2024-11-09
Tina Iacone: «Cutolo mi sposò promettendo a Dio di non fare mai più del male»
Il boss Raffaele Cutolo in tribunale in una foto d'archivio del 1986 (Ansa). Nel riquadro, la copertina del libro edito da Piemme
È appena uscito il libro sui diari segreti del boss. Ma per la vedova don Raffae’ è solo un marito e padre. «Ha pagato fino all’ultimo».Questa è la storia di Immacolata Iacone, detta Tina, la sposa bianca di Raffaele Cutolo, il fondatore della Nuova camorra organizzata. Più giovane di lui di 21 anni, fu il primo e unico uomo di cui s’innamorò e il solo di cui è ancora innamorata e fedele. Il loro matrimonio fu celebrato nel penitenziario dell’Asinara, l’Alcatraz italiana, il 26 maggio 1983. Non poterono mai consumare il matrimonio. Ciononostante, ricorrendo all’inseminazione artificiale, ebbero una figlia, Denyse. Sulla figura dell’ex-capo della Nco, definito da Enzo Biagi «più influente di un ministro della giustizia», deceduto a Parma il 17 febbraio 2021, è appena uscito il libro-inchiesta di Gianluigi Esposito e Simone Di Meo, I diari segreti di Raffaele Cutolo, edito da Piemme.Signora Immacolata, dov’è nata? «Sono nata a Napoli il 27 gennaio 1961. A sei mesi di vita mi portarono a Ottaviano, perché mamma era di Ottaviano, dove vivo ancora, con mia figlia, nella casa di mia suocera».Fin da bambina è stata molto religiosa. «Sì, quando ero piccola andavo sempre dalle suore del Carmine. Mi accompagnava mio fratello e mi veniva a prendere un altro fratello».A 17 anni e mezzo conobbe Raffaele Cutolo. Come accadde? «Sì, nel 1980. Venne a casa Rosetta, la sorella di Raffaele, per dire che mio fratello era in carcere ad Ascoli Piceno, accusato ingiustamente di un omicidio. Sulla sua famiglia, papà era molto riservato. Non eravamo ricchi, mamma lavorava su una macchina da cucire e papà in una fabbrica di cartotecnica. Volevo vedere mio fratello, ma in auto non c’era posto. Raffaele non lo conoscevo. Dopo qualche mese venne Rosetta e disse: “C’è posto anche per te”».E quindi andò ad Ascoli. «Papà disse: “Vai, ma mi raccomando”. Così l’ho conosciuto. Era il periodo quando si stava cercando la piccola Raffaella Esposito. Poi si seppe che uno zio la violentò e la gettò in un pozzo. Lui stava parlando di questo con delle persone nella sala colloqui. Disse: “Una persona così non è degna di vivere”. Non sapevo ancora fosse Cutolo e, di scatto, risposi: “Ma lei chi è per giudicare questa persona così?”. Avevo la maglietta rossa e i jeans. Mamma mi tirava la maglietta per dire: “Stai zitta”. Lui si rivolse a me: “Tu cosa faresti con una persona così?”. Risposi: “È una persona solo malata e ha bisogno di essere curata”. Disse: “Giusta deduzione, ma io la penso diversamente”. Qui finì la conversazione».Tornata a Ottaviano, che successe? «Per la festa della mamma, ricevetti da lui in dono una rosa che conservo ancora nel diario. Continuavo ad andare dalle suore e a lavorare in una fabbrichetta vicino a casa. Poi ci fu un altro colloquio con mio fratello. C’era confusione. Raffaele era in fondo e mio fratello all’inizio, tra i vari vetri. La nipote di Raffaele mi disse: “Andiamo a salutare lo zio”. Ci andammo e lui mi fece la dichiarazione, scrivendomi cose molto belle. “Quando vai a casa, rifletti”. Io quasi gli stavo dicendo di sì, ma lui disse: “No, non voglio la risposta adesso, parla con i tuoi genitori”».Quale fu la reazione di suo padre? «Provai a parlarci per una settimana intera. Poi trovai il momento. “Papà, Raffaele mi ha fatto la dichiarazione”. Disse, napoletanamente, ”Piccirille, ti spiezzo ‘e coste“, ti spezzo le gambe. Mentendo, risposi: “Ho già detto di sì”. Scappai in cameretta. Lui mi diceva: “Apri, che ti devo picchiare”. E io (sorride): “No, no, se mi vuoi picchiare io mi butto dalla finestra”. Poi intervenne mamma. Ora sono morti tutt’e due e stanno nel punto della verità. Erano le quattro di mattina, pioveva. Mi tolsi le scarpe e, scalza, andai a casa della mia futura suocera, Carolina. Da lì iniziò il mio calvario».Da lì al matrimonio, che successe? «Quando fu trasferito all’Asinara, non lo vidi per tre anni. Poi ci andai, con un viaggio lunghissimo, con il mare mosso. Al colloquio c’erano le guardie dietro e davanti, con registrazione. Si poteva parlare solo di matrimonio».La decisione di sposarvi fu comune? «La presi io. Già da Ascoli Piceno ci pensavamo. Raffaele diceva: “Stando appresso a me ti rovini la vita”. Pensavo mi prendesse in giro. Io dissi: “Vabbè, se tu non ti vuoi sposare, allora sono io che mi voglio sposare con te”».Fu complicato con la burocrazia? «Dovetti giurare, a Sassari, davanti al vescovo, di sposare Raffaele e di non lasciarlo mai».Lei aveva 21 anni, Raffaele Cutolo 42. Quale ricordo ha del matrimonio? «Ci sposò don Carlo, il cappellano del carcere. Le mogli delle guardie ci prepararono una torta. Il direttore disse: “Potete fare un’ora di colloquio, dopo la messa”. Raffaele la voleva in latino. In latino non sapevo rispondere e allora la messa fu in italiano».Dopo la messa ci fu un rinfresco? «Una bottiglia di spumante con i bicchieri di carta, la torta, una lunga tavola con un tappeto bianco e quattro sedie. Sotto la tavola c’era un compensato in legno, un divisorio. Raffaele stava di fronte a me e non ci potevamo toccare con i piedi».Aveva il vestito bianco da sposa? «Certo, mi sentivo di portarlo».Vostri familiari? «No. Solo i testimoni. Quello di mio marito fu l’avvocato Cangemi e la moglie il mio. Mamma dovette rimanere in albergo. Non la fecero venire».Niente prima notte di nozze. «Né la prima, né le continuative. Non è stato consumato niente».Cutolo ha perpetrato gravi reati. Lei ha contribuito al suo ravvedimento. «Era un cattolico fin da piccolo. Fece il chierichetto. Quando ci siamo sposati giurò davanti a Dio, davanti a me, in chiesa all’Asinara, che non avrebbe fatto più nulla di male. Il giuramento l’ha mantenuto».Non volle mai pentirsi di fronte alla giustizia terrena per avere sconti di pena. «Penso che una persona deve pagare la sua pena e non dire “mi pento per avere agevolazioni”, anche per rispetto delle persone morte. Vorrei precisare che quando un giornalista disse che Raffaele gli aveva confessato di aver fatto uccidere il vicedirettore del carcere di Poggioreale, Giuseppe Salvia, le garantisco che ciò non è veritiero. Ci sono le registrazioni e Raffaele me lo avrebbe detto. Hanno giocato sporco. Lui, la sua pena l’ha pagata fino all’ultimo».Sulla figura di suo marito, Fabrizio De André cantò la ballata Don Raffae’. «Dopo il sequestro, Fabrizio De André andava dallo stesso avvocato di Raffaele, Giannino Guiso. Gli disse: “Vorrei scrivere una canzone su Cutolo”. L’avvocato Guiso andò da Raffaele: “Posso dargli degli atti?”. “Certo”, rispose. A lui piacevano queste cose».Decideste di avere un figlio. L’unica strada era quella dell’inseminazione artificiale. «Ci diede il permesso un magistrato, mi pare a Mestre, che stava andando in pensione. Dovetti fare 500 punture. Ho sofferto tanto. Per due anni, per nostra decisione, non ci siamo incontrati. Ebbi un aborto, poi un prosciugamento e, in ultimo, fatta un’altra inseminazione, al quinto mese di gravidanza sono potuta andare da lui. Ci credevo poco, fino a quando ho visto la bambina. Fu felice, non si sapeva ancora il sesso. Quanto è nata, il 30 ottobre 2007, ho scelto di chiamarla Denyse. Lui avrebbe voluto Desiré, oppure Veronica».Poté comunicare subito a suo marito la notizia della nascita? «Sono un po’ rammaricata. All’ospedale, con la forte emozione di partorire, dimenticai di far inviare un telegramma a Raffaele. Lo seppe dal telegiornale».Il padre poté vedere vostra figlia con una certa regolarità? «La vide per la prima volta a L’Aquila. Chiese il permesso di abbracciarla. Dissero di sì, ma le guardie volevano prenderla per portarla da lui dall’altro lato. Disse: “No, la bambina non si tocca, possiamo farlo solo io e mia moglie”. Lo portarono fuori per perquisizioni. Aprirono un oblò di vetro. Dovetti stare con le mani all’esterno, mentre lui doveva metterle al centro. Le guardie si abbassarono per vedere se io toccassi la mano di Raffaele. Assurdo. Da quando è nata, l’ho portata ogni mese. Il colloquio durava 5-10 minuti. Solo negli ultimi tempi poteva stare un’ora col papà, di là».Nel 2020, suo marito, al 41-bis a Parma, versava in gravi condizioni di salute. «Arrivarono i carabinieri di Ottaviano. Mi dissero che mio marito era grave. Lo trovai in ospedale. Gli facevano l’insulina e non mangiava. Spesso cadeva a terra e non riconosceva le persone. Poi lo riportarono in carcere. Vi posso garantire che me lo sedavano. Denyse lo vide in quelle condizioni, su una sedia a rotelle. Pesava circa 45-48 chili, la faccia bianca, un velo sugli occhi. Non riconobbe neppure l’avvocato. Poi feci confusione e lo riportarono in ospedale. Tutto ripreso da telecamere. Non potevamo avvicinarci. Seppi della sua morte dai giornali».Cosa fa, oggi, Denyse? «Ha appena fatto 17 anni e studia all’istituto alberghiero per diventare cuoca. Io sono mamma al 100%, curo la biancheria, stiro…».Come ha raccontato a sua figlia la figura del padre? «Dicevo sempre che papà stava in un posto dove insegnava agli altri a non sbagliare, perché lui aveva fatto degli sbagli. Lei gli disse: “Papà, perché non chiedi scusa a queste persone?” E lui rispose: “Non posso, perché sono morte”. Lei rimase due giorni senza parlare».È ancora innamorata di suo marito? «(sorride) Sto ancora a casa sua, no? È nel nostro cuore, mio e di mia figlia. A mia figlia ha trasmesso così tanto amore che guai se qualcuno parlasse male del papà».Lo sarà sempre? «Eh sì, siamo qua. Sarebbe bello se potesse tornare in vita».Le è apparso in sogno, talvolta? «Ho pregato tanto affinché mi venisse in sogno stanotte. Non mi è successo. Ho detto anche delle preghiere diverse… Si vede che sta bene dove sta».Rifarebbe tutto quello che ha fatto? «Certo».Pensa di poter ritrovare suo marito nell’Aldilà? «Se esiste l’Aldilà, penso di sì. Io ho fede in Dio. Chi è andato un attimo nell’Aldilà ed è ritornato, ha detto che esiste. Mi auguro di sì».
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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