2025-08-11
Marco Fortis: «L’allarmismo sui dazi è esagerato»
Marco Fortis (Imagoeconomica)
L’economista: «Se riuscissimo a tutelare settori chiave come vino e farmaceutica potremmo pure festeggiare. Il governo deve spiegare all’America che il nostro export non sottrae quote di mercato alle sue aziende».Professor Marco Fortis, lei è un economista difficile da classificare. Mi verrebbe da definirla microeconomista. O comunque un economista di impresa. Uno che conosce i comparti, le filiere, i distretti, le imprese per arrivare ai singoli prodotti. Quanto vorrei chiederle un’analisi di impatto dei dazi di Trump sul nostro export...«Ogni volta che mi appresto a scriverne o parlarne, quasi sempre soprassiedo. Quella che sembra la notizia del giorno sarà quasi sicuramente superata da quella del giorno dopo. Se non addirittura capovolta».Mi accontento di una valutazione di sintesi.«Guardiamo alle prime reazioni in Italia. C’è stato di tutto. Inizialmente una sorta di isterica sollevazione. Un accordo al ribasso. Una figuraccia. L’Europa si sarebbe fatta schiacciare perché incapace di negoziare. Qualcuno ha addirittura parlato di vergogna. Il primo ministro francese è stato durissimo. Il cancelliere tedesco, invece, inizialmente sembrava soddisfatto per i risultati che si delineavano nel settore automobilistico, anche se il quadro ancora non appare chiarissimo. Questo comparto era uno dei dossier principali curati dalla Von der Leyen. Lei ha un filo diretto con Berlino; il principale azionista dell’Unione».Si è evoluta questa percezione?«Le analisi ora sembrano un po’ più ponderate. Nel mondo altri pagano dazi ben più alti. Escludiamo il 10% della Gran Bretagna che ha un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti. Però, se ci confrontiamo con economie emergenti come India e Brasile, colpite con dazi del 50%, la prospettiva cambia».Sarebbe potuto andare tutto peggio.«Trump è il presidente degli Stati Uniti, rieletto per la seconda volta da un ceto medio impoverito e arrabbiato. Le big tech americane hanno fatto i soldi. Ma la old economy è collassata. A partire dall’industria dell’auto. Gli americani comprano auto giapponesi, cinesi, coreane, e in parte anche tedesche. L’automotive americano ha risposto delocalizzando in Messico e Canada proprio per reagire alla concorrenza asiatica. Il Nafta è nato, in parte, per questo. Ora Trump vuole ripristinare la old economy. Ma non tornerà. Tuttavia, ottiene un risultato d’immagine. Gli elettori leggono di come “schiaffeggia” gli altri leader e sono contenti. Pensano che gli Stati Uniti siano tornati a comandare. È uno show continuo, e temo che non finirà».È come se Trump avesse «militarizzato» il suo mercato interno. Gli Usa sono il cliente del mondo. Il mercato americano è una clava da dare in testa ai fornitori.«Esattamente. Nonostante tutto quello che si è detto sui mercati emergenti, l’unico vero Eldorado rimane il mercato statunitense. Insieme a quello europeo. Ma questo ha sofferto una crisi dopo l’altra. E ora spende poco. Quello americano, invece, spende tantissimo. Anche i tedeschi hanno venduto Mercedes e Bmw in Cina per un po’. Ma ora sono al palo. Gli Stati Uniti usano il loro mercato come arma di ricatto».Questa guerra commerciale è globale. Non dobbiamo guardare solo al nostro 15% ma anche a quanto applicato agli altri. Possiamo riposizionarci? Da subfornitori dei tedeschi a terzisti degli americani?«Lo escluderei. Gli Stati Uniti non riusciranno mai a ripristinare una propria industria interna. Almeno su larga scala. Comprano ciò che non producono. Penso alle macchine da imballaggio o utensili. Fatte da noi, dai tedeschi, dai giapponesi o dai cinesi. Io guarderei piuttosto ai prezzi relativi. Il nostro principale concorrente è la Germania, e qui non è cambiato nulla. Molti prodotti tedeschi e italiani costano di più. Ma i margini di guadagno sono maggiori per gli imprenditori italiani in molti settori le cui aziende leader hanno spalle larghe e possono competere con i tedeschi senza problemi. Se i cinesi pagano il 50%, sono loro a essere svantaggiati, non noi».Alcuni comparti ne hanno addirittura tratto vantaggio…«Il Parmigiano Reggiano avrebbe dovuto pagare il 25% e si attesta al 15%. La pasta pagava dazi più alti. Fra i settori più a rischio c’è il vino. Tanti piccoli produttori che hanno faticato per entrare nel mercato americano potrebbero trovarsi in difficoltà. Pure nella farmaceutica la partita è cruciale. Sia per le nostre imprese che per gli investimenti di multinazionali, incluse quelle americane. Ancora circolano voci contrastanti: da un lato si parla di possibili esenzioni per i farmaci, dall’altro di dazi addirittura al 100%. Spero prevalga il buon senso. Le multinazionali americane non sono venute a produrre farmaci in Italia per il basso costo del lavoro, come ha fatto Apple in Cina, ma per la qualità della ricerca e l’ecosistema favorevole. Non è la stessa logica».Dovremmo far capire a Trump che i prodotti italiani non sono una minaccia per l’industria americana. Già per la Germania il discorso è diverso, secondo me.«Esatto. Se ci sedessimo a un tavolo con Trump e gli chiedessimo se la Ferrari, il Parmigiano o i vini italiani hanno fatto chiudere fabbriche o perdere posti di lavoro negli Stati Uniti, non potrebbe far altro che ammetter di no. I nostri prodotti non competono con l’industria americana. Sono unici, di nicchia e apprezzati da un ceto medio-alto. Non facciamo dumping. Non rubiamo quote di mercato. Diverso è il caso delle auto giapponesi o coreane, che hanno davvero travolto il tessuto produttivo americano. Oppure prendiamo Walmart. È un’azienda americana che ha importato quantità enormi di prodotti cinesi. Non italiani. È Walmart che ha “depredato” l’America, non noi».Ma gli Stati Uniti sono davvero in grado di fornirci tutto il gas di cui abbiamo bisogno? Oppure anche loro hanno fatto promesse che non possono mantenere?«Hanno energia in abbondanza, questo è certo. Il problema è a che prezzo ce la vogliono vendere. Siamo passati dal gas russo a basso costo al gas naturale liquefatto americano, che costa molto di più. Non possiamo accettare un trasferimento di ricchezza dall’Europa agli Stati Uniti solo perché ci impongono di comprare a prezzi gonfiati. Certo, c’è anche la guerra con la Russia, che ha chiuso i canali tradizionali di approvvigionamento. Trump sta sfruttando questa fame di energia dell’Europa».Troppo catastrofismo insomma…«Li ho esaminati questi scenari catastrofici. Voglio vedere tra due anni se le previsioni di disastro per i dazi al 15% si avvereranno davvero. Oggi l’attenzione è spasmodica. Dai produttori alle associazioni, fino agli uffici studi dispersi nei luoghi più ameni o remoti. Si fanno stime su quanto ci costeranno questi dazi. Ma ricordiamoci che cosa successe all’inizio nel 2000, quando la Cina entrò nel Wto. L’Italia, con la sua specializzazione nel tessile, abbigliamento e calzature, perse quasi 250.000 posti di lavoro in dieci anni. Nessuno allora scese in piazza a protestare. Erano tutti contenti per la novità del mercato cinese in arrivo e in cui molti allora speravano. Oggi ci si fascia la testa per 20-30.000 posti di lavori ipotizzati a rischio a causa dei dazi di Trump. Mi viene quasi da ridere. La Cina fu un trauma ben peggiore, e l’Europa ci lasciò soli a combattere contro il dumping cinese».Pensiamo di essere bravi a prevedere ciò che non abbiamo visto arrivare e che ancora stentiamo a riconoscere.«I calzaturieri italiani ottennero dazi antidumping contro Cina e Vietnam, dimostrando conclamate scorrettezze. Ma nel tessile e nell’abbigliamento non ci fu unità. Molti produttori italiani avevano già delocalizzato in Est Europa o in Cina. La grande distribuzione del Nord Europa era felice di importare prodotti cinesi a prezzi stracciati, guadagnando margini enormi. I consumatori, sempre più impoveriti, preferivano una maglia cinese da 30 euro a una italiana da 150. Il profitto lo faceva l’importatore tedesco, svedese o spagnolo. Non certo il produttore italiano».Non esiste un modello quantitativo in grado di quantificare le ricadute di questi dazi quindi… Anche perché il nostro export è parcellizzato!«Esatto, il nostro export è molto diversificato. Se riuscissimo a mettere in sicurezza settori chiave come il vino e, sperabilmente, la farmaceutica, evitando dazi del 100%, e considerando che pasta e Parmigiano sembrano già protetti, potremmo addirittura festeggiare. La Cina paga dazi più alti. L’unico rischio è che i cinesi, non potendo vendere in America, riversino le loro eccedenze in Europa a prezzi stracciati, replicando il dumping degli anni 2000».In quel caso, l’Europa dovrebbe imitare Trump e imporre dazi propri.«Potrebbe succedere. Ottenemmo i dazi sulle calzature cinesi legittimamente, in base alle regole del Wto. I cinesi producevano a costi bassissimi, bruciando carbone e pagando poco i lavoratori. Trump, invece, applica dazi violando le regole internazionali. I nostri prodotti non sono venduti a prezzi stracciati. Il Parmigiano, le Ferrari, gli yacht italiani costano perché sono di qualità. Non facciamo dumping come i cinesi facevano con noi».Il nostro governo ha il compito di far capire a Trump che l’Italia non è come la Germania, che compete con l’automotive e la chimica. Noi abbiamo prodotti unici.«Esattamente. Il governo dovrebbe spiegare che i nostri prodotti non sottraggono quote di mercato alle aziende americane. Sono prodotti di nicchia, che soddisfano un ceto medio-alto che li apprezza. Uno yacht italiano non viene comprato perché è a buon mercato, ma perché è il migliore al mondo. Lo stesso vale per il Parmigiano, il prosciutto di Parma, il Barolo o il Brunello. È ingiusto che paghiamo dazi su prodotti che non competono con l’industria americana»
Ansa
A San Siro gli azzurri chiudono in vantaggio i primi 45 minuti con Pio Esposito, ma crollano nella ripresa sotto i colpi di Haaland (doppietta), Nusa e Strand Larsen. Finisce 1-4: il peggior - e più preoccupante - biglietto da visita in vista dei playoff di marzo. Gattuso: «Chiedo scusa ai tifosi». Giovedì il sorteggio a Zurigo.
Giuseppe Caschetto (Ansa)