2025-05-28
Monsignor Crepaldi: «Il Papa indica la fede come senso della vita»
Monsignor Giampaolo Crepaldi (Imagoeconomica)
L’arcivescovo: «Il nome scelto dimostra la sequela a Leone XIII: la persona come principio, soggetto e scopo della società In un tempo in cui sono venuti meno i riferimenti culturali della politica, l’apporto della dottrina sociale può essere decisivo».Perché Robert Francis Prevost abbia scelto il nome pontificale di Leone lo ha spiegato lui stesso facendo riferimento a Leone XIII, che «con la storica Enciclica Rerum novarum, affrontò la questione sociale nel contesto della prima grande rivoluzione industriale» e che fondò la Dottrina sociale della Chiesa, «patrimonio per rispondere a un’altra rivoluzione industriale e agli sviluppi dell’intelligenza artificiale, che comportano nuove sfide per la difesa della dignità umana, della giustizia e del lavoro».La Dsc è dunque la strada indicata dal nuovo pontefice, e per capire come questo corpus di principi, criteri di giudizio e direttive d’intervento influenzerà l’azione della Chiesa parliamo con monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo emerito di Trieste, che da segretario del Pontificio consiglio della giustizia e della pace, nel 2004, su incarico di Giovanni Paolo II, contribuì in prima persona all’elaborazione del Compendio della dottrina sociale della Chiesa. Eccellenza, partiamo dall’elezione di Prevost, che ha sorpreso molti. Si aspettava che la scelta cadesse su di lui? «Tra quei molti metta pure anche me. L’elezione del Cardinale Prevost mi ha sorpreso e non poco, perché, forse influenzato come tanti dalle notizie che circolavano in quei giorni, ritenevo che tutto andasse nella direzione dell’elezione di un Papa italiano: o il cardinale Parolin o il cardinale Pizzaballa».Trova che sia la figura che serve alla Chiesa in questo preciso momento storico? «Questo senza ombra di dubbio e per un motivo preciso. Quello che mi ha molto colpito sono state le prime parole pronunciate da papa Leone XIV: non erano le sue, ma le parole che Gesù risorto riservava ai suoi discepoli in occasione dei loro incontri; parole di pace che erano il frutto e il dono della sua Pasqua di risurrezione. Ecco, mi sono trovato di fronte un Papa che indicava subito che il cuore dell’esperienza cristiana è il Cristo risorto e il suo Vangelo di pace». La prima omelia, di fatto un discorso programmatico, pronunciata dal nuovo papa davanti ai cardinali cosa rivela? Cosa l’ha colpita?«In primo luogo il suo potente richiamo al Cristo, figlio del Dio vivente, cioè l’unico salvatore e il rivelatore del volto del Padre. La sottolineatura, che qualcuno ritiene piuttosto ridondante e scontata in bocca a un Papa, personalmente l’ho trovata importantissima. Poi l’urgenza della missione, perché - queste le parole del nuovo Papa - “la mancanza di fede porta spesso con sé drammi quali la perdita del senso della vita, l’oblio della misericordia, la violazione della dignità della persona nelle sue forme più drammatiche, la crisi della famiglia e tante altre ferite di cui la nostra società soffre e non poco”».Tra l’etichetta di «bergogliano» e quella opposta di «trumpiano» che già si è tentato di attribuirgli, lei per quale propende?«Per nessuna delle due. Le etichette invece di aiutarci a capire, spesso ci portano fuori strada. Personalmente guardo a lui come un annunciatore di Cristo risorto, che ripropone ogni giorno al mondo la fede pasquale. I problemi ci sono e gravi, dalla povertà alle guerre, dalle migrazioni al caos delle relazioni internazionali, dagli attentati alla vita allo sfarinamento della famiglia, ma senza il riferimento essenziale a Cristo, pietra angolare, non si arriverà a nessuna soluzione e a una vera stagione di speranza». Quindi non il Papa della continuità ma della discontinuità nella tradizione?«Sinceramente non saprei cosa risponderle. Personalmente cerco di non farmi catturare dalle contrapposte tifoserie del “mi piace” o “non mi piace” che riducono il Papa a un leader politico o a un influencer. Ci basti che confessi la fede dell’apostolo Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”».Veniamo al nome scelto da Prevost, un richiamo al Papa autore della Rerum novarum e un esplicito riferimento alla Dottrina sociale della Chiesa, che in questi anni era stata messa da parte: possiamo pensare a un suo recupero?«La scelta del nome che richiama quello di Leone XIII e l’esplicita volontà di far tesoro nel suo ministero pastorale del ricco patrimonio della Dottrina sociale della Chiesa costituiscono un dato fondamentale. Un patrimonio dottrinale validissimo che permise a Leone XIII di far fronte alle dirompenti problematiche della rivoluzione industriale nel XIX secolo e che consentirà a Leone XIV di affrontare i nodi antropologici e morali della rivoluzione digitale del XXI secolo». Rimettere al centro Cristo e far crescere Cristo, ha chiesto papa Leone: questi riferimenti teologici quanto contano nella valorizzazione della Dsc?«Contano perché sono essenziali e decisivi. E il nuovo Papa lo ha fatto capire nel suo primo saluto subito dopo l’elezione, quando ha invitato i cattolici a “lavorare come uomini e donne fedeli a Gesù Cristo, senza paura, per proclamare il Vangelo, per essere missionari”. E ha continuato: “Siamo discepoli di Cristo. Cristo ci precede. Il mondo ha bisogno della sua luce. L’umanità necessita di Lui”. Sono parole di fede, chiarissime e illuminanti. È in questa cornice cristologica che si colloca la Dottrina sociale della Chiesa». Quali i capisaldi della Dsc e come potrà aiutarci ad affrontare la rivoluzione in atto, che non è più industriale ma digitale?«Penso a partire da una forte affermazione della centralità della persona umana. Infatti, la vita-azione della Chiesa è un servizio di amore ad ogni singolo uomo, considerato non nell’astrattezza delle ideologie, ma nella sua concreta dignità di persona, nella realtà dei suoi bisogni e dei suoi valori. Questi si innestano nell’Assoluto e sulla visione della persona come fine e mai come mezzo. La persona, infatti, è l’unica creatura che Dio abbia voluto per sé stessa. Anche gli altri principi fondamentali della Dottrina sociale - il principio del bene comune, della destinazione universale dei beni, della sussidiarietà, della solidarietà, dell’amore preferenziale per i poveri - si innestano su questo cuore centrale del messaggio sociale cristiano: la persona umana considerata come principio, soggetto e scopo della società». La Rerum novarum non di rado viene letta in chiave marxista e pauperista, in ossequio a una concezione sociale del cristianesimo. Già si intravedono nuovi tentativi in tal senso. Perché questa interpretazione è errata?«Forzature interpretative della Rerum novarum e, in genere, della Dottrina sociale della Chiesa, ci sono sempre state. Ma sono appunto forzature. Quello che qui ci deve interessare è qualcos’altro. Si sa che la Dottrina sociale della Chiesa nasce con la Rerum novarum di Leone XIII, nel 1891, sotto la spinta della questione operaia e della questione sociale. Oggi questa questione si è ormai dilatata a dismisura ed è diventata, con la rivoluzione digitale, la questione dell’uomo stesso. Ed è nel contesto di questa rivoluzione sostanzialmente antropologica che vanno riconsiderati sul piano etico-morale i temi del lavoro, dell’economia, dell’impresa, del salario e della difesa dei diritti dei lavoratori, delle ideologie sociali e politiche».Che contributo può portare la Dsc alla vita politica, che attraversa una crisi senza precedenti?«Più che parlare di crisi, direi che la politica oggi sia alla ricerca di nuove strade, nuovi punti di approdo, nuovi ancoraggi, essendo venuti meno i riferimenti culturali che l’hanno alimentata per molto tempo. Qui si inserisce la Dottrina sociale con il suo ricco e lungimirante patrimonio dottrinale e i suoi principi».La Dottrina sociale ha anche valore di strumento di evangelizzazione? Leone XIV ha insistito su questo aspetto, invitando a proclamare il Vangelo senza paura, per essere missionari.«Puntare sull’annuncio, attenersi all’annuncio, cominciare dall’annuncio non comporta annebbiare l’uomo ma illuminarlo, non comporta trascurarlo ma valorizzarlo perché è solo nel mistero di Cristo che trova piena comprensione anche il mistero dell’uomo. Ecco allora una conseguenza a prima vista sorprendente: annunciare Cristo è l’unico vero modo di annunciare l’uomo e la sua dignità, la quale sarebbe sempre in pericolo se non fosse una “trascendente dignità”, come specificano sempre le encicliche sociali dei Sommi Pontefici. Tutto quanto è pienamente umano viene valorizzato adeguatamente solo sotto lo sguardo di Cristo, cioè nell’annuncio. È qui, in particolare, che si incontrano la fede e la ragione, dato che esse, nella loro rispettiva pienezza, sorgono dal Logos di Dio, da Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo. Cristo ci precede, ci insegna il Santo Padre Leone XIV».
Il Gran Premio d'Italia di Formula 1 a Monza il 3 settembre 1950 (Getty Images)
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