2025-10-20
I santi del Papa scomodano Maduro
Con la canonizzazione di due venezuelani, l’episcopato di Caracas pungola il regime: «Liberi i detenuti politici». Agli altari pure l’arcivescovo armeno trucidato dai turchi.Il sostegno del Papa all’episcopato Usa, che si oppone al pugno (troppo) duro di Donald Trump con i clandestini, è stato celebrato a media unificati. Ieri, però, il Vaticano ha assestato una spallata morale al regime di Nicolás Maduro, acerrimo nemico del tycoon: con le nuove canonizzazioni (già decise da Francesco), tra cui quella dei venezuelani José Gregorio Hernández, medico, e suor Carmen Rendiles, Leone XIV ha di fatto incoraggiato i vescovi del Paese centroamericano a invocare la liberazione dei detenuti politici. Lo stesso appello che, all’autocrate comunista, aveva rivolto la leader dell’opposizione, María Corina Machado, prima di ricevere il Nobel per la pace.Sono sette i santi elevati agli onori degli altari. Oltre ai venezuelani, c’è il già beato Bartolo Longo, fondatore del santuario della Madonna di Pompei, alla quale il pontefice è molto legato: è stato eletto l’8 maggio, giorno in cui si ricorda la Supplica a Maria, scritta dallo stesso Longo. Canonizzazione di peso anche quella di Ignazio Maloyan, arcivescovo armeno con cittadinanza ottomana, che fu trucidato dai turchi nel 1915, durante il genocidio che Ankara continua a rifiutarsi di riconoscere. Poi c’è Peter To Rot, catechista della Papua Nuova Guinea, martirizzato dai giapponesi, quando occuparono l’isola nel 1945. E ci sono due sante «ratzingeriane», nel senso che furono entrambe beatificate da Benedetto XVI: Maria Troncatti, missionaria in Ecuador, e Vincenza Maria Poloni, fondatrice delle Sorelle della misericordia. In una San Pietro gremita (70.000 persone), ieri era presente anche Sergio Mattarella. A pochi giorni dalla visita al Quirinale del Papa, quest’ultimo ha accolto il capo dello Stato al suo arrivo in basilica e lo ha salutato «con riconoscenza», al termine della messa, insieme al presidente del Libano e alle delegazioni di Armenia e Venezuela.Senza la fede, ha ammonito il pontefice nell’omelia, «perdono senso» tutti i grandi beni materiali, culturali, artistici, persino scientifici. «Non c’è pianto che Dio non consoli», ha aggiunto, con il pensiero sempre rivolto ai teatri bellici e alle prospettive della pace: «Quando siamo crocifissi dal dolore e dalla violenza, dall’odio e dalla guerra, Cristo è già lì, in croce per noi e con noi». «Chi non accoglie la pace come un dono, non saprà donare la pace». Robert Francis Prevost ha invitato a vigilare sulle due tentazioni che «mettono alla prova la nostra fede: la prima prende forza dallo scandalo del male, portando a pensare che Dio non ascolti il pianto degli oppressi e non abbia pietà del dolore innocente». È l’antica disputa sulla teodicea: se Dio esiste, perché gli innocenti soffrono? Leone ha esortato così i cattolici a non disperare, a non lasciarsi soverchiare dalle ingiustizie e dalle afflizioni. La seconda tentazione è direttamente collegata a questa, perché «è la pretesa che Dio debba agire come vogliamo noi: la preghiera cede allora il posto a un comando su Dio, per insegnargli come fare a essere giusto ed efficace».Prima del giro tra la folla in papamobile, durante il quale si è spinto fino a via della Conciliazione, all’Angelus Leone ha espresso l’auspicio «che gli strumenti della guerra cedano il passo a quelli della pace, attraverso il dialogo inclusivo e costruttivo». Il pontefice, che ha parlato di una Chiesa «tutta missionaria», ha chiesto di pregare «per la pace in Terra Santa, in Ucraina e negli altri luoghi guerra. Dio conceda a tutti i responsabili saggezza e perseveranza per avanzare nella ricerca di una pace giusta e duratura». Non è un’utopia; è il programma di un magistero.