2023-08-17
«Ho inventato i tormentoni ma oggi nei talent mi boccerebbero subito»
Johnson Righeira (Getty Images)
Johnson Righeira: «Certi programmi tv non premiano più chi ha buone idee. I tedeschi presero “Vamos a la playa” per un inno anti nucleare. Li lasciammo fare».«Andiamo in spiaggia, la bomba è esplosa». Con questi versi tradotti dallo spagnolo si apre uno dei brani simbolo dell’estate italiana e degli anni Ottanta: Vamos a la playa. A inciderla due ventenni torinesi, i fratelli Righeira. Le carte d’identità di Johnson e Michael, in realtà, recitano rispettivamente Stefano Righi e Stefano Rota. Trovata commerciale dei produttori Michelangelo e Carmelo La Bionda, a detta di alcuni. Johnson Righeira, 63 anni a settembre, consegna invece una motivazione dai riferimenti ben al di sopra della pecunia: «Marinetti, padre del futurismo, raccontava che una volta, trovandosi la strada sbarrata da una bicicletta, per il disgusto si buttò nel fosso con l’auto. Noi, disgustati dalla banalità di un semplice rapporto di amicizia, decidemmo di diventare fratelli».La canzone balneare per eccellenza, giunta al suo quarantesimo anniversario, dipinge scenari in controtendenza con quelli di sovrani della discografia agostana come Edoardo Vianello e Gino Paoli. Radiazioni che bruciano e tingono la pelle di blu, acqua fluorescente, vento radioattivo che scompiglia i capelli: il testo sembra assorbire le tensioni della Guerra fredda e i timori di possibili nuove deflagrazioni nucleari.Nonostante ciò, Vamos a la playa vende più di 3 milioni di copie nel mondo. Non esiste radio, televisione o mangiadischi che in quell’estate del 1983 non ne diffonda ossessivamente il ritornello. Tanto che, nel tentativo di fotografarlo, un critico musicale per la prima volta azzarda l’espressione «tormentone», coniando inconsapevolmente un termine divenuto poi un classico del gergo musicale.Da tre anni, Johnson Righeira vive lontano dalla mondanità ad Agliè, piccolo comune nel Canavese, dove produce vino e gestisce la sua etichetta discografica Kottolengo recordings & wines: «Doveva essere una casa di vacanza, poi c’è stato il lockdown e ho scelto di rimanere qui».Una curiosità: come nasce il nome Righeira? Righi, ok, ma quell’esotismo nella desinenza?«Risale ai tempi del liceo, quando ancora non ero in classe con Michael (lo conobbi più tardi dopo la mia prima bocciatura). Nelle ore di educazione fisica giocavamo sempre a calcio. Coi compagni ci piaceva declinare i nostri nomi alla brasiliana: Mauro diventava Maurinho… Io divenni Righeira. Johnson perché suonava un po’ tipo Emerson, mi stuzzicava l’idea dell’oriundo».Oggi è rimasto solo Righi. Com’è portare avanti i Righeira senza metà di quel miracolo?«È andata così, uno ne prende atto e va avanti. In qualche modo i Righeira sono nati da me, dopodiché Michael fu fondamentale, ma Johnson Righeira esisteva già prima. Adesso sono tornato agli esordi, chiaramente con un bel bagaglio di cose fatte insieme».In che rapporti siete rimasti?«Sinceramente non ci sentiamo molto. Abbiamo preso strade diverse».Ricorda la genesi di Vamos a la playa?«L’idea affondava le radici nei miei inizi anni Sessanta. Il mio primo disco da solista, Bianca surf, uscì nel 1980. Nel 1981, sempre da solo scrissi Vamos, che mutuava dagli anni Sessanta l’idea di canzone balneare, ma con un concept post atomico».Mi dia un’istantanea di quel ritornello.«Mi trovavo in una cantina nel centro di Torino che era la sala prove di un gruppo di amici. Mettendo le mani a caso su una tastiera, individuai una sequenza di note che mi fece venire in mente quel “Oh-oh-oooh-oh”. Ebbi subito la sensazione di un’ottima idea, ci stava perfettamente».La scelta dello spagnolo?«Mi sembrava molto esotico in un contesto elettronico. E poi era una citazione di un classico degli anni Sessanta: Cuando calienta el sol».Continui.«Due mesi dopo, con Michael, conoscemmo i fratelli La Bionda, che intuirono il grande potenziale del pezzo, ma lo trovavano troppo cupo nella sua versione originale. Così decisero di riarrangiarlo in chiave più allegra, nonostante il testo fosse abbastanza catastrofico. Ma non voleva essere triste. In uno scenario da day after, il senso era: che cazzo ce ne frega, andiamo in spiaggia lo stesso».Non eravate gli unici a descrivere scenari da day after. Un altro brano di successo di quell’anno, Tropicana di Gruppo italiano, parlava di esplosioni e abbronzature atomiche. Quanto era presente la minaccia nucleare?«Col senno di poi, era qualcosa di indubbiamente presente. Come una qualsiasi opera artistica, Vamos risentiva di ciò che stava accadendo. In Germania fu presa come canzone antinucleare. Noi provammo a spiegare il concept, ma era così difficile farci capire che alla fine gli lasciammo credere quello che volevano (ride)».La critica italiana, invece, come parlava di voi?«Male. Il disco fu recensito come un’operazione commerciale dei fratelli La Bionda, ma i Righeira non erano solo Vamos a la playa e No tengo dinero, c’erano tante anime. Alcuni critici ci arrivarono dopo. All’epoca fu un tale tormentone che la gente non ne poteva più».Mamma e papà cosa dicevano?«Da buoni piemontesi (anche se mio padre era toscano, cresciuto a Torino) non si esprimevano molto. Ma so che erano orgogliosi».Non le hanno mai detto «Vai a lavorare».«Accadde tutto talmente in fretta che non fecero in tempo (sorride). Probabilmente all’inizio mi lasciarono fare pensando che mi sarebbe passata, ma dal primo 45 giri al successo di Vamos passarono solo tre anni. In quei tre anni la mia vita fu stravolta».Quando si rese conto di avere fatto il botto?«Mi trovavo a militare, era Ferragosto e i Righeira erano in testa alle classifiche. Facevo le ospitate televisive in licenza, erano i primi bagni di folla, gli autografi. Poi tornavo in caserma e ricominciavo la vita intrapresa mesi prima. Vivevo due realtà parallele, stavo scoppiando. A un certo punto accusai il colpo».Cioè?«Riuscii a farmi mandare all’ospedale militare di Milano, dove tentati di prendere una convalescenza per crisi depressiva. Al colloquio mi liquidarono in pochi minuti, capii che non avrebbe funzionato. Nei corridoi intercettai lo psicologo e mi giocai la carta della disperazione: “Senta, lei conosce Vamos a la playa”. “Sì”. “Ecco, io sono uno dei due, ho bisogno di 20 giorni perché la licenza ordinaria non mi basta”. Mi richiamarono dentro e mi fecero un pippone sulla serietà della leva. Poi mi diedero 20 giorni. Lì capii che era successo qualcosa».È legata a quell’episodio una foto promozionale in cui lei e Michael siete ritratti in spiaggia in divisa militare?«No, quella fu una trovata giornalistica per fare i Gianni Morandi della situazione».Quanto vi travolse il successo?«Parecchio. Non eravamo preparati. La gavetta per noi cominciò dopo il successo». Come si sopravvive a un exploit del genere? È una perenne rincorsa al bis?«Beh, sa… L’anno dopo facemmo Hey mama, che andò un po’ meno bene ma era comunque la sigla di uno show televisivo che conducevamo insieme a Eleonora Giorgi. Nel 1985 recuperammo dal cassetto L’estate sta finendo, che avevo scritto prima di Vamos, anche se nella stesura originale mancava tutto l’inciso, quello di “languidi brividi”. Di nuovo primi in classifica. A quel punto eravamo quelli delle hit: non potevamo più scrivere canzoni normali, dovevamo scrivere numeri 1. Diventò pesante».Come l’avete vissuta?«L’abbiamo vissuta che nel 1986 quasi ci obbligarono a fare Sanremo. Completammo in extremis Innamoratissimo, dopodiché le cose si fecero difficili. Tutti si aspettavano il botto, sempre. Scrivemmo buone canzoni, ma senza botto, e lentamente i Righeira morirono».Si è mai sentito una meteora?«Quando uno fa quattro successi in quattro anni direi che è qualcosa di più di una meteora. Oltretutto scrivendo canzoni che a distanza di 40 anni sono così fortemente nell’immaginario collettivo».Alcuni l’hanno paragonata a una sorta di Nostradamus per avere scritto un testo che, tre anni dopo, ebbe un tragico riscontro nel disastro di Černobyl.«Mah, semplicemente… Boh, è andata così, che cazzo ne so (ride). Non è che avessimo velleità da visionari. Sicuramente la canzone delineava uno scenario che, dopo quell’incidente, frenò la corsa al nucleare».A ungervi di un certo profetismo c’è anche una performance in cui parlavate a degli orologi da polso come fossero Apple watch.«Avevamo trovato in un negozio di giocattoli questi walkie-talkie da polso e li usammo come fossero dei microfoni, stando attenti a non infilarci l’antenna negli occhi».Ha detto che, nell’era dei talent, secondo i giudici i Righeira non avrebbero l’x-factor. Perché?«Perché i talent si basano molto sulle capacità tecniche, noi di tecnica non avevamo praticamente nulla, eravamo un vulcano di idee. E non so quanto i partecipanti possano esprimere le loro idee, spesso sono confezionati. I La Bionda ci fecero fare quel cazzo che volevamo».In una recente polemica su trapper e autotune sono volati gli stracci tra nomi noti della musica italiana. Lei da che parte sta?«Non è che mi dia fastidio l’utilizzo dell’autotune in sé, che può essere una cifra espressiva, quanto il fatto che venga usato in modo così massivo omologando le produzioni. Si fa fatica a distinguere gli artisti».Dell’industria musicale odierna cosa pensa?«Quale? Non esiste più. Ormai non c’è più il supporto, questo spersonalizza la musica, le toglie una fisicità che secondo me aveva la sua importanza. I tempi cambiano, per carità. Però parlare di 3 milioni di copie vendute non è come parlare di 3 milioni di streaming. Vendere 3 milioni di copie significa che uno deve alzarsi dal letto, farsi una doccia, vestirsi e uscire di casa per andare al negozio a comprare il disco. Oggi i brani si ascoltano nel letto col telefonino».Forse parlare di streaming serve più a fare titoli tipo «I Måneskin hanno superato i Beatles».«In modo forse non troppo raffinato io risponderei: ’sto cazzo. Massimo rispetto per i Måneskin, ma hanno scoperto l’acqua calda. Paragonarli ai Beatles…».Mi permetta una domanda venale. È stato stimato che Mariah Carey, ogni dicembre, percepisca circa 600 mila dollari in royalties dal passaggio di All I want for Christmas. Nel suo caso come siamo messi?«Se fosse lo stesso, invece della mia casa in affitto nel Canavese avrei una grossa azienda vinicola con piscina e non dovrei ancora finire di pagare il mutuo della mia prima casa a Torino comprata 20 anni fa».Quindi i Righeira non hanno mai detto «Ora scriviamo una piscina», come faceva scherzando Paul McCartney all’epoca dei Beatles?«(Ride) No. Noi abbiamo scritto le piscine quando pensavamo di scrivere canzoni».Qualcosa arriverà, comunque.«Siamo molto lontani da quelle cifre, ma un buono stipendio mensile da impiegato arriva».Sul manifesto di una sua recente serata campeggiava la frase «La musica di un’estate che non è finita mai». Mi ha fatto pensare a un dato europeo di questo 2023: solo un lavoratore su cinque può permettersi di andare in vacanza.«Negli anni Ottanta l’estate era di tutti, adesso lo è meno. Ormai tutto è regolato dall’economia, e questo non è un bene. Bisognerebbe dare più importanza al rispetto degli esseri umani, delle idee, delle diversità».A proposito di diversità, come si pone nel dibattito sul politicamente corretto?«Ha un po’ rotto i coglioni, è diventato un’esasperazione. Per me rispetto non significa politicamente corretto. Quando sento di vecchi libri di autori clamorosamente importanti ristampati e purgati dalla censura, penso che siamo alla frutta. Rispetto è anche libertà delle idee, nella misura in cui non sono idee di violenza o sopraffazione».In un programma tv, nel 1984, le chiesero conto di un’intervista in cui aveva dichiarato che il suo politico preferito era Mussolini.«Ma erano dichiarazioni provocatorie. In parte era stato anche travisato il senso di ciò che volevamo dire. Senz’altro avevamo dichiarato che eravamo attratti da una cura nel dettaglio dell’estetica fascista, qualcosa di molto moderno. Il nostro era un punto di vista artistico, se vogliamo pop. Da lì a dire che amavamo Mussolini come politico ce ne passava».Esteticamente, i Righeira avevano un’identità ben definita.«Eravamo molto anarchici, non è che avessimo uno stylist come si usa oggi. È capitato che l’ufficio stampa di Jean-Paul Gaultier ci desse gli abiti da utilizzare durante uno shooting, ma la tendenza era quella di assemblare pezzi diversi. Non ci identificavamo in una firma».A chi vi ispiravate?«Inizialmente all’immaginario underground new wave, uscendo però dalle atmosfere dark e mettendoci una botta di colori, le cravatte di Memphis. Avevamo un’immagine molto più italiana. Non volevamo assomigliare a qualcun altro, volevamo essere moderni, solari».Dicevamo di Mussolini. Comunque alla fine ripiegò su Pertini. Oggi che nome farebbe?«Sinceramente nessuno. Sono sempre stato un uomo di sinistra, ma forse oggi sono molto più deluso dalla sinistra. Preferisco interessarmi alla politica locale, fatta di rapporti diretti. Sono molto amico del sindaco di Agliè, un giovane di centrodestra. Potrei anche votarlo».1993, a 10 anni esatti dal boom di Vamos a la playa la caduta: viene arrestato per spaccio di droga, accusa dalla quale fu poi assolto. Però 5 mesi di custodia cautelare se li fece.«Dopo 30 anni ancora se ne parla, purtroppo. Sui social leggo gente seguita da centinaia di migliaia di follower che si permette di scrivere delle stronzate clamorose come fossero verità assolute. Credo che prossimamente comincerò a tutelarmi legalmente contro queste persone».Come ci finì in mezzo? Il suo era un nome che faceva notizia?«Diciamo che ero troppo vicino a tutta una serie di persone e non mi ero reso conto della pericolosità di questa vicinanza. Ma non immaginavo che potesse succedere quello che poi si verificò. Ovviamente faceva comodo tirare in mezzo anche me per dare alla vicenda una risonanza diversa. Tant’è che oggi ne stiamo parlando io e lei».Cosa le hanno lasciato quei 5 mesi?«Nonostante abbiano avuto un impatto molto duro a livello umano, credo abbiano contribuito a rendermi una persona migliore. Mi hanno insegnato che non è il caso di fidarsi troppo degli altri, e che non basta essere innocenti per non essere coinvolti in una storia di merda come quella».Voltiamo pagina. Prima parlava di underground, lì sono i suoi riferimenti culturali. Per il grande pubblico, però, lei è il pop. Come vive questa scissione?«Io mi sento anche molto pop. Vede… Andy Warhol restò underground pur avendo un grande successo. Lui è la quintessenza della cultura pop, ma è rimasto sempre con un piede nell’underground. E così sono io».Comunque ancora l’estate non sta finendo. Quella di Vamos a la playa è eterna. Però lei nel frattempo è diventato grande.«Anche se non mi va (sorride). Grande per davvero no. Lo dico sempre alla gente chiudendo i miei concerti: “Non diventate grandi mai”. Purtroppo tanti sono obbligati dalla vita a farlo. Io, col mio lavoro, posso permettermi il lusso di non crescere».Senta, ma che l’espressione «tormentone» fosse nata coi Righeira lo sapeva?«Sì, anche se i tormentoni esistevano già. Penso a Pinne fucile ed occhiali, Sapore di sale… erano tormentoni e lo sono ancora. Oggi c’è una ricerca spasmodica del tormentone, ma sono tormentoni che durano un mese. Tormentini».