
Il patron di Valleverde: «Per colpa della guerra e dell’inflazione, il settore nel 2024 ha perso il 30%. Siamo invasi da prodotti realizzati dove la manodopera costa meno. Al Micam valorizzeremo la nostra immagine».«Vuole sapere la novità? Speriamo che la guerra finisca presto. Perché in Europa non siamo messi bene». Chi parla è Elvio Silvagni, patron di Valleverde. «Il settore calzaturiero ha fatto meno il 30% nel 2024. La gente ha meno soldi in tasca, le cose primarie sono altre rispetto all’acquistare abbigliamento e calzature. Ognuno nella propria azienda cerca di fare il meglio per sopravvivere a questo momento». È passato un po’ di tempo da quando lo slogan «È bello camminare in una Valleverde» era sulla bocca di tutti. Lo dicevano negli anni Ottanta e Novanta Raffaella Carrà, Kevin Costner, Eddie Irvine e addirittura Pelè. Ora la valle non è più verde come allora, ma è così per la maggior parte dei calzaturifici. «La storia ha insegnato tanto, le guerre hanno portato carestie ma poi c’è la ripresa. Così è stato per il Covid e nel 2022/2023 siamo andati bene, la gente aveva voglia di uscire e comperare. Poi la guerra in Ucraina, il blocco del canale di Suez ha complicato la vita a tutti. I costi e i trasporti sono aumentati, le bollette elettriche sono esplose. Speriamo che ci sia un’inflazione più bassa ma non sarà così dato che tutto aumenta, a partire dai costi energetici». Sarete tra i protagonisti di Micam (da domani al 25 febbraio), la più importante fiera al mondo di settore promosso da Assocalzaturifici. Ritiene ancora utile partecipare alle fiere? «Sono la nostra vetrina, è importante valorizzare la propria immagine. Andiamo al Micam sperando d’aver fatto le cose giuste e di poter mantenere i volumi raggiunti. Non siamo calati come settore, un po’ con il fatturato ma non con le paia. Significa che il prezzo medio è diminuito, i nostri clienti sono attenti al prezzo, tanto che il lusso è crollato e ora è difficile capire quali decisioni prendere». Lei è abituato alle sfide, però. Il suo gruppo Silver1 (che oltre a Valleverde detiene anche l’altro brand di calzature Rafting Goldstar, con la quale sta vincendo tutte le cause intentate da Birkenstock sul tema del disegno del battistrada della suola) nel 2015 acquistò all’asta dal tribunale l’azienda Valleverde che era fallita, e da lì è iniziata una forte fase di rinnovamento e costante crescita, grazie agli investimenti della nuova proprietà raggiungendo risultati eclatanti (fatturato di circa 32 milioni, più che raddoppiato rispetto ai 14 milioni di euro del 2021). Cosa è cambiato nel tempo? «L’Italia negli anni Settanta, Ottanta e Novanta ha sempre beneficiato della svalutazione della lira per essere competitiva sui mercati esteri. Nel 1989 è caduto il muro di Berlino e la grande distribuzione, che ha sempre cercato la qualità e soprattutto il prezzo, ha costretto tante aziende italiane ad aprire filiali nei Paesi dell’Est (dove i salari erano molto bassi). I margini dei prezzi più bassi derivanti dal calo della manodopera venivano accreditati come sempre alla grande distribuzione: il sistema ha funzionato fino al 1995, quando avvenne l’apertura del mercato mondiale al commercio Wto e nell’anno 2002 il passaggio delle varie valute europee all’euro. Questi due avvenimenti hanno iniziato a mettere in crisi il settore produttivo calzaturiero in Europa. La grande distribuzione ancora una volta cercava i prezzi sempre più bassi, andando a comperare le calzature in Estremo Oriente, dove la manodopera e i componenti erano estremamente più economici dell’Europa, obbligando il settore produttivo europeo a dei cambiamenti epocali. In questo momento si sarebbero dovute prendere delle decisioni importanti, che sono mancate». L’Europa è ferma? «È sempre in prima linea quando c’è da regolamentare: auto, sostenibilità, Intelligenza artificiale, eccetera. Sembra però che il settore manifatturiero e dell’abbigliamento e calzature non interessi a nessuno. Ora ha ragione Donald Trump: per regolamentare il commercio e salvare tante aziende di abbigliamento e calzaturiere europee è necessario mettere dei dazi al 30-40%. Non possiamo permetterci di far arrivare prodotti senza alcun dazio da tante nazioni. Si stanno aggirando le leggi. Il maggior produttore di componenti mondiali li manda in altre nazioni, le più sottosviluppate, dove il costo del lavoro è irrisorio, cosi queste possono rimandare in Europa la merce, bypassando anche i minimi dazi esistenti. Mi chiedo come mai la Commissione europea sia immobile». Lei come si è mosso? «Il nostro gruppo Silver1 ha resistito piuttosto bene adottando due soluzioni vincenti: innovazione e pubblicità. Ma non siamo noi il punto. È l’intero sistema che sta subendo i cali di produzione. La filiera è sotto pressione ed è a rischio. Se perdo un fornitore, ho meno capacità di innovare ed è una sconfitta per tutti. Il segmento medio-alto è sempre più minacciato dalle produzioni asiatiche a basso costo. Sembra che l’Europa resti a guardare le aziende del settore che chiudono». Come fate fronte ai costi di produzione? «Noi abbiamo aziende di proprietà anche all’estero: in Slovacchia, Albania e Romania e confermiamo che il costo di produzione all’estero è in crescita. I giovani vanno a caccia di offerte più remunerative e i calzaturifici devono alzare il livello dei salari per avere a disposizione forza lavoro. In Slovacchia si è insediata l’industria automotive, che ha sempre avuto contributi e incentivi in Europa nei momenti di crisi, e può benissimo offrire contratti di lavoro più vantaggiosi rispetto al calzaturiero. Per cui se vogliamo trattenere e attrarre personale dobbiamo migliorare la nostra proposta». Il made in Italy c’è ancora? «Trovare un’azienda di una certa dimensione che produce tutto interamente in Italia è molto difficile. Le aziende loro malgrado sono costrette a far produrre calzature nel Far East: la politica avrebbe dovuto regolamentare la questione, perché un bravo imprenditore si deve sempre adeguare alla realtà. L’Italia è formata da piccole aziende che sono sempre più in difficoltà a emergere su un mercato che richiede, viceversa, dimensioni sempre più grandi».
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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