevole delle proprie azioni, più impulsivo, incapace di valutare le conseguenze. Ecco perché vediamo tanti episodi di violenza, incidenti, stupri collegati all’uso di queste sostanze».Quindi il rischio non è solo individuale ma sociale.«L’impatto sociale può essere grave. Se mantengono l’uso di crack, favorisco anche l’aumento di comportamenti pericolosi per sé e per gli altri. Paradossalmente, se proprio si volesse sperimentare un approccio simile, dovrebbe avvenire solo in contesti rigidamente controllati, come comunità terapeutiche, dove il soggetto sia monitorato costantemente. Diverso è fornire liberamente in strada oggettistica per l’uso: quello significa abbandonare le persone e amplificare i danni».Lei ha lavorato come consulente per vari governi: la questione è politica o sanitaria?«Per me deve essere clinica. Non c’entra essere di destra o di sinistra, o pensare che le droghe vadano liberalizzate o punite. La tossicodipendenza è una malattia, non un vizio. Quindi bisogna curare le persone, non mandarle in carcere né abbandonarle all’ideologia del “tutti liberi”. Negli Stati Uniti ho visto con i miei occhi le strade di San Francisco piene di persone devastate dal fentanyl: senza intervento clinico, il problema non si riduce, si moltiplica».Qual è la situazione italiana rispetto alla presa in carico dei pazienti?«I dati ci dicono che solo il 7-10% dei tossicodipendenti rimane stabilmente in cura. Significa che su cento pazienti, non più di dieci riescono a seguire un percorso nel tempo. La durata del trattamento è il fattore più importante per la riuscita».Come si può migliorare?«Bisogna essere attivi. Non aspettare che i pazienti vengano da noi, ma andare a cercarli. In Inghilterra e in altri Paesi ci sono unità di strada che intercettano i consumatori nei luoghi di spaccio o di consumo. Anche da noi alcuni Sert lo fanno, ma non basta. L’errore è pensare che solo chi ha motivazione meriti di essere curato. Spesso la motivazione non c’è perché la sostanza ha «preso» tutto. Per questo occorre un approccio di accompagnamento».Non rischia di sembrare un’imposizione?«Non parlo di forza o ricovero coatto. Parlo di vicinanza, di operatori che sappiano intercettare, convincere, guidare. È l’opposto del dare loro materiale per farsi del male».