2024-09-13
«I trapper mi danno fastidio. Mina mi canta al telefono le canzoni che scrissi per lei»
Il cantautore Andrea Mingardi, classe 1940, bolognese autentico (Ansa)
Il cantautore bolognese: «A 20 anni se la prendono col mondo che non conoscono. Non mi capacito che sia esistito Ludwig van Beethoven e oggi ci sia gente che sta ore su TikTok».Per forza di cose, nemmeno Bologna può sottrarsi alle isterie quotidiane dell’iper-comunicazione che lascia soli. Tuttavia, Andrea Mingardi, classe 1940, fedele alla sua indole, riflessiva, moderata, dialogica e inguaribilmente incline all’ironia, è inamovibile. Guai a chi gliela tocca la tradizione della città ingiuriata dagli opposti estremismi. Certo, come ha raccontato nel suo docu-film del 2024 Bologna I love you!, i tempi del rock e del jazz, delle notti infinite e dei bomboloni alle 4 del mattino in via Mazzini, del ristorante della stazione che serviva pietanze ancora caserecce, sono un ricordo che scivola via. Ma è convinto che la città sia «ancora viva». «Le sue tagliatelle? Restano da Champions League». Oggi vive sui colli bolognesi, ma è nato in centro.«Sì. Quando sono nato, il 1° agosto, alle 19.15, l’ombra delle Due Torri era su casa mia. Era via D’Azeglio».Nei suoi ricordi di bambino?«Mia madre mi ha sempre detto che non riusciva a capacitarsi del fatto che avessi ricordi nitidi di quando avevo due anni. Bologna è sempre stata straordinaria. Non era la città trafficata e turistica di adesso e non avevamo proprio voglia di andare in guerra».I suoi che lavoro hanno fatto?«Mio padre, per sei anni, è stato costretto tra il richiamo alle armi nel ’38, la naja, un periodo di resistenza nelle colline. Era un geometra, le ha provate tutte e ha fatto di tutto per garantirsi un’esistenza dignitosa. La mamma, casalinga, di una bellezza persino fastidiosa. Era siciliana, poi visse a Roma. Il regista Alessandro Blasetti la fermò per strada per proporle di fare cinema ma, sai com’erano quelle famiglie siciliane. Sono figlio unico».Frequentò il liceo?«Sì, lo scientifico, il Righi, poi mi sono iscritto all’università - ingegneria, perché la mamma, da giovane, si era innamorata di un ingegnere - ma non ho fatto neanche un esame. In realtà m’iscrissi alla facoltà del rock’n’roll».Divenne leader dei Golden Rock Boys. Tra i vostri brani c’era Rosa rosae rock’n’roll. «La prima volta che mi hanno pagato per suonare la batteria e cantare è stata nel 1956. Scrissi io questo brano: a scuola, se c’era una cosa che non sopportavo, era il latino. Poi Celentano, non dico che copiò, ma s’ispirò per Pitagora rock». Poi cantò in un gruppo jazz con Pupi Avati clarinettista. «Bologna, in quel periodo, alla fine degli anni Cinquanta e per tutti i Sessanta, era la capitale del jazz europeo. Pupi amava suonare il clarinetto, anche se masticava amaro perché c’era un fenomeno che, senza aver studiato, sapeva far suonare anche un sasso. Si chiamava Lucio Dalla. Con Pupi ho inciso il mio primo disco, No girls for me tonight. Ora viene poco a Bologna, ma lo sento sempre con grande affetto». Quando ha incontrato Mina per la prima volta? «L’ho incontrata in tempi non sospetti, credo nel ’58, perché ero amico del povero fratello Geronimo, che poi morì giovanissimo in un incidente stradale. Mina venne a trovarmi a Modena dove io suonavo il rock al Mocambo Club. Un cameriere mi disse: “Una ragazza con un signore là in fondo ti vogliono parlare”. La ragazza era Mina, che allora si chiamava ancora Baby Gate, con il maestro De Vita, noto jazzista. M’invitarono a Milano a fare un provino per una casa discografica. Ero un imbecille e amavo solamente andare sul palco. Non ci andai. Ma il rapporto rimase. Era una ragazza di una freschezza e bellezza uniche. Poi andai a trovarla a Cremona, era nei Solitari, incise Tintarella di luna, facemmo spettacoli insieme e da allora non ci siamo più persi di vista». Ci fu del tenero tra lei e Mina?«No ma, sai, io stavo più tempo con suo fratello che con lei, oddio, non dico che mi sarebbe dispiaciuto. L’affinità di gusti musicali è sempre rimasta. Quando sono andato a trovarla a Lugano con la mia compagna, lei ha estratto dalla sua discoteca il mio primo Lp Datemi della musica e ha detto: “Questo è un monumento che ascolto ogni mese”». Per lei ha scritto più di venti canzoni. La preferita di Mina? «Ne ho scritte per lei 24-25. Nel prossimo disco, che uscirà per Natale, ce n’è un’altra mia e di Tirelli, Goodbye my love, che lei canta. Noi, insieme, abbiamo cantato solo Datemi della musica e Mogol-Battisti. Credo che quella che Mina preferisce sia Ogni tanto è bello stare soli. Ogni tanto mi telefona e mi canta le canzoni che ho fatto per lei». Lei a Bologna incontrò grandi jazzisti, come Miles Davis. «Sì, perché Alberto Alberti e Cicci Foresti, i due grandi organizzatori, facevano cose e poi si andava a mangiare. Essendo batterista in erba e appassionato di jazz, ero accettato di buon grado nel gruppo che seguiva i fenomeni. In tutta Bologna c’erano almeno 40 ristoranti aperti tutte le notti. Andammo al Continental, davanti all’Arena del Sole, era vestito tutto di nero, occhiali neri, burbero, schivo, capitai vicino a lui. Gli chiesi: “Mr Davis, mi dice qualcosa di Charlie Parker?”. E lui, senza girarsi, mi rispose: “A fuckin’ man”, una testa di cazzo insomma. Mangiammo tortelloni burro e pomodoro. Ma ero molto più in confidenza con Chet Baker, che ha anche abitato a Bologna. Si andava nei locali, aveva sempre la tromba, mi sussurrò in un orecchio Look for the silver lining». Molti suoi testi surreali in vernacolo bolognese sono uno spasso. A io’ vest un marzian. «Una sorta di folgorazione perché, nel ’74, immaginai la visita di un marziano a un contadino nei pressi di San Giovanni in Persiceto che, ritrovando distrutto il pianeta in cui aveva vissuto, rivedeva, nel contadino che mangiava cipolla, la campagna di centinaia di anni prima». Pus, del 1978, sempre in dialetto, una satira del punk.«Il mio famoso slogan è “sopra il punk la capra camp”. Un rock scatenato. Ho sempre avuto l’orologio troppo avanti. Credo di essere il cantautore e il rocker più anziano che, in estate, ha fatto 40 concerti. Le mode successive al rock, come il punk, mi hanno sempre dato un po’ fastidio, esagerazioni, come i rapper e i trapper. A vent’anni se la prendono con violenza con un mondo che non conoscono». In Sfighé, del 1976, canta: «Sono sfigato di una sfiga che, se mi casca l’uccello per terra, mi rimbalza nel culo». «È l’apoteosi. Pensa che questa frase, che avevo parzialmente orecchiato in un bar tra due che si vantavano di essere uno più sfortunato dell’altro, era una battuta accanto un’altra, sempre detta da uno dei due. Attorno s’era formato un pubblico. Uno diceva: “Sfortunato te? Io sono così sfortunato che, se in tutto il mondo fanno una lotteria di donne, io vinco mia moglie”. Erano due operai, due grandi autori, di cui la tv avrebbe bisogno anche oggi. Quella canzone era una sorta di esorcismo».Debuttò a Sanremo 1992 con il brano Con un amico vicino, in coppia con Alessandro Bono, autore del bel testo Gesù ritorna. Purtroppo perse il suo amico, a causa dell’Aids. «Scriveva benissimo. Quando la casa discografica ci ha messo insieme, dopo trenta secondi eravamo già amici. Purtroppo, anni prima, commise un errore e questo errore, che oggi sarebbe curabile, non lo ha perdonato. Se n’è andato a 30 anni. Ricordiamo con un concerto, a Milano, il trentennale della scomparsa, il 5 ottobre 2024. La sua mamma mi chiama sempre». Lo ricordò con il brano Canto per te. «Ogni volta che ti penso / canto per te / come se la cosa avesse un senso / […] e mi fa meno paura / questa oscura immensità». «Credo che la paura che abbiamo tutti sia quella del niente. Se ciò che stiamo facendo riteniamo possa avere anche un minimo senso, quando si spegne la luce, se non c’è nulla, è come se avessimo zappato nel mare. Io il senso, fin che sono al mondo, lo trovo e poi sarà quel che sarà». Ha scritto una canzone per gli Stadio dedicata a Gaetano Scirea e Giacinto Facchetti. «Gaetano lo stimavo e una volta lo incontrai. Con Giacinto eravamo amici e ci incontravamo d’estate a Milano Marittima. Lui ogni tanto sfotteva la mia passione per il Bologna. Ho giocato nel Bologna, come portiere, dai 14 ai 19 anni, arrivando fino alla Nazionale juniores. Poi sono uscito dalla porta e ho cominciato a cantare. Siamo in Champions League, vediamo che succede. In Nazionale Cantanti ho giocato più di 500 partite da centrocampista». Nel suo docu-film Bologna I love you! sostiene che ’68 e ’77 decretarono «la fine dello spensierato boom». «Dopo moralismi, perbenismi e ipocrisie, Bologna fu la prima città a dimostrare aperture nei comportamenti sessuali. Che la città fosse di sinistra lo sapevano tutti. Ma non c’erano mai state esagerazioni di tipo sovietico. Poi le frange estremiste hanno cominciato a scontrarsi e sono nati i problemi. Era difficile, per uno come me, che amava musica, cultura, rock, funky, jazz, attribuire la colpa agli uni anziché agli altri. In piazza c’erano gli autoblindo. È successo di tutto». Dal 1999 al 2004 centrodestra a Bologna, con Giorgio Guazzaloca. Poi ancora centrosinistra, con Sergio Cofferati. Siamo giunti all’epoca rincoglionente dei social, come dice nel brano del 2018, Ci vuole un po’ di rock’n’roll.«Guazzaloca aveva fatto la professione di macellaio, era un mio amico. Nessuno sapeva perché avesse accettato quella candidatura. Non si sentì una grande differenza, tanto meno quando arrivò Cofferati, che poi si sgualcì in un compito che forse non amava. Renzo Imbeni, Giuseppe Dozza, Walter Vitali, brave persone che, se avessero potuto, avrebbero dialogato col mondo. C’è gente che sta su TikTok tutti i giorni, non ha tempo per leggere. Porca troia, com’è possibile che sia esistito Beethoven e ora una marea di scribacchini che non fa altro che confondere le idee?». Secondo lei, Lucio Dalla vede la sua Bologna?«Lo spirito di Lucio e il suo talento aleggiano dappertutto. Eravamo amici. Ci siamo frequentati per più di 50 anni. Quando sono in centro, faccio fatica a non vederlo».
13 ottobre 2025: il summit per la pace di Sharm El-Sheikh (Getty Images)
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